Un libro di Gianni Montieri / Andrés Iniesta, come una danza

16 Novembre 2021

L’epica, in età classica, era la narrazione delle gesta compiute da uomini eccezionali che con le loro imprese avevano fatto grande un popolo e avevano reso onore alle divinità. Se si può parlare di un’epica moderna, possiamo dire che i racconti sportivi sono quelli che meglio si prestano a rinverdire i fasti del genere. Eppure, raccontare lo sport con gli strumenti della narrativa contemporanea non è mai stato semplice. Se poi parliamo di calcio, ci accorgiamo che la letteratura spesso mal si adatta a condensare e a restituire l’energia, il sogno, il caos e la creazione che orbitano intorno a un gol, figuriamoci l’arco di una vita fatta di vittorie e di sconfitte, di gloria e di umiliazioni, di fuoco e di cenere.

“Il calciatore sta sul campo da gioco completamente esposto. È allo scoperto”, diceva Marguerite Duras. “Se è un fesso, si vede subito, se è un mascalzone, anche”. Quando il calciatore non è né un fesso né un mascalzone, ma anzi, è un uomo intelligente, gentile, mite, tutt’altro che eccessivo, umile, umilissimo, perfino nella conformazione fisica gracile e delicata, insomma, quando il calciatore non è – come si dice – un personaggio, le cose si complicano ancora di più.

 

Chi ha accettato la sfida di raccontare l’epica di un antidivo del calcio è Gianni Montieri, col suo Andrés Iniesta, come una danza, pubblicato da 66thand2nd. Iniesta non è uno di quei personaggi da dramma leggendario come Maradona, Best o Gascoigne, uomini che prima ancora di essere dei fenomeni sportivi sono stati dei veri e propri romanzi viventi, benché lo spagnolo sul campo di gioco, trofei alla mano, non sia da meno. Anzi. Nove volte campione della Liga, sei coppe di Spagna, quattro Champions League, due europei e un mondiale, solo per citare le vittorie più importanti. Un palmarès da capogiro per il bambino silenzioso. È così che ce lo presenta Montieri nel flashback iniziale, mentre alla fine degli anni Ottanta gioca con un pallone tra le sedie del bar di Maria Luján, sua madre, a Fuentealbilla, nella comunità autonoma di Castilla-La Mancha, immaginando che gli avventori, i giocatori di carte e i perditempo siano avversari da scartare sul campo. Un sognatore di cinque o sei anni. Ma del resto la regione è la stessa del più famoso sognatore errante della storia: Don Chisciotte.

 

“Don Chisciotte diceva che «fra i due estremi, codardia e temerarietà, c’è quel di mezzo, cioè, la prodezza». Nel caso di Andrés la prodezza è una costante, molto più vicina al coraggio che al timore, ma soprattutto vicina all’ordine”, scrive Montieri. 

La parola ordine è una costante di questo libro, perché è una costante della vita calcistica di Iniesta, del suo gioco. L’ordine è ciò che vede la sua mente laddove gli altri vedono caos. È il principio antropico applicato al calcio. D’altronde cos’altro è, il calcio, se non una perfetta metafora della condizione dell’universo, ossia una realtà caotica che si può afferrare solo perché il nostro modo finalistico di ragionare tende a organizzare tutto secondo un ordine?

 

 

L’intelligenza calcistica di Iniesta è la tendenza naturale a razionalizzare questo fenomeno sfuggente che è una palla rimpallata tra i piedi di ventidue giocatori. Razionalizzare per un fine. Un obiettivo che per gli altri è sempre il gol, mentre per lui è creare la condizione per il gol, e che si raggiunge in un modo solo, ossia scrutando costantemente nel futuro: “Il futuro è quel che accadrà, è una prospettiva, una diagonale, un pensiero laterale. Andrés vede tutto quello che ancora non conosce, ma innanzitutto vede lo spazio, vede ciò che quasi tutti gli altri sono destinati a non trovare mai”.

