Svampa e Brassens: Mì son 'me l'erba matta

20 Luglio 2024

Pur detestando viaggiare, nella primavera del 1958 Georges Brassens si lasciò convincere dall’impresario Jacques Canetti, fratello di Elias e responsabile della sala da concerti Les Trois Baudets di Parigi, a recarsi a Roma per un breve soggiorno. Il 30 marzo Brassens registrò un recital in RAI, il giorno dopo tenne un concerto al Teatro Club (secondo Canetti con Boby Lapointe, Pierre Étaix e Pia Colombo, mentre sulla locandina dello spettacolo spiccano i nomi di Gérard Sety e del gruppo vocale Les 4 barbus), e il 1° aprile tenne un secondo concerto per gli studenti al Teatro Quirino. A detta dello stesso Canetti la prima parte del primo concerto fu un successo. Quando però Brassens salì sul palco per la seconda parte, il pubblico cominciò ad alzarsi dalle sedie e a lasciare la sala alla chetichella. Sia stato il proverbiale impaccio di Brassens in scena, il terrore che sprigionava dai suoi occhi ogniqualvolta si trovava davanti del pubblico, o il fatto che le sue canzoni fossero incomprensibili ai più e non particolarmente moderne sul piano musicale, non è dato a sapere. Sappiamo però che la ben nota reticenza di Brassens a esibirsi di fronte a un pubblico non di lingua francese va fatta risalire proprio all’insuccesso di quel suo primo concerto romano. Quanto allo speciale diffuso dalla RAI sappiamo pure che lo stesso fu seguito in casa Svampa a Milano da nonno Ferdinando e dal nipote Nanni. Il nonno, prima che lo chansonnier terminasse il suo recital, si voltò verso l’estasiato nipote e gli disse: ma quel pover omm lì e gh’ha da avègh di preoccupaziòn. Doveven minga fal cantà stasèra.

Col senno di poi potrebbe quasi essere letto come un passaggio di consegne, ma fra l’estate e l’autunno nel 1964, sessant’anni fa, conclusa l’esperienza torinese dei Cantacronache (1957-1963), a Milano succedono almeno tre cose importanti in ambito di canzone. La prima è che a luglio Enzo Jannacci pubblica il primo disco a suo nome, La Milano di Enzo Jannacci, dodici brani, oggi tutti dei classici, da El portava i scarp del tennis a T’ho compraa i calzett de seda (testo di Dario Fo), da Quella cosa in Lombardia (testo di Franco Fortini) a Ma mi (testo di Giorgio Strehler). La seconda è che in un night club del centro, il Capitan Kid, Nanni Svampa incontra Lino Patruno, chitarrista jazz già noto al Santa Tecla, e la soubrette Didi Martinaz, ex valletta di Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello in tv. Fra i tre c’è dell’intesa e decidono di inventarsi qualcosa. Sono però dell’avviso che serva un quarto elemento, qualcuno che abbia uno stile diverso dal loro e che completi l’idea di cabaret che hanno in mente. Salta fuori il nome di Roberto Brivio, il quale in quei giorni si esibisce al Derby di Enrico Intra cantando storie di becchini e di funerali di nero vestito. Nel giro di poco nascono I Pipistrani, un quartetto che riprende la lezione di certo cabaret francese e che guarda a un gruppo amatissimo in Francia come Les Frères Jacques. Dopo l’esordio al Capitan Kid I Pipistrani vengono scritturati dal ristorante Boccaccio, diecimila lire a sera più la cena. Il gruppo cambia ben presto nome adottando quello de I Gufi (L’orangotango, fra le tante canzoni memorabili) dove accanto a Svampa (il cantastorie), Patruno (il cantamusico), Brivio (il cantamacabro) e dopo la rinuncia della Martinaz (si narra di un fidanzato geloso), s’aggiunge anche Gianni Magni (il cantamimo), già allievo di Strehler al Piccolo.

