Speciale

Fotografia africana: colmare le distanze / Africa e Occidente. Così vicini, così lontani

17 Marzo 2017

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Headache by Heba Khalifa, Egyptian. 

 

È un rischio implicito in ogni narrazione, ma specialmente in quella fotografica: l’appropriazione indebita della vita altrui, del dolore e della sofferenza. L’assunzione del proprio punto di vista e d’interpretazione come diaframma oggettivante: ecco allora la nostra pena attribuita a qualcun altro, la nostra meraviglia cucita addosso a un volto che resta anonimo, ma diventa pubblico e viene messo a servizio di questo o quel messaggio. 

Succede spesso nei cosiddetti paesi in via di sviluppo (per i quali, come vedremo, ci vorrebbe un’altra denominazione, più realistica e meno pregiudizievole) e nel grande teatro delle tragedie umanitarie (pensiamo a donne e bambini esposti in molte campagne di fund raising delle organizzazioni non governative). Succede in particolare in Africa, continente che abbonda di spunti narrativi pieni di pathos e sottratti alla verifica. 

Succedeva già nei primi anni del XIX secolo, quando la fotografia nasce e sbarca in Africa. Fotografi del regime coloniale e viaggiatori raccontavano “la loro Africa”, piena di esotismi e asimmetrie. Gli africani che facevano propria la nuova tecnologia – la famiglia creola-ghaneana Lutterodt, i fratelli sierraleonesi Lisk-Carew, il togolese Alex Acolatse (cfr. Nigrizia 11/2015) – documentavano però un’altra realtà. Guardavano talvolta gli stessi oggetti, ma il loro sguardo li metteva in condizione di percorrere la profondità, vedere dall’interno, leggere meglio quel che proponevano. 

Il doppio sguardo rimane una cifra del presente. La narrazione ufficiale e dominante è affidata ai cosiddetti esperti, in genere non africani, che spesso non possiedono i codici di accesso per immettersi in una realtà così distante, a cominciare dalla lingua. Non gliene si fa necessariamente una colpa, ma non si può soprassedere sui limiti di queste narrazioni e sulla loro pervasività rispetto allo stesso immaginario africano. 

Oggi si comincia a mettere un argine anche teorico al processo di espropriazione narrativa, impostando su nuove basi il racconto e la riflessione sulle distanze. La novità inizia a essere colta e condivisa anche al di fuori dei circuiti puramente artistici. Ed è una trasformazione positiva, ma non esente da contraddizioni. 

 

Royal Generation by Keyezua, Angolan. 

 

Cinque distinte distanze

 

L’Addis Foto Fest di Addis Abeba ha dato a cinque giovani fotografe etiopiche
il compito di interpretare il tema
della distanza in trenta scatti. 

Ne escono cinque letture endogene dell’Africa, che parlano anche all’Occidente. 

 

Distances by Netsanet Fekadu. 

 

I grandi nomi italiani del caffè, Illy e Lavazza per essere chiari, da tempo si sono rivolti alla fotografia d’autore per meglio veicolare la propria immagine e mostrare ai consumatori il lato “impegnato” della loro attività. Illy ha puntato su Sebastião Salgado, Lavazza su Steve McCurry: nomi che non hanno bisogno di presentazione. 

Il bellunese Caffè Bristot, che non è un gigante come gli altri due ma rappresenta comunque una rispettabile realtà imprenditoriale, ha deciso recentemente di fare altrettanto. Tales-on, la piatta- forma artistica permanente cui è stato affidato l’incarico, anziché sui big della fotografia internazionale, ha indirizzato l’attenzione sugli artisti contemporanei attivi nei paesi produttori di caffè. 

Quest’anno è toccato all’Etiopia ed è stata creata una connessione con una delle realtà più interessanti sulla scena africana attuale: l’Addis Foto Fest, creato ad Addis Abeba nel 2010 dall’artista Aida Muluneh (cfr. Nigrizia 12/2014) e giunto alla quarta edizione. Sono state selezionate cinque giovani fotografe etiopi che, chiedendo loro di interpretare il tema della distanza a partire dalla loro Africa. Ciascuna ha realizzato trenta scatti, che sono stati esposti al Fondaco Sant’Angelo a Venezia (15 dicembre-8 gennaio 2017) e, contestualmente, presentati in un evento off ad Addis Foto Fest (15-20 dicembre 2016). 

