Massimo Zamboni: andare via

15 Marzo 2024

Un anno fa, febbraio 2023, Massimo Zamboni fu ospite degli studi della Radio Svizzera a Lugano. Obiettivo: incidere una manciata di canzoni sul tema dell’emigrazione con l’intento di diffondere quelle canzoni presso le comunità italiane residenti all’estero. Qualche giorno a due passi dal confine, in una città e una regione, il Canton Ticino, che come terra di esilio, di emigrazione o soltanto di rifugio dal clamore mediatico, ha lasciato delle tracce nella canzone italiana. Si pensi soltanto a Addio Lugano bella di Pietro Gori, ma anche agli speciali realizzati da Giorgio Gaber e altri artisti fra gli anni ’70 e ’80 negli studi della Radiotelevisione svizzera, si pensi alla presenza costante sul territorio e in antenna di tanti protagonisti della canzone d’autore (fra i più recenti: Niccolò Fabi e Ivano Fossati), agli spettacoli dal vivo negli studi radio, al famigerato – quanto meno per i luganesi – verso di Fabrizio De Andre’ in Creuza de mä:

gente de Lûgan, facce da mandillä
(gente di Lugano, facce da tagliaborse)

o, più prosaicamente, a come il Canton Ticino sia diventato nel tempo un buen retiro per le celebrità della canzone, da Caterina Valente a Mina (a Lugano dal 1967), da Teddy Reno e Rita Pavone (in Svizzera dal 1968) ad Anna Oxa.

Le canzoni registrate un anno fa da Zamboni sono oggi diventate un disco: Andare via. Riflessioni su un’Italia traslocata, un disco che vede la luce proprio in questi giorni. Di che si tratta? Non di canzoni nuove, diciamolo subito, ma di canzoni che Massimo Zamboni ha sentito la necessità di vestire in modo nuovo e di collocare entro un quadro tematico preciso. Per dirla con Zamboni stesso, questo disco si presenta come una raccolta di “pensieri musicati sul significato della partenza, dello sradicamento, della nuova appartenenza, del linguaggio”. 

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Massimo Zamboni sta vivendo una stagione di grande fermento artistico. Accanto all’ispirata attività letteraria – citiamo soltanto l’ultimo dei suoi libri, pubblicato da La Nave di Teseo lo scorso anno, Bestiario selvatico – due anni fa aveva pubblicato un disco importante come La mia patria attuale (di cui Francesco Memo scrisse qui). Da pochi giorni a Reggio Emilia ha chiuso i battenti la mostra Felicitazioni! CCCP – Fedeli alla linea 1984-2024 che celebrava i 40 anni della formazione emiliana (e di cui sempre Memo ha scritto qui); un anniversario segnato da numerose iniziative e pubblicazioni, un ciclo di incontri, stampe e ristampe discografiche, concerti (tre date all’Astra Kulturhaus di Berlino a febbraio, di cui ha scritto Gianpiero Piretto) e, annunciato da poco, anche un tour estivo l’estate prossima. Accanto a questi impegni, ecco dunque un nuovo disco, una pubblicazione un po’ in sordina, stando alle parole dello stesso Zamboni sulla sua pagina Facebook: “non chiedetemi perché, ma non ho voglia che esca nei negozi, sulle piattaforme, in streaming; e non ho gran voglia di promozione. Prendiamolo così, come una cosa intima”.

La promozione in verità c’è stata, ma in forma intima appunto, un evento tenutosi lunedì 11 marzo allo Studio 2 della RSI a Lugano-Besso, lì dove il disco è stato registrato. Una serata di musica e di parole, con lo stesso Massimo Zamboni introdotto dal giornalista e produttore radiofonico Gian-Luca Verga. Cantare di un’Italia traslocata, e farlo fuori dai confini, è stata probabilmente una scelta naturale. Lo stimolo è arrivato proprio dalla radio svizzera, ma è facile immaginare come Lugano sia parsa da subito a Zamboni come l’approdo ideale per un progetto del genere, non solo per ragioni di prossimità geografica o di fratellanza linguistica, ma anche per la bontà e la professionalità degli studi – proprio qui Manfred Eicher, fondatore e direttore artistico della casa discografica tedesca ECM, incide da anni alcuni dei suoi dischi – e perché, come ha sottolineato Zamboni in apertura di serata: “qui funziona tutto, è tutto pulito”. Prima del concerto il pensiero è corso, fra le tante, a una bella e dimenticata canzone di Giorgio Gaber come Lettera dalla Svizzera, ripresa di recente da Valentina Londino e Mattia Mantello in un bell’omaggio a Gaber tenuto sempre negli studi della radio a Lugano:

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Vado sempre più lontano
Con la morte dentro il cuore
Sono un povero italiano
E nessuno mi dà un fiore
Non mi resta altro da fare
Solo questo: lavorare

Massimo Zamboni ha attaccato il concerto luganese con dei versi che avevano un che di epistolare, nel passo e nel tono:

Quando la campana suona a mezzanotte, in silenzio e a lungo, ho pensato a te, a come tu stia, a com’era un tempo, e all’augurio che tu possa tornare a casa con il nuovo anno.

Sono sentimenti che è possibile trovare in tante lettere di chi è partito e di chi è rimasto, e Zamboni li appone in epigrafe a questo suo nuovo lavoro e a una rinnovata versione della canzone Sorella sconfitta con cui il disco appunto si apre. Sedici canzoni, più due bis. Questo il programma della serata, mentre il disco presenta sette tracce, poco meno di mezz’ora di musica. Coadiuvato dai fedeli musicisti Eric Montanari, Cristiano Roversi e Simone Beneventi, Zamboni ha snocciolato un repertorio conosciuto, fatto di canzoni recenti come Gli altri e il mare, la doppia chiusa di Fermamente collettivamente, Tira ovunque un’aria sconsolata (“una un po’ drammatica, l’altra di più”), o Ora ancora:

Non accontentarsi di decidere che ci sia voglia di andare lontano
Via da qua, via da qua, via da qua e non tornare

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passando per tracce da La macchia mongolica e arrivando ai CCCP. Un po’ a sorpresa Zamboni ha poi presentato due cover, e non da poco, “due canzoni fondative degli anni ‘70” le ha definite Zamboni introducendo il concerto, come I treni per Reggio Calabria di Giovanna Marini e Vedrai che bello di Gualtiero Bertelli, aprendo una finestra sul repertorio della canzone operaia e militante che tanta parte ha avuto nella sua formazione culturale. “La musica popolare è stata una delle chiavi per entrare nel mondo” ha confessato Zamboni il giorno dopo ai microfoni di Enrico Bianda sulla radio svizzera (Alphaville, Rete Due), “Giovanna Marini, il Nuovo Canzoniere Italiano, la Nuova Compagnia di Canto Popolare… È quanto mi ha fatto uscire dal bozzolo di ragazzino, quando guardavi la televisione, i grandi cantanti degli anni ’60, tutta la musica che ascoltavi in spiaggia o a Canzonissima. D’un tratto fece irruzione un mondo completamente diverso, il mondo del lavoro, il mondo della protesta, il mondo della parola impegnata e impegnativa, il mondo della politica più in generale. La Marini e Bertelli sono cantanti che conosco da una vita, e questo mi è sembrato il momento adatto per provare a riproporre queste canzoni, perché a distanza di cinquant’anni è lecito chiedersi cosa sia rimasto di quest’Italia che stava uscendo dalle campagne, dallo sfruttamento contadino e che si buttava in massa verso la fabbrica. Abbiamo perso perfino l’idea che esiste una classe operaia. Eppure c’è, ed è ancora molto presente nel tessuto sociale, però tutta l’idea che la classe operaia fosse una classe d’avanguardia è completamente sfumata”.

