Buon compleanno! / Le armonie irrisolte di Joni Mitchell

7 Novembre 2019

Di colori e coloriture nelle sue canzoni

 

Una pittrice sviata dalle circostanze. È una frase di Joni Mitchell che viene spesso citata, una sorta di preambolo o di avvertenza rispetto a tutto quanto si potrà poi dire o scrivere sulle sue canzoni. Non fosse stato per i guai, spiegò anche la Mitchell, non avrei mai intrapreso la carriera musicale. Altrove sostenne che Both Sides Now, uno dei suoi brani più famosi, era nato dal trauma dell’essere stata costretta a dare in affido la figlia a metà anni ‘60. Diceva anche che per non farsi sviare del tutto s’era messa a disegnare le copertine dei suoi dischi: Song of seagulls, l’album d’esordio del 1968, e poi Clouds (1969), Ladies of the Canyon (1970), Court and Spark (1974), Mingus (1979), Wild Things Run Fast (1982), Turbulent Indigo (1994), Taming the Tiger (1998), Both Sides Now (2000), fino a Travelogue, pubblicato nel 2002.

 

Musica e pittura. Lo yin e lo yang di Joni Mitchell. Si ritiene fortunata perché è sempre riuscita ad alternare le due attività. Quando le canzoni si rifiutavano di prendere forma, si metteva a dipingere. La creatività a maggese. Lasciava riposare il terreno come i contadini, amava ripetere. Goethe sosteneva che musica e pittura sono arti che non possono essere messe a confronto, “altrettanto poco di come lo possono due diversi metri posti l’uno vicino all’altro”. Nel caso di Joni Mitchell l’accostamento è però necessario. Il sassofonista Tom Scott, leader del gruppo L.A. Express che accompagnò Joni a metà degli anni ’70, svelò il genere di indicazioni che Joni Mitchell, da autodidatta, era solita dare ai musicisti in studio d’incisione: un po’ più di giallo qui; a loro l’incombenza di trasformare quella richiesta di colore in suono.

 

Chi conosce il repertorio di Joni Mitchell sa quanto le sue canzoni trabocchino di colori. Ce n’è ovunque, colori primari, secondari, terziari, sfumature e ombreggiature d’ogni tipo, colori che Joni usa in modo molto diverso, a seconda delle circostanze e a seconda dell’umore da illustrare. Fin dal primo disco, Song of seagulls, appare evidente che Joni si serve dei colori per animare le sue storie e profilare i suoi personaggi. La prima canzone del disco è I had a king e si apre su questi versi: I had a king in a tenement castle / Lately he’s taken to painting the pastel walls brown (Avevo un re in un castello in affitto / Ora s’è messo a dipingere i muri pastello di marrone). Una mano di pittura per cambiare vita. È un’immagine che diverrà frequente in Joni: dipingere un quadro o affrescare una parete per reinventarsi. La seconda canzone di quel primo disco, Michael from mountains, descrive un cielo grigio, le chiazze d’olio nelle pozzanghere a guisa di taffetà, c’è un parco che rabbuia, gli impermeabili gialli sull’altalena, le cucine in carta da parati, il sole che illumina il sorriso sul dipinto appeso alla parete. La terza canzone, Night in the City, attacca così: Light up light up / Light up you lazy blue eves (illuminatevi illuminatevi / illuminatevi voi sere pigre e tristi). Joni è già maestra nel far emergere ciò che succede agli esseri umani nelle zone d’ombra fra la luce e il buio: colors go flashing in time (i colori s’accendono a tempo); colors go waltzing in time (i colori danzano a tempo di valzer). La quarta canzone di quel primo disco, Marcie, si apre con Marcie che, nella sua giacca a fiori, entra in uno spaccio in cui si vendono delle caramelle. E di queste caramelle veniamo subito a sapere che reds are sweet and greens are sour (quelle rosse sono dolci, più aspre quelle verdi). Joni usa i colori per delimitare i confini entro cui si compie la vita di Marcie, ma le basta un verso per chiarire che ciò che più le sta a cuore non si sta realizzando: still no letter at the door (ancora nessuna lettera nella cassetta). Quelle caramelle rosse e verdi fra cui scegliere (dolci oppure aspre), anticipano ciò che verrà esplicitato di lì a poco: red is autumn, green is summer – rosso è l’autunno, verde l’estate; greens are turning and the sand / all long the ocean beaches / stares up empty at the sky – Ma le foglie cambiano colore e la sabbia / Lungo le spiagge dell’oceano / Giace deserta, contemplando il cielo. 