La distanza, perché? «Da un punto di vista formale la distanza è misura, è il risultato di un processo che per essere determinato necessita di convenzioni, di strumenti e calcoli – spiega Marco Milan, ideatore e curatore di Tales-on . Ma non tutte le distanze sono misurabili o necessariamente quantificabili. 

 

Distances by Hymanot Honelgn. 

      

Ecco allora che il prendere distanza può diventare atto culturale, un modo per sottolineare un bagaglio personale e sociale nato da un territorio e da esperienze specifiche, una commistione tra fisicità, pensiero e percezione in cui, partendo da elementi distinti e in relazione più o meno marcata tra loro, irrompono i concetti di diversità e differenza». 

 

Distances by Hilina Mekonen. 

 

Le cinque fotografe sono Haymanot Honelgn (1993), Hilina Mekonen (1988), Mahder Haileselassie (1990), Netsa- net Fekadu (1988) e Luna Solomon (1993). I loro nomi in Europa dicono poco o nulla. Ad Addis Abeba invece la loro professionalità è riconosciuta. In particolare, Mahder Haileselassie è considerata un talento emergente. 

 

Distanze di Luna Solomon. 

 

Lo scorso luglio anche il quotidiano inglese The Guardian ha dato spazio al suo reportage sulle azioni della charity etiopica Awsad, che si occupa di supportare e assistere donne vittime di violenza. 

 

Addis Foto Fest, un ponte di storie 

 

Quando nel 2010, attraverso la sua associazione Desta for Africa (www. dfaplc.com), la fotografa afropolitan Aida Muluneh lanciò Addis Foto Fest (www. addisfotofest.com), aveva ben chiara una cosa: quell’appuntamento non avrebbe dovuto essere un palcoscenico statico ma un ponte, rivolto all’Africa e al resto del mondo, un ponte da percorrere nelle due direzioni, per accedere a un più elevato universo di senso, in cui a tutti i protagonisti fosse consentito raccontare le storie. 

A pochi giorni dalla chiusura della quarta edizione (Addis Abeba, 15-20 dicembre), intitolata significativamente Uniting Africa and the World through Photography, l’obiettivo sembra essere stato centrato. Alla kermesse hanno partecipato 126 fotografi provenienti da 39 paesi diversi. 

Moltissimi gli africani, in particolare etiopici. E poi americani, asiatici, europei, anche due italiani (Salvo Bombara e Carlo Gianferro).
Al pubblico di Addis sono state proposte mostre internazionali di spessore,
come la 1%-Privilege in a Time of
Global Inequality
di Myles Little, il
photo editor del Time, che mostra l’insostenibile diseguaglianza della società contemporanea. Oppure Everyday Africa, progetto multimediale ideato dal fotografo Peter Di Campo e dallo scrittore Austin Merrill, che racconta la vita quotidiana
nel continente e ci consegna un affresco in perenne divenire (la partecipazione a questa piattaforma è continua), lontano dagli stereotipi pauperistici. «Credo che
si possa imparare di più su un paese dal racconto di piccoli momenti quotidiani, che da un titolo di giornale sulla guerra o la corruzione – ha spiegato recentemente Merrill al New York Times –. Non vogliamo dire che dall’Africa non arrivano cattive notizie, ma cerchiamo di cogliere la normalità anche nei momenti di crisi». Una convinzione in linea con l’impostazione visuale di Muluneh: «La realtà è molto complessa, in positivo e in negativo, ma i media mainstream non ne tengono conto – ci aveva detto in un’intervista di qualche anno fa. La mancanza di un equilibrio sulle immagini d’Africa è una delle principali ragioni che mi hanno spinto a organizzare questa manifestazione. Sarebbe molto importante che fossero i fotografi dell’Africa a raccontare le proprie storie». E che gli altri, i non africani, cogliessero l’opportunità di ascoltarle. 

 

Il testo è stato pubblicato in “Nigrizia” a gennaio 2017.

 

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