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La fortuna della fotografia / Il Sudafrica di Jodi Bieber. Tra luci e ombre

29 Dicembre 2017

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Jodi Bieber è diventata internazionalmente nota nel 2011, quando il suo ritratto di Bibi Aisha, la giovane donna afghana cui i talebani avevano mozzato orecchie e naso, fu pubblicato in copertina dal Time e vinse il World Press Photo. «Un premio che in realtà non mi ha procurato più soldi o più lavoro, ma mi ha permesso di viaggiare, incontrando tante persone e confrontandomi sul modo e il senso dei miei progetti e della mia militanza». 

Nelle immagini di Bieber le linee tradizionali che separano intimismo, cronaca e visual art si stemperano fino a scomparire. Il silenzio delle gemelle Ranto, lo scatto che apre Between Darkness and Light (la personale curata da Filippo Maggia per la Fondazione Carispezia, che ci ha dato l’occasione per intervistarla, www.fondazionecarispezia.it) rende bene l’idea. «Ho incontrato le gemelle a un matrimonio tradizionale a Zeerust. La loro mamma mi disse che non amavano parlare e io per tutto il tempo mi sono chiesta come mai» spiega nella chiosa. Ancora meglio rendono l’idea i ritratti delle donne condannate per avere ucciso i loro mariti, di cui parleremo più avanti: sono evidentemente costruiti e posati, ma al tempo stesso costituiscono uno straordinario e preciso reportage, un documento, uno spaccato di cronaca affiancato da testi e interviste. 

Per lei comunque la questione è chiara. «Non faccio fotogiornalismo. Non aspiro all’obiettività. Sono semplicemente una fotografa. Racconto quello che vedo e mi colpisce, sempre dal mio punto di vista». E il suo punto di vista sul Sudafrica è stato finora uno dei più acuti, articolati e complessi. 

 

All’inizio degli anni ’90, il regime dell’apartheid volgeva a termine. Bieber, che proveniva da una famiglia bianca e benestante, aveva studiato marketing e lavorava in un’agenzia pubblicitaria a Johannesburg. La sua quotidianità avrebbe potuto svolgersi distante dai mondi separati di black e coloured, ma lei si faceva molte domande ed era attraversata da altrettante inquietudini. Fino a qualche anno prima aveva visto i pulmini gialli dei poliziotti che giravano per controllare i passbook del personale di servizio arruolato nelle famiglie borghesi, sentendo che c’era qualcosa di profondamente sbagliato. Il Market Photo Workshop di David Goldblatt, da cui sarebbero usciti alcuni dei più validi fotografi sudafricani contemporanei (Zanele Muholi e Lebohang Kganye, per esempio) e che oggi è riconosciuto come un polo di educazione visiva d’avanguardia, era allora agli albori e teneva i suoi corsi in un vecchio ufficio postale. Lei ne frequentò uno part time per otto settimane. «Trovare la fotografia è stata la mia fortuna. Mi ha dato l’opportunità di cambiare vita, di esplorare il mio Paese in una fase particolare di trasformazione, confrontandomi appunto con le sue ombre e le sue luci». Nel 1994, in occasione delle prime elezioni democratiche, si trovò a coprire l’evento per il quotidiano The Star e viaggiò in lungo e in largo. Vedere con i propri occhi, sentire con le proprie orecchie era un privilegio senza prezzo.

 

 

Between Darkness and Light è la prima personale di Bieber in Italia. Raccoglie lavori selezionati proprio a partire proprio da quei primissimi anni di “scoperta” fino al 2010. Sono immagini tratte da quattro serie distinte. La prima è Between Dogs and Wolves: Growing up with South Africa (1994-2003) e rimanda a situazioni dure, ritratte sempre in bianco e nero. Qui incontriamo non solo le silenziose gemelle Ranto con le cuffiette ricamate e gli occhi tristi sgranati sul mondo, ma anche bambini con le pistole e adolescenti prostituite, bianchi poveri messi definitivamente all’angolo dalla fine dell’apartheid. Incontriamo vite ai margini e sempre l’impossibilità di distinguere, nella penombra, i cani dai lupi. Racconta Bieber che, mentre lavorava a questa serie, chiese al fondatore di una charity contro gli abusi infantili di aiutarla ad avvicinare i ragazzi di strada. L’uomo fu gentile e collaborativo. Durante il sopralluogo venne anche derubato del portafoglio da uno dei ragazzi, ma non perse la calma e continuò a mostrarsi comprensivo. Riaccompagnandolo a casa in auto, lei si congedò ringraziandolo e dicendogli che era proprio una brava persona. Qualche giorno dopo lo avrebbe rivisto sulle prime pagine dei giornali. Si trattava di Moses Sithole, serial killer di almeno 38 donne. Non solo è difficile distinguere i cani dai lupi, ma è possibile essere allo stesso tempo cane e lupo.

