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Nigeria Now
Quando Dante Farricella (l’art director di Sisters’ Grace) le ha chiesto di scegliere un posto in cui farsi fotografare, Peju Alatise è rimasta interdetta: «Non è il tipo di decisione che mi viene lasciata, quando organizzano un set con le mie opere».
«Ma l’artista sei tu», ha risposto lui. «Nessuno può sapere meglio di te quale sia il tuo posto in mezzo ai tuoi lavori».
Lei allora ha scelto di sedersi vicino alla porta che compare nella sua installazione Flying Girls: otto bambine in cerchio, dotate tutte di piccole ali, avvolte da una nuvola di rondini e lambite da un fiume di farfalle. La porta bianca, aerea, che si apre verso un imprecisato altrove, per l’occasione era decorata con una piccola coccarda arancione. «Il colore della ribellione, secondo mio padre. Mi aveva promesso che sarebbe venuto con me. Se n’è andato prima del tempo e io ho portato qui il suo colore».Qui è Venezia, la Biennale d’Arte alla sua 57esima edizione. Peju, con Victor Ehikhamenor e Qudus Onikeku è stata selezionata per rappresentare per la prima volta la Nigeria alla cosiddetta Olimpiade dell’Arte. Lo spazio assegnato è la Scoletta dei Battioro e dei Tiraoro, vicino alla chiesa di San Stae. Passando dal Canal Grande, in vaporetto, si vede benissimo. Raggiungerla a piedi, invece, è un po’ più complicato. Noi ci siamo persi varie volte. Alla fine però l’ostinazione è ricompensata. Il padiglione Nigeria, nella sua essenzialità, si è rivelato uno dei più riusciti di questa Biennale e abbiamo avuto il piacere e il privilegio di parlare a lungo con gli artisti e con Emmanuel Iduma scrittore e co-curatore dell’allestimento.
La Nigeria, negli ultimi tempi, è stata spesso presentata dai media occidentali come il polo trainante della cosiddetta renaissance culturale e artistica africana. Sicuramente a Lagos (o per lo meno in certe zone) ci sono gallerie, case d’asta, centri culturali e spazi espositivi. Sicuramente molti artisti (Alatise e Ehikhamenor tra questi) hanno visto crescere rapidamente le loro quotazioni di mercato. Ma ai diretti interessati sentir parlare di un’esplosione dell’arte nigeriana non piace. «È un concetto improprio», ci dice Ehikhamenor. «Quel che è vero è che in passato, per farci conoscere all’estero, dovevamo aspettare che un occidentale ci “scoprisse”. Oggi, grazie a internet e ai social network, possiamo promuovere in autonomia i nostri lavori. Se c’è un boom non riguarda la produzione creativa, ma la sua trasmissione all’esterno». Come dargli torto? La Nigeria vanta una tradizione artistica molto antica, che precede largamente la stagione coloniale, basti pensare alla civiltà Nok o al Regno di Ife o a quello del Benin. Su di essa si sono innervate fioriture accademiche di tutto rispetto, come la Zaria Art Society (fine anni ’50) o il gruppo di Nsukka (a partire dagli anni ’70). La qualità, la quantità e l’originalità delle produzioni attuali nascono da queste premesse. C’è un continuum che tiene insieme la storia. Scambiare e spacciare per novità quello che fino a un momento prima non si conosceva, ossia considerare se stessi come misura di tutte le cose, è una debolezza umana molto comune, quasi un peccato veniale. Ma se chi lo commette ha potere, per esempio quello di confezionare ed etichettare i fenomeni culturali, può diventare molto insidioso. Perché conduce alla deformazione della realtà, alla negazione del passato. The Biography of Forgotten, l’opera immersiva di Ehikhamenor che dà il benvenuto a chi entra nella Scoletta, vuole rovesciare proprio questa insidia.
È un’installazione avvolgente, creata appositamente per Venezia. Sette grandi drappi di stoffa, che ricoprono le pareti, riempiti dai grafismi che caratterizzano i lavori di questo artista eclettico e sono ispirati ai segni presenti sulle case e gli edifici sacri di Udomi-Uwessan, il suo villaggio natale vicino Benin City. Sui drappi sono applicate centinaia di specchietti, che restituiscono allo spettatore la propria immagine ma anche i bagliori di una serie di sculture tradizionali che scendono dal soffitto, in un incrocio di sguardi e di simboli che rimanda anche alla questione coloniale. Come spiega Ehikhamenor: «Gli specchietti sono stati una delle principali merci di scambio usate dai bianchi per portare via dalla Nigeria uomini, risorse e anche opere d’arte». Qualsiasi tentativo di riparazione rispetto al trauma inflitto dal colonialismo non può prescindere dalla consapevolezza del presente e dalla ricostruzione della memoria. Ed è in quest’ottica che Ehikhamenor prende posizione (critica) rispetto alla Golden Heads di Damien Hirst, esposta a Palazzo Grassi, in coincidenza con la Biennale, che è essenzialmente una copia della testa di bronzo di Ife acquisita dal British Museum. Non discute la legittimità del plagio in sé, ma il fatto che Hirst proponga la scultura senza contestualizzarla: in un mondo sostanzialmente ignaro d’Africa e supponente, ciò porterà fatalmente qualcuno ad accusare i nigeriani, un giorno,di avere imitato Hirst. «Per questo oggi abbiamo bisogno più che mai di more biographers for our forgotten».