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La terza cosa che succede a Milano in quei mesi è che, accanto ai siparietti, alle battute e alle canzoni originali, nel repertorio dei Pipistrani fanno la loro apparizione le prime canzoni di Georges Brassens cantate in meneghino. Nanni Svampa adora Brassens e così, ci si rende presto conto, il pubblico milanese. Svampa segue Brassens da molto prima del recital romano trasmesso in RAI, e questo grazie alla Silva, una professoressa di liceo di francese che gli aveva fatto scoprire la canzone francese e i chansonnier. In un’intervista concessa a TeleTicino nel 2002 e riportata nel libro Il mondo di Nanni Svampa. Vita, morte e miracoli di un cantastorie di Michele Sancisi (Sagoma Editore), Svampa dichiarò: “A volte mi chiedono perché Brassens e non Brel o un altro. È come chiedere a qualcuno perché hai sposato tua moglie e non un’altra. Sarà il suo modo di cantare molto stretto, sarà per quei testi strani in una lingua in parte inventata da lui… Insomma, ho trovato un modello e mi sono detto: ‘ecco, io da grande vorrei essere un po’ come quello lì’. Questa è stata la mia folgorazione, da lì è nato tutto”.

E così Nanni Svampa comincia a tradurre Georges Brassens in meneghino. La scelta del dialetto è naturale. È la lingua ufficiale del cabaret e della canzone milanese di quegli anni. È la lingua delle osterie sui Navigli e in genere dei Trani, delle case di ringhiera, dei quartieri da cui Enzo Jannacci, Walter Valdi (sempre del 1964, in piena euforia per la bossa nova, la mitica Busa noeuva), Cochi e Renato o il primo Gaber traggono ispirazione (qui Gaber con Maria Monti, e qui con Ornella Vanoni, sempre nel 1964; qui invece Giorgio Strehler accompagnato da Fiorenzo Carpi, e qui Dario Fo interprete di La luna è una lampadina). E poi è l’idioma con cui Nanni Svampa ha maggior dimestichezza. Meneghino con reminiscenze verbanesi, sponda magra di Sangiano (Lombardia) e sponda ricca di Cannobio (Piemonte) sul Lago Maggiore, da dove provengono i nonni e dove Svampa torna non appena può per uscire a pesca col dinghy di papà Napoleone, detto Nino, o per raggiungere in bicicletta le feste di paese, costeggiando il lago.

Mostro sacro della canzone in patria, Georges Brassens all’estero non gode della fama di Jacques Brel, di Edith Piaf, di Charles Aznavour o, più avanti, di Serge Gainsbourg. La lingua di Brassens è complessa, non soltanto è più difficile da tradurre, ma per chi non mastica bene il francese è anche più difficile da capire. Il modo in cui Brassens mescola argot, arcaismi ed espressioni popolari, l’abilità con cui inanella giochi di parole, il modo in cui dispone la strofa piegandola alle più diverse tecniche poetiche, quella sua originale prosodia fatti di allitterazioni e di assonanze, di riferimenti alti (Villon, Verlaine, Hugo, i suoi eroi sul piano letterario), sommata all’umorismo e all’ironia di derivazione popolare che sono l’asse portante di tutta la sua produzione, e infine lo sguardo partecipe, la pietas, quel modo di catturare con sottigliezza e precisione, senza affanno e senza malizia, l’incanto e la tragedia della condizione umana… Tutto questo dovette esercitare grande fascino sul giovane Nanni Svampa. Nelle canzoni di Brassens non ritrovava soltanto l’umanità che andava cercando nel mondo, ma anche la perfetta combinazione di leggerezza e profondità di cui la scuola milanese a sua volta si stava facendo portatrice: l’osteria e la poesia, la barzelletta osé e la dimensione teatrale, la complicità con gli sbandati e la messa in scacco del potere.

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Nanni Svampa fu tra i primi a confrontarsi con la difficoltà di tradurre le canzoni di Brassens in un altro idioma. In italiano ci avrebbero poi provato anche Fabrizio De Andre’ e Beppe Chierici, Giorgio Conte e Giuseppe Setaro, più di recente Alessio Lega – cantore e traduttore di pregio, sia che si tratti di traduzioni dal repertorio francese, antico o moderno, sia dal polacco, dal ceco, dal catalano o dal russo, si veda in particolare il bel disco dedicato al russo Bulat Okudžava, Nella corte dell’Arbat. In lingua inglese Brassens l’hanno cantato Jake Thackray, Graeme Allwright (in buona parte grazie alle traduzioni dello scozzese Andrew Kelly), Maxine Green o l’irlandese Joseph Doherty. In lingua spagnola come non ricordare le belle versioni di Paco Ibáñez, più recentemente quelle di Eva Denia, dei cileni Eduardo Peralta e Angel Parra. In catalano quelle di Joaquìn Carbonell e di Miquel Pujadó. In tedesco quelle di Wolf Biermann, di Franz-Josef Degenhardt e di Ralf Tauchmann. In svedese quelle di Thorstein Bergmann, in russo quelle di Alexandre Avanessov, in creolo quelle di Sam Alpha e Danyel Waro, in finlandese quelle Tuula Amberla, in ebraico quelle di Yossi Banaï, in giapponese quelle di Koshji Fubuki, in polacco quelle di Justyna Bacz…