La seconda è Going Home: Illegality & Repatriation. South Africa/Mozambique (2000). Ancora in bianco e nero, è in assoluto uno dei primissimi lavori focalizzati sulle sofferenze patite dagli immigrati irregolari nel Paese Arcobaleno e sulla cruda violenza dei loro rimpatri. Qualche anno dopo, in seguito anche a clamorosi incidenti e battaglie urbane, il tema avrebbe raggiunto anche i media mainstream europei, ma nel 2000 la xenofobia che andava diffondendosi in tutti gli strati della società sudafricana (e che, per inciso, tanto ricorda quel che stiamo sperimentando adesso anche in Italia) era una questione solo abbozzata. 

  

 

 

Con Women who have murdered their husbands (2005), Bieber passa al colore e ci porta nella prigione di Johannesburg, nell’ala che accoglie donne accusate di o condannate per avere ucciso il fidanzato o il marito. «Ottenere l’autorizzazione per entrare in carcere e incontrare e fotografare le donne che avessero dato la disponibilità è stato difficile. Il permesso è arrivato mentre ero impegnata in un altro lavoro ed è stato limitato a un giorno solo». Per ottimizzare i tempi e portare a casa il risultato ha deciso di utilizzare un format fisso: la donna ritratta sul letto, l’unico spazio privato che la condizione di detenuta le lasciava, un particolare del suo angolo e la testimonianza. 

 


  

 

Gli omicidi erano stati talvolta accidentali. Altre volte pianificati o anche commissionati ad altri. Tutti comunque erano avvenuti all’interno di relazioni segnate da terribili violenze e sopraffazioni. Tutte le donne chiedevano l’amnistia. Finora, dice Bieber, il progetto non è stato esposto quanto avrebbe meritato. Per questo è particolarmente contenta di averlo potuto inserire in questa mostra. A distanza di 12 anni, nonostante vari tentativi, non è riuscita a sapere nulla del destino di quelle donne. 

 

L’ultima serie è Soweto (2009-2010). Anche questa a colori. E’ un progetto orientato a mostrare la vitalità e la ricchezza umana e creativa della township sudafricana più nota. Dai pomeriggi in piscina agli outfit ricercati per feste di laurea e matrimoni, dalla street art alle incombenze quotidiane di una sangoma (guaritrice tradizionale), dalle villette borghesi alle case di lamiera.  Una città sorprendente, piena di ferite e di grazia. Soweto is like Hollywood to me”, ha scritto Sibongile Mazibuko della radio Jodi FM nell’introduzione al volume che raccoglie l’intero lavoro. “Everything is here”. E questo è anche il punto di vista di Bieber. «Non pretendo che la mia sia una visione oggettiva: è solo la mia verità; è Soweto come l’ho vista e la vedo».

 

Between Darkness and Light, come già detto, presenta solo alcuni lavori di Bieber. Per ragioni cronologiche restano fuori quelli più recenti. In primo luogo Bibi Aisha che, come riconosce la fotografa, «è certamente lo scatto più famoso, ma non quello che amo di più». Ma anche la serie Real Beauty, del 2015, che racconta il corpo femminile nella sua verità e senza ritocchi e avrebbe molto da dire anche a un pubblico non interessato all’Africa. Restano fuori lavori realizzati in paesi diversi dal Sudafrica.  Bieber attualmente è impegnata a un nuovo progetto che dovrebbe vedere la luce entro il 2018. «Riguarda i giovani sudafricani, che non hanno vissuto l’esperienza di oppressione dei loro genitori, vivono in un mondo globalizzato e vogliono scrivere per questo Paese una storia nuova». Sono gli attori designati del cambiamento che verrà e, ancora una volta, lei desidera vederli con i propri occhi e ascoltarli con le proprie orecchie. Godendo la fortuna e il privilegio della fotografia.

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