Saliamo una rampa di scale, scostiamo una tenda e davanti a noi scorre la trilogia di Qudus Onikeku intitolata Right Here, Right Now. Sono tre performance attraverso cui questo acrobata-ballerino, che ha studiato in Francia ma è rimasto saldamente ancorato alle sue radici yoruba, mette in connessione la memoria del corpo, il sentimento identitario e la danza. «Il corpo ha memoria di tutto», spiega Onikeku. «Dei miei traumi, ma anche di quelli di mio padre e di mio nonno. E questo ricordo può essere attivato attraverso la danza e portarci a ri-scoprire delle cose spazzate via dalla narrazione coloniale». È un’azione di recupero e ricomposizione di un inconscio collettivo che mantiene la continuità tra corpo e spirito. Allo spettatore occidentale potrà venire in mente Carl Gustav Jung. Ma in realtà qui ci troviamo nel cuore del pensiero yoruba, che è portato ad unire quel che in altre culture viene analiticamente contrapposto. «Quando mi dicono che l’arte può essere uno strumento di trasformazione sociale, io fatico a capire», prosegue l’artista. «Nella mia lingua c’è una sola parola per indicare arte e vita. Non è concepibile un’arte che non sia intrinsecamente legata alla vita e viceversa». La danza di Onikeku non ha una finalità estetica bensì narrativa ed esplorativa. È uno strumento per scavare, ricordare, collegare qui e ora.
Un’altra rampa e ci sono le Flying Girls ad aspettarci. Peju Alatise è scultrice, pittrice ma anche poetessa e scrittrice. Di se stessa ama dire: «Non sono mai diventata un’artista. Lo sono sempre stata. Ho sempre voluto dipingere e fare cose creative». La conoscevo già per via del trittico High Horses, venduto qualche anno fa a un’asta da Bonhams per 40mila euro. Tre manichini issati su alti trespoli, avvolti in stoffe sontuose, che colpiscono i sensi ma nascondono totalmente i volti: un’opera che mette in scena e in discussione il destino di invisibilità e di silenzio assegnato a troppe donne in Nigeria. Le bambine con le ali hanno una bellezza e un impatto ancora maggiore. A ispirare l’opera è una storia scritta da Peju, che parla di Sim, piccola schiava domestica yoruba in bilico tra due realtà: il lavoro massacrante presso una famiglia benestante di Lagos e l’evasione onirica, il sogno di liberarsi in volo come una rondine o una farfalla. Le bambine del cerchio, con i loro corpi androgini e acconciature che avrebbero ben figurato tra gli scatti del fotografo nigeriano J.D. 'Okhai Ojeikere, sono tutte piccole Sim e denunciano una piaga profonda della Nigeria contemporanea. Qualcosa su cui, proprio se si ha a cuore il paese, non è possibile tacere.
How About Now? è il titolo-domanda che Iduma e l’altro co-curatore, Adenrele Sonariwo, direttore della Rele Gallery di Lagos, hanno scelto per questo allestimento tripartito e unitario. Da prospettive distinte, usando linguaggi artistici e materiali profondamente differenti, Ehikhamenor, Onikeku, e Alatise producono, infatti, una narrazione corale, articolata tra presente e memoria, tensione verso la verità e consapevolezza delle contraddizioni. «Abbiamo riflettuto a lungo su quale potesse essere il modo migliore di rappresentare un paese come il nostro, che indirettamente, attraverso partecipazioni singole o anche la direzione artistica di Okwui Enwezor, era già stato presente alla Biennale di Venezia», ci ha detto Iduma. «E ci è sembrato che mettere in risonanza l’eredità artistica e l’identità nazionale potesse essere la chiave giusta per rispondere a una domanda essenziale come How about now? Abbiamo scelto artisti che, per riprendere il tema della Biennale, facessero Arte Viva, affacciata sul futuro, ma sentendo forte il tema dell’appartenenza».
Post Scriptum: L’Africa alla Biennale 2017.
Questa volta non c'è tanta Africa a Venezia. Tra gli artisti invitati si contano due presenze subsahariane: il nigeriano Jelili Atiku, conosciuto per le sue forti e coraggiose performance di denuncia, e il maliano Abdoulaye Konate, che ha fatto del tessuto il suo materiale espressivo d’elezione. Ci sono poi i marocchini Younes Rahmoun e Touloub Achraf, l'egiziano Hassan Khan e il franco-algerino Kader Attia, che con la sua installazione a base di suoni, movimento e couscous dà una prova ulteriore del suo grande talento visionario e della forza delle sue radici. Ci sono anche i tre afroamericani: Sam Gilliam, Senga Nengudi e McArthur Bionion. Ma si resta in ogni caso lontani dall'edizione precedente, curata da Okwui Enwezore caratterizzata da una ricca e articolata presenza africana (19 artisti invitati, senza considerare il collettivo Invisible Borders).
Le partecipazioni nazionali, invece, salgono a 9 (erano state 5 due anni fa): Angola, Costa d’Avorio,Egitto, Seychelles, Sudafrica, Tunisia, Zimbabwe, la debuttante Nigeria e, dopo varie vicissitudini, anche il Kenya. Dopo lo scandalo della passata edizione (il padiglione appaltato ad artisti cinesi, attraverso una curatela italiana avulsa dalla scena creativa locale e stoppato in extremis e con tante scuse, grazie all'energica protesta di artisti e intellettuali kenyoti), il governo aveva annunciato una vera partecipazione. Ma a pochi giorni dall'inaugurazione e per ragioni non del tutto chiare (un problema di soldi? Di visti? Di vendette politiche?), il paese è sparito dai programmi e dalle cartelle stampa. Curatori e artisti hanno deciso allora di autoprodurre l'allestimento. Chi volesse può cercarlo e trovarlo alla scuola Palladio, alla Giudecca. Si chiama Another Country, titolo che si rifà esplicitamente a James Baldwin e aspira a ricordare a tutti che un altro Paese, un altro mondo è possibile. Basta essere disposti a lavorarci su.
Stefania Ragusa - Sisters’ Grace
Foto: Dante Farricella - Sisters’ Grace