Simulazione liberata / Stan Laurel & Oliver Hardy: ridere è una cosa seria

15 Dicembre 2017

Di lentezza si può far ridere e, facendo ridere, si possono generare conoscenze inedite? Decisamente sì, anche se l’affermazione categorica sfida il senso comune, che affida alla cosiddetta serietà la conoscenza, e associa la lentezza con la noia. Gabriele Gimmelli ce ne dà una prova col suo lavoro su uno dei capolavori del cinema, Big Business – Grandi Affari, con Stan Laurel (Stanlio) e Oliver Hardy (Ollio), del 1929. 

 

Ascoltando Umberto Eco il comico e l’umoristico non solo sono cosa buona, ma anche strumento di conoscenza: “… e Venanzio disse che per quello che lui sapeva Aristotele aveva parlato del riso come cosa buona e strumento di verità…” (U. Eco, Il nome della rosa, Prima edizione riveduta e corretta, Bompiani, Milano 2012; p. 135). E uno che se ne intende come C. Simic, scrive: “Del resto, ci sono stati qua e là alcuni che, si sospetta, sono effettivamente morti dal ridere.” (C. Simic, Il mostro ama il suo labirinto, Adelphi, Milano 2012; p. 148). 

Chi di noi non ha avuto la sensazione di morire dal ridere vedendo Stanlio e Ollio? La natura di quel divertimento è oggetto di fine attenzione nel lavoro di Gimmelli, con correlati continui alla storia e alla contingenza storica in cui Big Business è realizzato; ma anche a una attenta disamina della filologia dell’opera e della sua collocazione sulla soglia del passaggio dal muto al sonoro nella storia del cinema. Tutto il percorso di Gimmelli ci mette in relazione con l’opera di Laurel & Hardy e cerca di evidenziare le condizioni del profondo coinvolgimento che essa riesce a produrre in noi, mantenendo la sua potenza comica e coinvolgente nel corso tanti decenni. 

Del resto se la relazionalità si propone come matrice della stessa organizzazione del mondo psichico, ogni film, come lo stesso film della vita, cambia e si presta a inedite possibilità di lettura. Nell’approfondire come il coinvolgimento relazionale dei corpi-mente si produca, il lavoro di Gimmelli si connette senz’altro allo studio del tutto originale e godibile che Vittorio Gallese e Michele Guerra propongono nel loro libro Lo schermo empatico, edito da Raffaello Cortina Editore, Milano 2015.

 

 

La risonanza incarnata e i neuroni specchio sono messi alla prova dagli autori, per cercare di comprendere i molteplici meccanismi di risonanza, appunto, che stanno alla base dell’arte cinematografica. Il volume assume così almeno due livelli di contribuzione rilevanti: mentre ci aiuta a penetrare nell’esperienza del cinema per una via inedita e capace di svelarne aspetti e implicazioni molto importanti, se ne ricava un approfondimento particolarmente importante della rivoluzione in corso su cosa significhi essere umani. Lo studio dell’intersoggettività cinematografica porta a considerare ancora una volta l’origine del concetto stesso di intersoggettività e a capire in quali modi noi esseri umani ci relazioniamo agli spazi in cui siamo immersi, con le persone e con gli oggetti. La corporeità situata degli individui entra in scena nell’esperienza cinematografica, in quanto è strettamente legata al livello sub-personale di descrizione, a quel livello di descrizione che attiene ai neuroni e ai circuiti cerebrali. Se la nostra corporeità si realizza nella sfera dell’esperienza, ne deriva che il corpo è sempre un corpo vivo che agisce e fa esperienza del mondo: “concetti quali “essere”, “sentire”, “agire”, “conoscere”, descrivono modalità diverse delle nostre relazioni con il mondo”. 

 

Il corpo assurge a soggetto della simulazione che siamo in grado di mettere in campo non solo nella nostra vita quotidiana, ma anche nelle nostre esperienze estetiche e mediatiche. L’approccio che Gallese e Guerra utilizzano per la costruzione della loro proposta è quello dell’estetica sperimentale. La nozione di estetica, in questo approccio, è intesa come percezione multimodale del mondo attraverso il corpo. Più che rispondere alla domanda su che cosa sia il cinema, gli autori impostano il libro sulla ricerca dei motivi per cui andiamo al cinema. Il testo si sviluppa intorno ad alcune questioni che può essere utile richiamare, seppur brevemente. In primo luogo vale l’assunto che le neuroscienze possano fornire valide basi sperimentali per comprendere azione, percezione e cognizione umana che, seppur con modalità differenti, descrivono l’essenza incarnata e relazionale degli esseri viventi e dell’uomo in particolare. Una seconda questione ha un prevalente carattere metodologico ed è di particolare importanza per evitare le deformazioni con cui spesso, oggi, si affrontano i contributi rivoluzionari delle neuroscienze.