La sabbia lungo le spiagge dell’oceano giace deserta, contemplando il cielo. Pare la descrizione di un quadro che a sua volta descrive uno stato d’animo. E poco oltre: red is stop and green’s for going – stop col rosso, via libera col verde; e oltre ancora: red is angry, green is jealous – rossa la rabbia, verde la gelosia. La vita di Marcie riassunta in due colori.

 

 

Oh I am a lonely painter

I live in a box of paints

 

(Oh, sono una pittrice solitaria / Vivo in una scatola di colori) da A case of you, contenuta nello storico disco Blue.

 

Chi scrive, per gioco, ha fatto un esperimento. Nulla che abbia pretesa scientifica, ma sono andato sul sito internet di Joni Mitchell e, alla pagina lyrics, lì dove sono archiviati tutti i testi delle sue canzoni, ho inserito alcuni colori nel motore di ricerca. Mera curiosità. Come distribuisce Joni i colori nelle sue canzoni? Quante volte usa la parola giallo e quante la parola nero? Questo l’esito della ricerca:

 

il colore giallo (yellow) appare in 14 canzoni;

il rosso (red) appare in 18 canzoni;

il verde (green) appare in 18 canzoni;

il bianco (white) appare in 24 canzoni;

il nero (black) appare in 28 canzoni;

il blu (blue) appare in almeno 35 canzoni (35 è il numero massimo di risultati che restituisce il motore di ricerca sul sito di Joni). Al blu andrebbero aggiunti anche l’indaco (indigo) che appare in due canzoni, il pervinca (periwinkle) usato in una canzone e il turchino (turquoise) usato in una canzone.

 

Nelle canzoni di Joni Mitchell insomma prevale il colore blu, seguito a ruota dal nero. Un risultato che non stupirà i seguaci di Joni, e che di primo acchito pare avvalorare l’affermazione della stessa Joni Mitchell secondo cui I sing my sorrow and I paint my joy (canto il mio dolore e dipingo la mia gioia). In realtà si tratta di un gioco o poco più, ma intanto sappiamo che quando mette mano ai colori in canzone, Joni mostra una predilezione per le tinte scure.

 

Statistiche a parte è interessante notare come nelle sue canzoni, da pittrice, Joni Mitchell usi sovente il blu come sfondo sul quale proiettare ogni sorta di disagio o dissidio relazionale o psicologico. Quanto più intenso il tono di blu, tanto più emerge in primo piano l’entità del conflitto di cui sta cantando. In alcuni casi – si pensi in particolare a una canzone e a un disco come Turbulent Indigo, sulla cui copertina Joni si ritrasse con l’orecchio mozzato come Van Gogh – la cupezza del tono di colore s’accompagna a un’aggettivazione che riflette uno stato d’animo d’inquietudine: indaco turbolento. In quella vera e propria dichiarazione d’affezione cromatica che fu la canzone Blue, Joni si dona letteralmente in sacrificio alla malinconia: Blue, here is a shell for you / Inside you’ll hear a sigh / A foggy lullaby / There is your song from me (Blu, a te una conchiglia / Dentro ci sentirai un sospiro / Un’eco di ninnananna / La mia canzone per te). Per cogliere al meglio l’originalità delle canzoni di Joni Mitchell è però necessario fare un passo ulteriore. Il lavoro sul colore svolto da Joni in ambito poetico/psicologico si sposa a un’audace e originale ricerca sul piano musicale. È infatti lì, in ambito di armonie, che si dichiara il vero colore delle canzoni di Joni Mitchell. Spiegare il perché necessita non solo di un nuovo paragrafo, ma anche di entrare nel merito di ciò che succede in concreto sul piano musicale.

 

 

