La Grande guerra di Peter Jackson / Per sempre giovani: la trincea e l’archivio

5 Marzo 2020

La Prima guerra mondiale è stata per molti versi un vero e proprio laboratorio della modernità. Limitandoci a considerare gli aspetti che più da vicino riguardano la sfera visiva – e seguendo il percorso tracciato da Gabriele D’Autilia in un suo acuto volume (La guerra cieca. Esperienze ottiche e cultura visuale nella Grande guerra, Meltemi 2018) – è possibile verificare come questo evento abbia prima di tutto cambiato radicalmente le condizioni di immaginabilità e i metodi di visualizzazione della guerra.  È in questa occasione, in altre parole, che sembra venire a maturazione quel rapporto strettissimo fra media visivi e armi da fuoco su cui Virilio ha scritto pagine ancora oggi fondamentali. I conflitti armati, da questo punto di vista, sarebbero prima di tutto una questione visiva, che ha a che vedere con la capacità di vedere l’Altro e ucciderlo prima che lo faccia lui. 

 

Non è un caso che questo processo trovi terreno fertile proprio fra le trincee della Prima guerra mondiale, proprio perché la nuova forma tattica della guerra di logoramento sembra esigere nuove modalità di visione. Il cambiamento del punto di vista porta così alla verticalizzazione dello sguardo e a un nuovo protagonismo della visione aerea, che troverà un ideale compimento nei bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki. Si inizia così a immaginare la guerra occidentale come qualcosa di sempre più astratto, da vedere a distanza, lasciando la componente umana sullo sfondo, alle soglie della percezione. 

 

 

In realtà, già negli anni immediatamente successivi alla conclusione del primo conflitto mondiale, si fa strada una diversa modalità di visualizzazione della guerra, focalizzata soprattutto sulla messa in mostra delle sue conseguenze sui corpi e sulle cose. È il caso del volume fotografico Guerra alla guerra di Ernst Friedrich che, pubblicato nel 1924, raccoglie e commenta “scene di orrore quotidiano” e costruisce una prima, fondamentale, contro-narrazione dell’impresa bellica appena conclusa. I cadaveri dei soldati trucidati al fronte e quelli mutilati dei superstiti diventano la posta in gioco di una rivendicazione politica che, attraverso il montaggio fra parola e immagine, rimette in primo piano quella componente umana che le immagini di guerra iniziavano già strategicamente a nascondere. 

 

L’eccesso di vicinanza di quelle immagini finisce però col renderle insopportabili allo sguardo: vedere troppo e scrutare la carne violata con troppa vicinanza non è sempre la soluzione migliore per rifondare un’etica dello sguardo (come dimostra anche l’annosa questione della visualizzazione della Shoah, al centro di un volume puntuale come Il limite dello sguardo di Michele Guerra e in qualche modo riassunta già nelle scelte estetiche di due film come Notte e nebbia e Shoah). Ad oltre un secolo di distanza da quegli eventi vale insomma la pena di chiedersi a quali immagini è possibile rivolgersi per costruire una nuova o forse più completa storia visiva della Prima guerra mondiale, in grado di rendere conto della sua complessità visiva.

 

Mentre un film come 1917 cerca di ricostruire la mitologia del film bellico spettacolare ricorrendo ad “un umanesimo scontato e di sole maiuscole per finire schiacciato sotto il peso di un esibizionismo indomito” (l’espressione è di Pier Maria Bocchi), mi pare più interessante il lavoro di ricostruzione documentaria compiuto da Peter Jackson con They Shall Not Grow Old Per sempre giovani. Attraverso il ricorso sistematico ad immagini d’archivio (molte delle quali inedite e restaurate per l’occasione), Jackson compone un lungo e complicato affresco dell’esperienza fatta dai giovani soldati, dalla campagna per l’arruolamento al tragico scenario delle trincee.

 

L’operazione messa in piedi da Jackson vale soprattutto per il lavoro di montaggio e per l’intelligente combinazione di testimonianze visive e orali. Mentre scorrono sullo schermo i filmati d’archivio, i testimoni diretti del conflitto ricordano – con vivissima precisione – i dettagli del loro coinvolgimento in questo evento epocale. A partire da questa dinamica particolarmente produttiva, il film fornisce un punto di vista nuovo e non stereotipato sulla Prima guerra mondiale, cercando di restituire la complessità esperienziale di un fenomeno che appare incoerente e incomprensibile (non diversamente da quanto notato a suo tempo da Benjamin nel saggio Esperienza e povertà, dedicato proprio a questo tema). Lo scavo d’archivio ha riportato alla luce meravigliosi brani di vita delle trincee, che mostrano quel lato umano e a suo modo banale della vita al fronte spesso dimenticato nelle narrazioni del conflitto. 

 

 

È nella complessità del gioco fra le varie forme parziali di testimonianza che emerge la densità probatoria del documentario, la sua peculiare capacità di farsi racconto di ciò che per molti versi è rimasto (ed è) irraccontabile. Pietro Montani, in un testo ormai classico, ha affermato che le immagini sono abitate da un vuoto, una sorta di debito di testimonianza che chi le guarda è chiamato a raccogliere, riempiendolo. Ciò è possibile attraverso un peculiare lavoro dell’immaginazione, una sorta di montaggio dialettico che costruisca una narrazione (comunque parziale e provvisoria) proprio a partire dalle lacune dei frammenti che la compongono.

 

Né le immagini d’archivio né le testimonianze dei sopravvissuti sono insomma capaci di rendere conto da sole dell’enigmaticità di una guerra totale, ma la loro combinazione produttiva ha il merito di prendere in carico la complessità del reale. La mancanza di senso delle grandi distese di morti che hanno abitato l’Europa, il puerile desiderio di gloria dei soldati coinvolti e la rapida presa di coscienza della nuova configurazione dello sforzo bellico sono presentati da Jackson come tappe di una sorta di percorso verso il nulla, verso un “fuori campo” denso e contradditorio, destinato comunque a rimanere tale. 

 

Il racconto di They Shall Not Grow Old ha il merito di restituire la complessità degli eventi senza banalizzarli ed evitando la facile tentazione dell’agiografia a posteriori. Se c’è un modo efficace di raccontare la guerra, facendosi carico della sua costitutiva contraddittorietà e valorizzando in qualche modo i vuoti che ne accompagnano i tentativi di narrazione, forse è proprio questo. L’archivio e la memoria, con le loro necessarie limitazioni, devono insomma concorrere insieme alla costruzione di un “complesso visivo” che non cerchi necessariamente il senso, ma che si incarichi piuttosto di restituire la complessità dell’esperienza, il suo volto umano, le sue conseguenze sull’immaginario. 

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