 

Gli autori sostengono che l’approccio neuroscientifico deve saper coniugare in maniera proficua la dimensione esperienziale e in prima persona con la ricerca dei sottostanti processi e meccanismi sub-personali, combinando la storia del cinema, in questo caso, la teoria del film, la filosofia e altri saperi umanistici. In terza istanza gli autori sottopongono a critica il primato della visione per comprendere il rapporto individuo-mondo. “La nostra esperienza visiva del mondo è il risultato di processi di integrazione multimodale, di cui il sistema motorio è un attore principale”. Come quarto orientamento il libro sottolinea le potenzialità d’azione su cui è basata l’integrazione multimodale di ciò che percepiamo, in quanto siamo sempre situati in un mondo in cui siamo in relazione con altri esseri umani. È la simulazione incarnata a descrivere, da un punto di vista funzionale, meccanismi neurali che ci mettono in risonanza col mondo, instaurando una relazione dialettica tra corpo e mente, soggetto e oggetto, io e altro. Come quinto ambito distintivo gli autori propongono la simulazione liberata, un particolare tipo di espressione della simulazione incarnata.

 

Quel processo può farci comprendere meglio la particolarità e insularità estetica della nostra esperienza della finzione narrativa cinematografica, dando conto di quanto l’accomuna così come di quanto la distingue dall’esperienza di ciò che chiamiamo “mondo reale”. Così come Aby Warburg si era impegnato a varcare i confini disciplinari, al fine di concepire la storia dell’arte come un mezzo per fare luce sul potere di espressione tipicamente umano, allo stesso modo gli autori varcano i confini disciplinari per darci conto di alcuni aspetti peculiari del nostro essere e diventare umani analizzando l’esperienza di simulazione liberata che il cinema rappresenta e consente. Noi comprendiamo il senso di molti dei comportamenti e delle esperienze altrui mediante il riuso degli stessi circuiti neurali su cui si fondano le nostre esperienze agentive, emozionali e sensoriali in prima persona. Dal momento che riutilizziamo i nostri stati e processi mentali, rappresentati in formato corporeo, per attribuirli funzionalmente agli altri, sembra possibile e verosimile utilizzare questo modello come chiave di lettura e interpretazione della ricezione del film. Il nostro approccio alla vita reale così come al film si fonda su meccanismi percettivi e sottostanti meccanismi neurofisiologici in gran parte simili. A partire dalla simulazione incarnata come nuovo modello di percezione, il libro di Gallese e Guerra ci porta di esperimento in esperimento, tra tecnica cinematografica, storia del cinema, filosofia e neuroscienze, in quel mondo a un tempo credibile e fantastico in cui noi spettatori ci muoviamo e ci stupiamo delle forme che ci raccontano la nostra vita e la nostra storia. Ci ritroviamo così in un continuum che, mentre va da Chauvet alle forme più evolute delle tecniche di Pixar, ci aiuta a comprendere chi siamo e come diveniamo noi stessi. 

 

Chauvet, Horses.


La lettura congiunta di questi due contributi, di Gimmelli e di Gallese e Guerra, disegna una nuova prospettiva per comprendere la relazionalità e l’individuazione umane, e suggerisce non pochi percorsi di approfondimento per la conoscenza di noi stessi, le nostre vie immaginative, la nostra capacità di illusione, le nostre dinamiche interpersonali e le nostre possibilità creative.

La simulazione liberata, infatti, è una delle esperienze principali che proviamo dopo essere stati coinvolti e travolti da Laurel & Hardy in Big Business. Quella dimensione coinvolgente del tutto irresistibile, come ben documenta Gabriele Gimmelli, assume molteplici connotazioni, da quella storica, in cui Big Business si rivela un documento di grande rilevanza per comprendere la contingenza storica in cui viene prodotto e divulgato; a quella psicologica, per la sua formidabile capacità disvelatrice delle dinamiche più intime del nostro sentire sollecitato dall’umorismo e dalla comicità degli attori protagonisti; a quella tecnica, per la svolta che il lavoro di Laurel & Hardy riesce a imprimere alla modalità di produrre cinema, con particolare rilevanza per la funzione della lentezza nella generazione di effetti comici e umoristici. 