 

Molto più di un calciatore, quindi. Ecco perché forse è così difficile scrivere di sport. Perché le storie sportive possono diventare voli vertiginosi che includono tutto lo scibile umano. Montieri fa parlare Iniesta, e Iniesta arriva a spiegarci perfino il mistero della bellezza: “Un tunnel quando non è necessario è una cosa da pagliacci, ma se è l’unica cosa che puoi fare per liberarti dell’avversario e proseguire l’azione si trasforma in meraviglia. Niente è essenziale quanto la bellezza”. E se l’arte è anche la capacità dell’uomo di produrre, attraverso una tecnica, un gesto a cui sono riconosciuti una finalità e un valore estetico, di cosa stiamo parlando, nel nostro caso, se non di arte?

 

Bisogna allora chiedersi: da dove arriva l’ispirazione? Due nomi su tutti: Michael Laudrup e Pep Guardiola. Il primo ha un dribbling che ispirerà la famosa croqueta, il gesto di Iniesta per eccellenza, che consiste nello spostare il pallone da un piede all’altro, il destro che fa rimbalzare la palla sul sinistro in modo da disegnare fulmineamente un angolo di novanta gradi, producendo una specie di accelerazione temporale, il difensore che sembra rimanere indietro di un istante rispetto al fluire dell’azione. Il secondo ha la capacità di guardarsi intorno e posizionarsi in anticipo, sapendo prima ancora di ricevere la palla dove sono piazzati i compagni, una preveggenza che si tramuta costantemente nell’intuizione di ciò che è possibile (il calcio del resto, se lo si vuole ridurre alla sua essenza, non è che il tentativo continuo di creare possibilità). Iniesta è la perfetta combinazione di questi due talenti, è tramite loro che diventa per tutti “l’Illusionista” (altri soprannomi che gli affibbieranno nel corso della sua carriera sono “L’Anti-Galactico”, “Il Cavaliere Pallido”, “Il Cervello”, “Don Andrés”), l’uomo capace di dribbling in un fazzoletto di terreno e di imbucate verticali su linee di passaggio invisibili a chiunque altro.

 

Ma forse quel talento nel trovare lo spazio laddove in apparenza non c’è arriva da ancora più lontano. Montieri lo individua nel calcio olandese degli anni Settanta. L’Olanda d’altra parte è per sua natura uno spazio conquistato al mare. E il gioco di Johan Cruijff e compagni è la sublimazione di questa sottrazione. Lo stesso Cruijff allenerà il Barcellona dal 1988 al 1996, e prima di lui un altro olandese, Rinus Michels, ed ecco spiegato come attecchisce in terra di Catalogna quel particolare modo di intendere lo spazio di gioco. Iniesta respira quell’aria fin dai suoi primi passi nel mondo del calcio, nella leggendaria cantera, il vivaio del Barcellona, dove insieme a lui cresce la più stupefacente nidiata di calciatori degli ultimi vent’anni, tra i quali su tutti spicca il nome di Leo Messi.

 

Un pensatore prima ancora che un giocatore, uno che tuttavia, in un momento particolare della sua carriera, un momento che coincide grossomodo con il 2010, sprofonda in una crisi depressiva originata dalla morte dell’amico calciatore Dani Jarque. È l’anno dei mondiali in Sudafrica che saranno vinti dalle Furie Rosse con un gol di Iniesta ai supplementari. E tanto per tingere la storia con le tinte simboliche del parricidio, in quella finale gli avversari della Spagna sono proprio gli olandesi. Un anno di buio in cui l’uomo diventa l’ombra di se stesso, e che riesce infine a salvarsi grazie alle cure del club, della famiglia e di Inma Puig, la psicologa che lo prende in cura. Ma quando al minuto centosedici della finale di quel mondiale Iniesta segna in diagonale il gol che vale una vita, l’uomo è già riemerso dal male. Nei festeggiamenti che seguono si toglie la maglia. Il messaggio che c’è sotto dice: “Dani Jarque siempre con nosostros”.

Tutto troppo perfetto per la vita. Figuriamoci per quella che è la dimora prediletta dell’imperfezione umana. Per la letteratura.

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