Joni Mitchell da bambina amava suonare la ghironda al contrario. Aveva scoperto che così facendo poteva trarne degli intervalli melodici sorprendenti. Suonarla per il verso giusto le sembrava noioso. Abbandonata la ghironda imbracciò la chitarra, ma invece di suonarla al contrario scoprì qualcosa che era persino meglio, il fatto cioè che una chitarra la si poteva accordare in molti modi diversi. E qui, ahimè, bisogna farsi un po’ tecnici. Una chitarra a sei corde, di norma, è accordata come segue (dalla corda più bassa a quella più alta): MI-LA-RE-SOL-SI-MI. Grazie a un amico, Joni Mitchell scoprì ch’era possibile accordare la chitarra nel modo dei bluesman del delta del Mississippi, l’accordatura del banjo poi trasferita sulla chitarra dai suonatori di slide guitar, accordatura detta di SOL aperto (dalla corda più bassa a quella più alta): RE-SOL-RE-SOL-SI-RE. Significa che suonando le corde a vuoto, con questa accordatura, il chitarrista ottiene un accordo di sol maggiore, e che premendo tutte le corde con l’indice sul quinto tasto dello strumento (un semplice barré), si ottiene, ad esempio, un accordo di do maggiore (al settimo tasto, un re maggiore, e via di seguito). Rispetto a quella classica, questa accordatura offre fra gli altri il vantaggio di semplificare le cose sul piano esecutivo: meno dita coinvolte, diteggiatura elementare, la possibilità, per il chitarrista slide, di suonare degli accordi maggiori spostandosi velocemente lungo il manico dello strumento.

 

L’accordatura di sol aperto in quegli anni fu adottata, oltre che da Joni Mitchell, anche da numerosi musicisti d’area rock, e in particolare dal chitarrista dei Rolling Stones Keith Richards. A introdurre Richards all’accordatura di sol aperto era stato un virtuoso di chitarra slide come Ry Cooder, profondo conoscitore della musica blues. Keith Richards si affezionò a tal punto a quell’accordatura da farne il suo marchio di fabbrica. Molti dei riff più famosi degli Stones sono eseguiti da Keith Richards proprio nell’accordatura di sol aperto: Brown Sugar, Honky Tonk Women, Gimme Shelter, Beast of Burden, Start me up… Provate a suonare questi brani alla chitarra con l’accordatura standard e vi renderete conto che non funzionano. Accordate la chitarra in sol aperto e il suono degli Stones vi si spalancherà davanti in tutta la sua pienezza timbrica. Jimmy Page, altro chitarrista cresciuto col blues, usò quella stessa accordatura in alcuni celebri pezzi dei Led Zeppelin: Black Country Women, That’s the Way, In my Time of Dying, Going to California.

 

 

Esplorare nuove armonie contribuì ad ampliare a dismisura l’orizzonte espressivo del rock d’inizio anni ‘70. Joni Mitchell aveva dapprima operato sul versante del folk, ma ebbe poi l’ardire di trasferire quelle stesse nozioni, e con risultati stupefacenti, in ambito di canzone jazz. Nell’esplorare le diverse accordature alla chitarra Joni esplorava sé stessa: gli accordi complessi che utilizzo in molte mie canzoni contengono sfumature emotive che all’interno delle leggi della musica sono proibite, dichiarò Joni Mitchell anni dopo. Va anche detto che Joni da bambina aveva contratto la poliomielite, e che la scelta di adottare delle accordature aperte fu anche dovuta alla difficoltà di adattare la mano sinistra alla complessità di alcuni accordi eseguiti con l’accordatura classica. Una scelta obbligata si trasformò ben presto in un accorgimento espressivo di grande efficacia. Nelle accordature aperte Joni Mitchell cominciò a riflettere le coloriture e gli umori del suo mondo interiore. Componendo si sedeva con la chitarra in grembo e accordava la chitarra così come glielo suggeriva il suo stato d’animo del momento. Rinunciando a comporre nell’accordatura standard Joni si comportava né più né meno come fa il pittore quando impasta i colori sulla tavolozza. Non si accontenta di quelli disponibili sul mercato, ma ne crea di propri. Le canzoni di Joni Mitchell hanno un colore a sé, unico, ognuno dato dal particolare tipo di accordatura adottata. Da quelle composte nell’accordatura di sol aperto (Nathan La Franeer, Marcie, Little Green, The Circle Game, Morning Morgantown, Roses Blue, Underneath the Streetlight, Cold Blue Steel & Sweet Fire – ma con un do al posto del re sulla corda più bassa –, Electricity – con un sol al posto del re sulla corda più bassa, corda che non è suonata da Joni, va semplicemente in risonanza “per simpatia”, come succede col sitar, la viola d’amore o il violino di Hardanger nella tradizione folklorica norvegese), a quelle composte con nell’accordatura di mi aperto (Chelsea Morning, Both sides now, Big Yellow Taxi), oltre a numerose altre – nel corso della sua carriera, stando alla stessa Joni, ne impiegò più di sessanta, una diversa dall’altra. Esprimendo le armonie che rappresentano le mie emozioni in tutta la loro complessità, cerco di fare qualcosa di nuovo, al di fuori delle regole del jazz, disse anche Joni.

