Storia e storie di Italia ’90 / Trent’anni di notti magiche

8 Luglio 2020

Trent’anni fa andava in scena il campionato mondiale di calcio di Italia ’90. Chi di noi allora c’era, chiudendo gli occhi può ancora rivedere, riascoltare, e perfino riassaporare quei giorni. Ma che cosa sono state, veramente, quelle “notti magiche” per tutti noi? Molto più che semplice sport.

A costellare Italia ’90 sono state innanzitutto vere e proprie icone del loro tempo e delle loro rispettive nazionali. Primo fra tutti, René Higuita, estroso portiere colombiano, la cui fama è oggi legata soprattutto alle sue frequenti “escursioni” - palla al piede - fuori dall’area di rigore, come quella costata l’eliminazione alla Colombia negli ottavi di finale per mano del Camerun. Merito del “nonnetto” Roger Milla, allora già trentottenne (anche se molti giurano però fosse più vecchio), le cui reti a Italia ’90 fanno sognare tutta l’Africa, e le cui esultanze (con tanto di danza Makossa attorno alla bandierina del corner) fanno il giro del mondo. Il giocatore dal più alto tasso folcloristico a calcare i campi di Italia ’90 è forse però il colombiano Carlos Valderrama, noto soprattutto per il suo particolare look, con appariscenti baffi neri e un’inconfondibile folta e riccioluta chioma bionda. 

 

 

Italia ’90 giunge poi a coronamento di un periodo in cui il nostro Paese era conosciuto come il regno del “campionato più bello del mondo”, in cui militavano calciatori fantastici quali Maradona, Van Basten, Platini, Zico e tanti altri. Coi nostri occhi di oggi, Italia ’90 può essere considerata inoltre come l’ultima espressione di quel sano e genuino calcio di provincia degli anni ’80, fatto di storie di campanili, di calzettoni abbassati, di derby infuocati, e assai lontano dal business di soldi e interessi a cui siamo invece abituati oggi. Quel calcio fatto anche da allenatori veraci quali Mazzone, Mondonico e Scoglio, e da presidenti vulcanici quali Rozzi e Anconetani. Quel calcio in cui regnava insomma una forte identificazione territoriale e sociale tra presidenti, allenatori, squadre e rispettive città o regioni di appartenenza. Erano quelli gli anni in cui tutte le partite si giocavano in contemporanea dalla prima all’ultima giornata con la mitica trasmissione radiofonica Tutto il calcio minuto per minuto, con le inconfondibili voci dei radiocronisti dell’epoca, capitanati dal grande e compianto Sandro Ciotti. E poi, alle 18, in televisione il mitico Paolo Valenti (venuto a mancare proprio pochi mesi dopo il mondiale) ci faceva emozionare con la storica trasmissione 90° minuto.

 

Con Italia ’90, il momento sembrava propizio per la nostra nazionale: un gruppo solido, guidato da Azeglio Vicini, allenatore-gentiluomo dal nome e dall’allure quasi risorgimentali. Gruppo composto da giocatori formidabili, come Roberto Baggio che – con Pasadena, il Pallone d’oro e il suo distintivo “Divin Codino” ancora di là da venire – regala al mondo, in occasione proprio di Italia ’90, una perla che ancora oggi riecheggia nei bar e sui social: il gol alla Cecoslovacchia, a tutt’oggi tra i primi dieci nella classifica della storia della Coppa del Mondo. E, ovviamente, di quell’estate ci restano soprattutto gli occhi sgranati di Totò Schillaci, eroe inaspettato di quelle notti irripetibili. Nonostante le interviste dalla grammatica claudicante, nonostante il rigore non calciato in quella semifinale maledetta con l’Argentina, Schillaci resterà per sempre l’eroe di Italia ’90. Miglior giocatore e capocannoniere del torneo, egli è stato il cuore del popolo italiano per un intero mese, e i suoi occhi spiritati sono stati gli occhi di milioni di tifosi stregati da un sogno. 

 

Come si diceva, però, le “notti magiche” sono state molto più di questo. Nessun altro mondiale ha attraversato la Storia – e dalla Storia è stato attraversato – quanto questo. Innanzitutto, Italia ’90 ha visto, per la prima (e finora unica) volta, la presenza in un mondiale degli Emirati Arabi Uniti: i quali, a nemmeno un mese da quella Coppa del Mondo, saranno coinvolti nella Guerra del Golfo tra l’Iraq di Saddam Hussein e la coalizione dell’ONU guidata dagli Stati Uniti, destinata a diventare la prima guerra del villaggio globale.