L’Italia traslocata di Massimo Zamboni, pur se allocata altrove, non smette di essere un’Italia che s’interroga su sé stessa, proprio come faceva il disco precedente, La mia Patria attuale. Salvo che questo nuovo disco lo fa da una prospettiva diversa, estendendo il concetto di patria oltre i confini nazionali, una sorta di prosecuzione del discorso, di secondo capitolo intorno alla difficile e complessa nozione di patria. Lugano e la Svizzera come avamposto per chi valica quella linea immaginaria che segna un confine, col pensiero ben rivolto ai milioni di italiani che se ne sono dovuti andare per il mondo. “La patria è un tema piuttosto senile” ha detto ancora Zamboni ai microfoni di Rete Due. Quando si è giovani si parte senza troppi pensieri, “si pensa che ci siano tante patrie dislocate per il mondo o che la patria sia dove tu sei in quel momento, ed è bello e carezzevole pensarlo, poi ti rendi conto che è un po’ una via di fuga, la patria in fin dei conti è dove innanzitutto ci sono i tuoi morti, la tua famiglia, quelli che ti hanno preceduto e che fanno di una terra la tua terra. E poi la patria è quella che ti chiama per la lingua, per il paesaggio, per la cultura, che hai studiato, hai praticato, hai frequentato, e quindi è difficile scappare via. A un certo punto questo confronto devi farlo”.

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Berlino, la Bretagna, la Mongolia. Massimo Zamboni emigrante, per sua stessa ammissione, non lo è stato e non ha dovuto esserlo, ma ha certamente cercato un altrove, un altrove che l’ha arricchito e che ha ampliato la sua visione del mondo. Oggi questa sua riflessione sul concetto di patria si arricchisce di un secondo capitolo che per molti versi prova a fare i conti con la frattura o soltanto il disordine che un trasloco, provvisorio o definitivo che sia, comporta. Dietro un trasloco si annida sempre un che di incongruo. Dagli emigranti ai cervelli in fuga, l’Italia traslocata non può smettere di specchiarsi nell’Italia che rimane. Ed è proprio in questo incessante gioco di rimandi fra dentro e fuori, fra il qui e l’altrove, fra l’urgenza del partire e la necessità di un ripiego che questa duplice operazione discografica di Zamboni assume senso e soprattutto si carica di tensione. Perdere una patria è possibile? Che cosa vuol dire andare via da un paese? E quella patria, è possibile ricostruirla altrove? Verrebbe da rispondere, per forza di cose. Ricreare una patria, quando la patria è lontana, è una necessità, e in questo la lingua aiuta, così come aiutano la musica, la cucina, un paesaggio, un modo di sentire; un bisogno comprensibile ma che, come ha sottolineato Zamboni, “impedisce anche di entrare appieno nelle dinamiche del paese in cui si va a risiedere”.

“Io ho conosciuto espressioni molto feroci della mia patria” ha detto sempre Zamboni nel corso del suo soggiorno elvetico, “perché nel corso dei decenni l’ho vista sanguinare parecchie volte, l’ho vista picchiare letteralmente i suoi abitanti, ho visto truffe, soprusi, ho visto imbrogli, propaganda, abbiamo visto di tutto”. E allora si parte, oggi come ieri, anche se colei o colui che migra non è più l’italiano povero, ma è “una persona laureata, che sa più di una lingua, ha un solido benessere familiare alle spalle, eppure va in cerca di una fortuna che il paese di origine non gli consente. Non c’è molto spazio per il talento in Italia, non c’è molto spazio se non hai parentele o appoggi di qualche tipo. E quindi i ragazzi affrontano questo andare via, un andare via che tante volte si solidifica in altri paesi, tante volte invece ti obbliga a ritornare nella patria vera con un senso molto amaro di sconfitta e di impossibilità”. Ben consapevole però che la sconfitta, per quanto dolorosa, posto che tu sappia farne tesoro, un giorno ti sarà sorella: 

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M’hai dato gli occhi e tre lame nel cuore
Qualche canzone da rimarginare.
M’hai dato gli occhi e un microfono in mano
E il coraggio per poterla cantare.

Il disco, come si diceva, non avrà promozione. Non finirà nei negozi di dischi, non lo si troverà su Amazon o su Spotify. Lo si troverà ai concerti, alle serate di lettura, agli incontri pubblici, lo si potrà scaricare direttamente sul sito di Massimo Zamboni. Dopo l’esposizione mediatica che ha accompagnato la reunion dei CCCP Zamboni sentiva la necessità di ritagliarsi uno spazio più intimo, uno spazio che rispondesse meglio all’idea del disco: chitarre acustiche, il vibrafono di Simone Beneventi a far da contrappunto garbato alle melodie, pochi arrangiamenti, più spazio alle parole e alla voce. Come ha spiegato lui stesso a fine concerto: “è un disco che ha un po’ il mio carattere, s’infilerà nei varchi”.

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