Come per Il grande dittatore di Charlie Chaplin, che è del 1940, fa una certa impressione che Big Business sia del 1929, lo stesso anno della grande crisi. Da un punto di vista storico la rilevanza del film e la sua contingenza sono impressionanti.

 

Gimmelli evidenzia con dovizia di analisi questo fatto e combina contenuto e stile dell'opera in una lucida e precisa trattazione. La "fine della festa", infatti, è posta in stretta relazione con "l'invenzione della lentezza" da parte di Laurel e Hardy. Lo spazio urbano di una vasta periferia formata da villette a schiera e le strade praticamente deserte, fanno da sfondo al ruolo assegnato "all'altro e più importante simbolo della commedia degli anni Venti, l'automobile". Il "Model T" di Ford, simbolo di un intero stile di vita e di un pervasivo modello di sviluppo, è trattato in modo inglorioso. Se si pensa che per tutto il secolo la latenza del modello fordista avrebbe caratterizzato un'intera civiltà estendendosi di fatto al mondo, non è difficile comprendere la forza intuitiva e anticipatrice del lavoro di Laurel e Hardy. Quel modello ha gettato tutta la sua forza sul secolo e ha cambiato il mondo intero, pur essendo fin dall'inizio pregno di criticità e di problemi per la stessa civiltà che lo ha generato. Tutto questo dice molto della potenza generativa del linguaggio creativo connesso alla comicità e all'umorismo.

 

Per rendere con elevata efficacia un contenuto con queste caratteristiche, lo stile narrativo di Big Business, che Gimmelli evidenzia fin dal titolo, è improntato alla lentezza. Come riportato nel libro, meglio di ogni altra fonte questa scelta è indicata dalla dichiarazione, peraltro dubbia, di Leo McCarey, supervisore alla produzione negli studi di Hal Roach, dove il film nasce e viene realizzato: “Una mattina sono arrivato e ho detto: 'Lavoriamo tutti troppo in fretta. Dobbiamo smetterla con questi movimenti da tarantolati, e lavorare a velocità normale'”. L'affidamento ai tempi morti fra una gag e l'altra, riempiti dalle reazioni estremamente rallentate del protagonista, prolungano di parecchio l'effetto comico di ciascuna trovata. Anche la trovata della distruzione reciproca svolgerà la stessa funzione innovativa con effetti particolari in termini di comicità: una distruzione con rigore e metodo, ma lentamente, senza fretta alcuna. Secondo Gimmelli l'invenzione della lentezza rimane il lascito più importante di Laurel e Hardy al cinema comico americano (e non solo). Con questa scelta stilistica e di metodo Stanlio e Ollio, "intercettano l'aria del tempo e mettono in scena un assalto a ciò che il cittadino medio americano ha di più caro, ossia la casa e l'automobile. E così facendo, scardinano al tempo stesso la narrazione hollywoodiana classica, che dell'ideologia borghese si fa portatrice, facendola collassare fragorosamente sotto il lento stillicidio delle loro gag”. 

 

La fine arte comica di Stan Laurel, vero artefice della coppia, riesce ad assumere una vis comica e ironica straordinariamente anticipatrice (la grande crisi del 1929 scoppierà a pochi giorni dall'uscita del film) in un tempo in cui il grido di quasi tutti gli americani era "a tutta velocità" verso quello che sembrava un mondo di prosperità crescente. Vigeva il mito del self-made man che non aveva perso il suo potere seduttivo: successo individuale, benessere economico, celebrità. Tutto era alla portata di chiunque – apparentemente. Impressiona l'inconsapevolezza che Big Business riesce ad evidenziare e quella condizione di "non vedere di non vedere" che si sarebbe più volte ripetuta, fino a oggi ad ogni tornata di crisi, nel modello di sviluppo in cui siamo immersi. Così come la dinamica di Big Business ci accompagna verso il disastro un passo alla volta, alla stessa maniera pare che, quando siamo immersi in un contesto, i vincoli a riconoscerne i rischi sono tanto più tenaci e accecanti quanto più di successo è stato quel contesto. In tal modo, spesso, prepariamo esiti catastrofici. L'umorismo e la comicità possono essere un lampo nel buio che ci apre gli occhi, come nel finale di Big Business così efficacemente descritto da Gabriele Gimmelli: "L'ultima inquadratura del film è un campo lunghissimo dei tre che corrono lungo la strada, verso un orizzonte indefinito. Big Business si chiude così: non sotto il segno dell'ordine ripristinato, ma di un disordine persistente, di fatto impossibile da arginare e probabilmente destinato a proseguire all'infinito".

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