In secondo luogo, è stato l’ultimo mondiale per molte nazioni e nazionali. Già fortissimi di loro, i tedeschi si erano riunificati giusto pochi mesi prima, come se l'avessero fatto appositamente per accaparrarsi pure i giocatori loro “cugini” d’oltrecortina. Se la caduta del Muro di Berlino del novembre 1989 aveva aperto la strada per la riunificazione tedesca, quest’ultima fu però formalmente conclusa solo il 3 ottobre 1990. E così a vincere quel mondiale fu solo la Germania Ovest. Dei tedeschi “occidentali” campioni del mondo a Italia ’90 resta oggi la classe di Matthäus, come pure i baffetti di Rudi Völler, protagonista quest’ultimo del famoso alterco con un altro baffuto quale Frank Rijkaard (con tanto di doppio sputo da parte di quest’ultimo), durante gli ottavi di finale contro l’Olanda. 

 

Lothar Matthäus

 

Il mondiale italiano ha segnato anche l’ultima apparizione sportiva dell’URSS – la cui dissoluzione, già avviata nel gennaio 1990, si sarebbe completata il 26 dicembre 1991 – come pure della Jugoslavia. E dire che il cammino trionfale di quest’ultima fino ai quarti di finale aveva fatto tacere per qualche settimana quelle rivendicazioni etniche e quei rigurgiti indipendentisti e nazionalistici che covavano già da qualche tempo. Rivendicazioni e rigurgiti che deflagreranno senza più freni appena un anno dopo. Oggi, a trent’anni di distanza, circola ancora nei Balcani una leggenda: ossia che se la Jugoslavia avesse vinto Italia ’90, il rinato entusiasmo popolare avrebbe impedito la guerra civile. Ma la Storia, come noto, non si fa con i “se”.

 

Oltre che sensibile turning point della Storia contemporanea, Italia ’90 ha saputo però essere al contempo anche un fedele specchio della società e dei costumi italiani dell’epoca. Erano quelli i mesi in cui nelle sale cinematografiche passavano Balla coi lupi (Kevin Costner), Edward mani di forbice (Tim Burton), Pretty Woman (Garry Marshall) e Ghost (Jerry Zucker). Erano ancora gli anni dei nostri amati videoregistratori e videocassette VHS, gli anni in cui i televisori a colori continuavano comunque ancora a convivere con i televisori in bianco e nero (bianco e nero come appunto i ricordi che conservo ancora di gran parte delle partite di quel mondiale, poiché il televisore che la mia famiglia aveva nella nostra casa estiva era appunto un vecchio modello di televisore Phonola B/N). Per quei tempi, l’edizione italiana del mondiale fu una delle più avanzate dal punto di vista tecnologico: presso tutte le sedi dedicate agli operatori della stampa e dei mass media furono messe a disposizione tecnologie informatiche e della comunicazione all’avanguardia, con un largo utilizzo e sfoggio di elettronica tutta italiana, in particolare dei prodotti Olivetti. 

 

In quell’Italia “edenica” e “analogica”, appena affacciatasi all’ultimo decennio del XX secolo, ecco l’ultimo grande evento mondiale (se si escludono il Giubileo del 2000 e l’Expo 2015, circoscritti però a due sole città) ospitato dal Bel Paese. E davvero ci manca il nostro mondiale, anche se di difetti e incongruenze ne ha avuti parecchi. Progettato per sei anni attraverso un “congegno a cascata” di comitati e sottocomitati, con in prima fila il Comitato Organizzatore Locale guidato dall’allora manager del Gruppo Fiat Luca Cordero di Montezemolo, il mondiale di Italia ’90 vide un inaudito e faraonico dispiegamento di forze. La prima questione da affrontare fu il riammodernamento degli stadi, con la costruzione inoltre di nuovi appositi impianti, spesso nati già obsoleti e poco funzionali: autentiche, obbrobriose cattedrali nel deserto, come il San Nicola di Bari e il Delle Alpi di Torino. Ciò, unitamente agli abnormi costi complessivi e alle molte infrastrutture incompiute o presto abbandonate, non mancò di dar luogo a polemiche e inchieste.