Proprio come in Brel o in Ferré, in Brassens sempre colpisce l’aderenza fra la vita e l’opera. Le sue canzoni sono specchio di un modo di vivere oltre che di uno sguardo sul mondo, e di questa aderenza, pur nelle rispettive dissomiglianze e qualche discordanza, tutti e tre gli chansonnier andavano fieri. La bravura di Nanni Svampa fu quella di aver saputo abbracciare pienamente la lezione propria a certa chanson francese di stampo esistenzialista e di averla piegata a una realtà diversa, simile ma pur sempre diversa. Di Brassens seppe far suo anche l’anti-charme: per essere amato dal pubblico non era tassativo piacere. Anzi, molto del fascino di un personaggio come Brassens risiedeva proprio nella sua apparente scontrosità e nel rifiuto della seduzione da copertina.

Riascoltando le riletture di Svampa delle canzoni di Brassens è impossibile non notare come queste canzoni mantengano, nella versione meneghina, oltre al ritmo del verso, non soltanto tutto il loro sapore, la ricchezza di immagini poetiche, l’invenzione linguistica e il senso del comico, ma arrivino a combaciare in modo sorprendente con il mondo dal quale Svampa attingeva sul piano umano e al quale puntava sul piano artistico. Un bell’esempio in questo senso è La mauvaise herbe (L’erba matta):

Je suis de la mauvaise herbe,
braves gens, braves gens
C'est pas moi qu'on rumine et c'est pas moi qu'on met en gerbe

(Io sono l’erbaccia, brava gente. Non sono io ad essere ruminato e nessuno farà di me una ghirlanda) 

Che Svampa traduce così:

Mì son 'me l'erba matta,
brava gent, brava gent,
l'è inutel mettom l'oeuli per condimm in insalada

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La misura di Svampa, e ciò che in parte distingue il lavoro di un traduttore di canzoni da quello di un traduttore letterario, è che si prende la libertà di cambiare di sana pianta il verso di Brassens con un’invenzione poetica che non ha niente da invidiare a quella di Brassens (anzi), mantenendone però intatto il ritmo e il senso:

Non serve aggiungermi dell’olio per condirmi in insalata.

Riprendendo e mutuando più avanti l’immagine dell’erba affastellata:

Mì me par nò che per fà l'amor
che voeura i vergin e i mazz de fior.

(Non mi sembra che per far l’amore ci vogliano le vergini e i mazzi di fiori)

Le traduzioni dialettali delle canzoni di Georges Brassens in Nanni Svampa sono delle reinterpretazioni che pur rispettando l’originale lo reinventano, adattandolo alla nuova realtà nella quale la canzone viene a cadere. Non sapessimo che è tale, difficilmente l’adattamento in Svampa si lascerebbe cogliere. Molti dei versi del Brassens di Svampa sono versi che potrebbero stare in una canzone dialettale dei Gufi o in una tirata del primo Jannacci. L’intuizione di tradurre Brassens in dialetto milanese fu certamente azzeccata, ma la bontà del lavoro di Svampa su Brassens avrebbe forse meritato, nel tempo, maggior fortuna critica.