 

 

Bisogna sottolineare che Joni Mitchell fece tutto questo avendo un’idea tutto sommato vaga di quel che stava combinando sul piano musicale. Lo fece grazie al suo intuito o, se preferite, grazie al suo genio. Anni dopo, quando conobbe il sassofonista Wayne Shorter, uno dei più musicisti jazz più preparati sul piano teorico, Shorter le fece notare che le sue canzoni abbondavano di accordi di quarta, e che da un punto di vista armonico gli accordi di quarta sono degli accordi sospesi. Un accordo sospeso contiene una domanda, le disse Wayne Shorter, manca di risoluzione. E allora Joni, per tutta risposta, cominciò a infilarne uno dopo l’altro, per destabilizzare ancor più le sue canzoni. Più sospensione, più domande. Invece di chiudere il quadro armonico con un accordo maggiore, ne aggiungeva altri di quarta per accrescere il senso di incertezza, e quando infine si decideva a risolvere quella sospensione, disse Joni, era come un colore complementare, il cielo che si apre. Senza scendere ulteriormente nel dettaglio si può dire che questa narrazione perennemente irrisolta sul piano armonico si sposava a meraviglia con il travaglio psicologico e i conflitti relazionali che Joni esplorava in canzone. Quelle armonie inconsuete creavano degli spazi sonori mai sentiti prima, e dentro quegli spazi inesplorati Joni si mise a nudo, dipingendosi in quella sospensione e in quella incertezza senza falsi pudori. 

 

She will love them when she sees them

They will lose her if they follow

And she only means to please them

And her heart is full and hollow

Like a cactus tree

While she’s so busy being free

 

(Quando li incontrerà, li amerà / Ma nel seguirla, la perderanno / Intende soltanto accontentarli / Il suo cuore è pieno e cavo / Come quello di un cactus / Mentre è troppo impegnata a essere libera), dalla canzone Cactus, contenuta nell’album Song to a Seagull, 1968.

 

 

 

Joni Mitchell suonava la chitarra un po’ come Thelonious Monk suonava il pianoforte, con mani che non sembravano adatte allo scopo. È stata una delle poche artiste di cui si può ragionevolmente dire che ha inventato un modo di fare canzone che prima non c’era, proprio come Monk ha inventato un modo di suonare il jazz ch’era tutto suo. Che poi lì dentro, da donna costretta a muoversi in un ambiente fortemente declinato al maschile, sia anche riuscita a disegnare una parabola di libertà fra le più coerenti e luminose di quegli anni, non fa che accrescere l’ammirazione. Nel 1965, quando fu costretta a dare in affido la figlia, disse che per superare il trauma cominciò a scrivere canzoni. Nel 1997, quando finalmente conobbe la figlia, dopo trentadue anni di armonie irrisolte, d’un tratto, confessò, le canzoni smisero di presentarsi. La vena s’era esaurita. Da allora si dedicò prevalentemente alla pittura, con soltanto qualche episodico ritorno alla canzone (lo splendido concerto Painting with Words and Music, ad esempio, registrato nel 1997). 

 

Sono sempre stata sul punto di esser bella, ha dichiarato Joni anni addietro in un’intervista. Non so perché ma mi sembra una frase bellissima. Netta e profonda. Nell’apparente ripiego da un canone maggiore cogliamo un’essenza che si misura meglio su un margine, proprio come le sue canzoni. Disse anche che quando cominciò a scrivere smise di truccarsi. Prese fard e rossetto e li applicò alle canzoni. Era convinta, disse, che nessun trucco l’avrebbe resa più bella. Si sarebbe fermata un attimo prima, sul punto di esser bella. Era lì, su quel ciglio, che si sarebbe sforzata di descrivere il suo cuore.

 

Joni Mitchell, Black Crow, da Painting with Words and Music

 

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Di Joni Mitchell l’editore Houghton Mifflin Harcourt ha pubblicato il 22 ottobre scorso Morning Glory on the Vine – Early Songs & Drawings, un volume che raccoglie riproduzioni di acquerelli e testi manoscritti che Joni aveva stampato in cento esemplari nel 1971, subito dopo l’uscita di Blue, con l’intenzione di regalarli agli amici per Natale. Al materiale originale questa nuova edizione aggiunge altri disegni d’epoca, oltre a una prefazione inedita della stessa Joni Mitchell.

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