 

 

Ben altra fortuna toccò invece a un altro prodotto made in Italy: l’epico inno ufficiale dell’evento, quel To Be Number One composto e prodotto da Giorgio Moroder, la cui versione in italiano, interpretata da Gianna Nannini e Edoardo Bennato, entrò da subito prepotentemente nelle case e nelle orecchie degli italiani e non solo, finendo nelle classifiche musicali anche di Svizzera, Svezia e Norvegia. Un’estate italiana – da tutti però meglio conosciuta come Notti magiche, per via di quel ritornello orecchiabile che ancora oggi fa emozionare fino alle lacrime – risulterà il singolo più venduto in Italia e, storicamente, l’ultimo 45 giri a ottenere un massiccio riscontro commerciale.

 

Tutta “firmata” Italia fu poi la cerimonia di apertura, con tutti i continenti presenti al Mondiale rappresentati da modelli sfilanti con capi disegnati dai grandi stilisti italiani: l’America con Valentino in rosso, l’Africa con Missoni in nero, l’Asia con Mila Schön in giallo, e l’Europa con Gianfranco Ferré in verde. Come orgogliosamente italiani erano pure i mega-palloni della cerimonia d’apertura, commissionati ai carristi del carnevale di Viareggio: proprio al grande “decano dei carristi” Arnaldo Galli venne l’idea di inserirvi all’interno lo stesso meccanismo d’apertura telecomandata delle automobili, per poterli appunto schiudere tutti insieme allo stesso momento. 

Non possiamo dimenticare, infine, la mascotte ufficiale della manifestazione, ideata dal grafico veneto Lucio Boscardin, e battezzata attraverso una sorta di referendum settimanale direttamente dagli scommettitori delle schedine del Totocalcio tra una rosa di cinque nomi. Vinse Ciao, e ancora oggi se lo ricordano in tutto il mondo.

 

 

Con tale trionfo di maestranze, artigianato e ingegno made in Italy, Italia ’90 fu utilizzata come biglietto da visita di un Paese che si avviava a essere – si illudeva di essere – uno dei grandi centri economici e politici dell’Occidente. In realtà, col senno di poi, quel mondiale si risolse in gran parte come un meraviglioso fuoco d’artificio, in una delle migliori prefigurazioni storico-narrative della Storia contemporanea. Quello fu infatti il primo momento in cui l’Italia volle sentirsi grande, ma scoprì d’essere inadeguata alle sue ambizioni, non solo sportive. A ben vedere, l’eliminazione in semifinale della selezione di Vicini costituì infatti il primo atto di quel declino economico, politico e morale degli anni immediatamente a seguire, rappresentato di lì a poco da vicende inquietanti e tristemente note: “Mani pulite”, il crollo della cosiddetta Prima Repubblica, le stragi mafiose di Capaci e di via D’Amelio.

 

Oggi, mentre scrivo, mi ritrovo a pensare però che non importa se poi in semifinale i nostri sogni sportivi/sociali di vittoria e grandezza si sono infranti contro l’Argentina di Maradona e Caniggia. Per dirla con Robert Kincaid/Clint Eastwood de I ponti di Madison County: «I vecchi sogni erano bei sogni. Non si sono avverati. Comunque li ho avuti». Se lo dico è perché sono certo che Italia ’90 sia stato anche, e soprattutto, un insieme di microstorie, le storie di ognuno di noi: noi che, ciascuno nella propria rispettiva età della vita di allora, ne siamo stati testimoni. Se è vero, come ha osservato il critico musicale Marco Mangiarotti, che i Festival di Sanremo costituirebbero la mappatura delle nostre emozioni e delle nostre storie personali, in modo analogo penso che i mondiali di calcio rappresentino un indubitabile ed evocativo landmark emozionale, a cui, chi più e chi meno, tutti noi facciamo in qualche modo riferimento. Anche per ragioni del tutto extracalcistiche, come quando ci ritroviamo a rinnovellare immagini e momenti del passato.