Fa eccezione fra i pochi il saggio Brassens e i suoi interpreti in Italia apparso nel 1980 sulla rivista Traduzione-Tradizione ad opera di Mirella Conenna, professore ordinario di Lingua e Traduzione francese a Bari, e poi promotrice di un convegno internazionale su Brassens a Milano nel dicembre del 1991 (Lingua, poesia e interpretazione), convegno al quale partecipò in veste di relatore anche lo stesso Svampa. Nel saggio citato Conenna comparava diverse traduzioni italiane dei testi di Brassens. Il primo esempio era la canzone Brave Margot, tradotta in dialetto da Nanni Svampa col titolo di La Rita de l’ortiga, in italiano da Beppe Chierici col titolo di Brava Margot e poi dallo stesso Svampa e da Enrico Medail, sempre in italiano, col titolo di La Pastorella. Il primo verso del ritornello originale recita: 

Quand Margot dégrafait son corsa-a-ge

che Chierici traduce così:

Se Margot si slacciava il corse-et-tto

che Svampa e Medail traducono così:

Quando lei si slacciava il giubbi-i-no

e che in dialetto Svampa traduce invece così:

Quand la Rita cont vèrt la cami-i-sa

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Quale sia la versione più cantabile, quella che meglio riesce a conservare non solo il ritmo e la struttura del verso di Brassens, ma a restituirne sia il colore che lo spirito, a offrirne la trasposizione semantica più credibile, décalage culturale compreso, credo sia facile da cogliere, anche per un non addetto ai lavori. Basta pronunciare il verso ad alta voce. La Rita è scelta decisamente migliore rispetto a Margot o al generico lei. Slacciare in dialetto si potrebbe tradurre con il colorito desbotunà, ma Svampa opta per cont vèrt, che accentua l’idea di una licenziosità più apertamente rustica, completato poi dalla scelta della camisa (camicia), indumento più comune e popolare rispetto al corsetto, che è termine molto brasseniano o, peggio ancora, al giubbino.

Nel libro W Brassens. I testi delle canzoni in milanese e in italiano (Ed. Lampi di Stampa) lo stesso Svampa sostiene che traducendo le canzoni di Brassens scoprì “la parentela fonetica e linguistica tra il milanese e il francese (con identità di cadenze, presenza di termini derivati dal francese nel dialetto milanese, abbondanza di parole tronche nelle due lingue, ecc.)”, senza dimenticare “la densità di concetti che Brassens riusciva a mettere nelle sue storie. (…) Quella era la strada che dovevo seguire per dare importanza e dignità alla canzone, soprattutto se satirica e umoristica”. Non va dimenticato che Nanni Svampa cominciò a tradurre Brassens tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ‘60, e che se in Francia “la canzone aveva sempre avuto grande dignità e valenza culturale, basti pensare alla popolarità dei poeti e dei tanti della ‘rive gauche’ di quegli anni”, in Italia, come chiosa amaramente lo stesso Svampa, spopolavano ancora canzoni come L’edera di Nilla Pizzi.

Il contributo dato da Nanni Svampa all’evoluzione della canzone in Italia negli anni ’60 meriterebbe forse maggior sottolineatura. Il suo nome è spesso menzionato un po’ di sfuggita, forse penalizzato dalla sua dedizione al dialetto e all’audacia da osteria, forse dal suo starsene preferibilmente ai margini, proprio come l’amato Brassens, o forse soltanto dall’aver osato credere che poesia e licenziosità potessero star sedute allo stesso tavolo (preferibilmente di sasso). Rileggerlo e riascoltarlo oggi, a sessant’anni dalle prime esibizioni in veste di traduttore/interprete di Georges Brassens sarebbe davvero un bel modo di rendergli omaggio, oltre che per attestare la sua arte e il suo talento, anche per riconoscere le virtù così poco morali dell’erba infestante:

Mì son 'me l'erba matta
brava gent, brava gent
e cressi in libertà
adree ai panchett e in mezz ai praa.
Trallalara tralallalara
trallalara tralallalara
me piasarìa savè 'l perchè
vorii schisciamm sotta i voster pè.

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(Io sono come l’erbaccia, brava gente. Cresco in libertà dietro alle panchine e in mezzo ai prati. Mi piacerebbe sapere perché vorreste schiacciarmi sotto i vostri piedi).

(Je suis de la mauvaise herbe,

braves gens, braves gens
Je pousse en liberté

dans les jardins mal fréquentés

La la la la la la la la
La la la la la la la la

Et je me demande pourquoi, Bon Dieu
Ça vous dérange que je vive un peu)

(Io sono come l’erbaccia, brava gente. Cresco in libertà nei giardini poco (o mal) frequentati. E mi chiedo perché, dannazione, vi disturbi tanto che io viva un po’).

Nanni Svampa canta Brassens (Durium, 1965)

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