 

Questo sentimento di nostalgia e commozione è un sentimento condiviso da molti, e ne ho avuto la prova in questi ultimissimi giorni, appurando come – in un’Italia come quella di questi ultimi mesi, così minata e funestata dalla terribile emergenza sanitaria che tutti ben conosciamo – il ricordo di Italia ’90 sia valso come autentica medicina ai nostri mali, come una voluttuosa immersione in un passato da cui vorremmo ardentemente non separarci mai. Basti pensare alle molte operazioni amarcord in cui ci si può imbattere in questi giorni nei social network, come ad esempio la pagina Facebook creata ad hoc dall’evocativo titolo C’era una volta Italia ’90, con la trasmissione in super-differita di tutte le partite del mondiale italiano, a partire dall’indimenticabile cerimonia d’apertura. Di spirito analogo anche l’omonimo, recentissimo volume di Damiano Cason, Jonatan Peyronel Bonazzi e Diego Cavallotti (Jouvence 2020, 160 pp.), in cui si celebra il trentennale di Italia ’90 attraverso oltre 50 moderne “favole della buonanotte” che narrano le gesta dei più grandi campioni di quel mondiale.

 

 

Ma cosa resta, in definitiva, di quei giorni e di quelle notti? L’atmosfera, irripetibile, di vivere appunto delle “notti magiche”. Sono passati trent’anni, ma sembra ieri. C’è chi era in vacanza al mare, chi a fare il servizio militare di leva, chi invece alle prese con le fatidiche notti prima degli esami, e c’è chi infine, come me, viveva in quel periodo gli ultimi giorni di scuola materna, l’ultimo grande passo prima della scuola elementare. Ebbene sì: nel mio caso Italia ’90 ha costituito un’occasione per un bambino di provincia – come il me di allora, convinto come Cesare Pavese che le colline delle Langhe e del Monferrato costituissero «la porta del mondo», oltre cui non avventurarsi – di vedere il mondo giungere da ogni dove verso di sé. 

 

Conservo ancora oggi quelle giornate dentro di me: ricordi di giochi all’aperto, di ginocchia sbucciate, di lunghe sere d’estate. Davvero per me si è trattato di un «sogno che comincia da bambino e che ti porta sempre più lontano». Non ho mai più ritrovato nella mia vita una serenità come quella di allora: serenità che mi proveniva da un semplice rincorrere un pallone nel mio cortile, «inseguendo un goal», sognando di essere Maradona, Matthäus, Van Basten o magari il nostro Schillaci. Magari sognando di rincorrere un “Etrusco Unico”, il pallone ufficiale di Italia ’90, molto simile al Tango (entrambi firmati Adidas), che tanto ammiravo quando gonfiava la rete nelle partite dei mondiali. Serenità che mi proveniva dal fruscio fra le mani dei pacchetti di figurine di Italia ’90 che scartavo subito all’uscita dall’edicola, con una pazza impazienza. L’album che avevo io non era quello Panini – in cui tutti i calciatori erano ritratti a mezzo busto – bensì quello “Goal Master La Stampa”. Forse perché già in preda ai miei “astratti furori” cinematografici, avevo scelto questo secondo album in quanto i calciatori vi venivano ritratti in modo assai variegato, spaziando dal canonico mezzo busto ai piani americani o alle figure intere, spesso ripresi in azione, o in vari momenti di gioco. 

 

Ebbene, quelle “notti magiche” hanno davvero segnato il passaggio dalla mia infanzia alla mia fanciullezza, con quel mio tuffarmi pieno di entusiasmo e inconsapevolezza verso il mio avvenire, quando ancora, per dirla di nuovo con Pavese, «mi bastava una ventata di tiglio la sera, e mi sentivo un altro». Proprio nell’inebriante odore dei tigli che facevano ombra nella piazza del mio paese – odore di giugno, di inizio estate, che arriva dritto alla testa –, a ogni imbrunire correvo festante verso casa, mentre dalle finestre aperte per la prima calura estiva le televisioni di tutto il paese si sintonizzavano contemporaneamente sulla RAI, e partiva la sigla con le note di Un’estate italiana.

Ecco: finalmente sono rientrato in casa. C’è mia madre che mi aspetta con una bella aranciata fresca. Il televisore è acceso e sintonizzato su Italia ’90. E io bramoso di vivermi e divorarmi, «senza frontiere e con il cuore in gola», la grande avventura della mia vita tutta ancora davanti a me. E con la «voglia di vincere» che in me quell’estate si palesò soprattutto come voglia di vivere.

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