Speciale
Ragazzini e animali nella "Storia"
La presenza animale in letteratura è una costante tematica di lunghissima durata: da Esopo in poi, i connotati animaleschi sono la corporeità minacciata, l’astuzia aggressiva o difensiva, gli appetiti e gli istinti. Nel Novecento, l’apparizione della bestia sembra diventare perturbante: vale a dire estranea o angosciosa, come l’oggetto di una rimozione. Nei maestri del modernismo italiano la bestia è, in effetti, veicolo del ritorno del represso: valga per tutti l’improvvisa apparizione nello studio paterno, in Uno, nessuno e centomila (1926) di Pirandello, di uno scarafaggio schiacciato dal piede di Moscarda «col volto strizzato dallo schifo». In alcuni narratori del secondo Novecento, all’ animale perturbante si affianca tuttavia la presenza di un’alterità creaturale, vale a dire naturale, misteriosa e innocente, e si rafforzano i nessi fra figure animali e rappresentazioni dell’infanzia. Questi accostamenti fra animali e ragazzini coesistono, a esempio, sotto il segno del fiabesco, in Italo Calvino, nel cui romanzo d’esordio, Il sentiero dei nidi di ragno (1946), il bambino Pin, come Pietro in Con gli occhi chiusi (1919) di Tozzi, si accanisce crudelmente sui piccoli animali e infilza aghi di pino nelle verruche dei rospi.
Ma è Elsa Morante la scrittrice del Novecento nelle cui pagine diviene più forte la convivenza fra creaturalità animale e presenze non adulte (D’Angeli 2003). Dal misterioso gatto Alvaro in Menzogna e sortilegio (1948) al cagnolino perduto da Manuele nell’infanzia in Aracoeli (1982), si tratta, almeno in apparenza, di vere e proprie incarnazioni di innocenza, creature ancora in uno stato di grazia, prive della conoscenza del bene e del male. La pastora Bella può comunicare con il bambino Useppe e sa confidargli delle storie di lacerata maternità: “Io, una volta, avevo dei cagnolini (…) erano tanti, e uno più bello dell’altro. (…) La loro bellezza era infinita, ecco il fatto. Le bellezze infinite non si possono contare. (…) Li cercai, li aspettai chi sa quanto, ma non hanno fatto ritorno” (La storia, 1974). Useppe stesso, disponendo simbolicamente di due madri, Ida e la cagna Bella, si colloca sulla frontiera incerta tra mondo umano e mondo animale e non conosce consapevolezza o esercizio razionale ma una sorta di prescienza, malinconica e assoluta. (D’Angeli 2003) La disperazione estrema di Manuele adulto in Aracoeli assume la forma di una preghiera animale di annullamento, fagocitazione e ritorno al ventre materno: “Ma tu, mamita, aiutami. Come fanno le gatte coi loro piccoli nati male, tu rimangiami. Accogli la mia deformità nella tua voragine pietosa.”
Dunque, fra animali e ragazzini nella scrittura di Elsa Morante sembrerebbe istituirsi una sostanziale omologia, in secca opposizione con la sfera della Storia: infanzia, poesia e animalità da una parte, poste sotto il segno della straziata innocenza naturale; età adulta e razionalità strumentale dall’altra, sotto il segno del dominio e del sopruso. Un buon testo letterario, tuttavia, mescola sempre le carte e offre al lettore un variegato campo di tensioni e di ambivalenze: e, poiché Morante è una grandissima scrittrice, dovremo aspettarci di incontrare nei suoi testi una vasta rete di motivi irriducibili a binarismi o a un’unità.
Bambini che salvano
Sono soprattutto La storia (1974) e il suo antecedente, Il mondo salvato dai ragazzini (1968), a portare al massimo grado di tensione la coesistenza fra età preadulta e creaturalità. Nella quarta di copertina della prima edizione della Storia, scritta dalla stessa autrice, si legge:
A questo nuovo romanzo – pensato e scritto in tre anni (dal 1971 al 1974) e preceduto immediatamente da Il mondo salvato dai ragazzini (1968) che in qualche modo ne rappresentava l’«apertura» – Elsa Morante consegna la massima esperienza della sua vita «dentro la Storia» quasi a spiegamento totale di tutte le sue precedenti esperienze narrative: da L’isola di Arturo (romanzo, 1957) e Menzogna e sortilegio (romanzo, 1948).
Il mondo salvato dai ragazzini è un testo ibrido, poematico e teatrale, profondamente correlato, per temi, lingua e stile, con la Storia (Mengaldo, 2000). Basti un solo esempio: nell’ultima delle canzoni che compongono l’opera, dal titolo Canzone finale della stella gialla detta pure La carlottina, viene narrato un episodio carnevalesco ambientato nel «Secolo Ventesimo» quando «Re dei Tedeschi […] era un certo Hitler». La protagonista della canzone è la femminella ariana Carlotta detta la Carlottina d’oro, che, davanti al proclama che impone a tutti gli ebrei del Grande Reich l’applicazione della stella gialla sui vestiti, è colta da un improvviso e vitale «attacco d’allegria», si cuce a sua volta una stella gialla sul petto e inizia a girare per Berlino. Carlottina e una moltitudine di ragazzini felicemente ribelli («i miei compagni più malandri, le compagnucce sfiziose») si riversano nelle vie della capitale nazista ostentando il simbolo della discriminazione sul petto, mettendo a nudo i gerarchi e lo stesso Hitler e sbeffeggiando l’ordine del dominio e della guerra:
«E da tre finestre dei piani superiori quasi contemporaneamente / s’affacciano / Hitler Adolfo, inteso fra i ragazzini col nomignolo di Monobaffo o anche di Vaffàn, / Goering Hermann, detto il Ciccione o il Panzone, / e Goebbels Paul Joseph, soprannominato Itterizia. / Le loro tre facce maniache / guardano in su, stravolte da un orrore così nudo / da parere una indecenza»
Nella Storia, tuttavia, questa felice “sommossa” (Di Fazio, 2014) non risulta vittoriosa. La presenza carnevalesca, vitale e infantile non riesce ad avere la meglio sulle forze mortifere del potere e il principio di salvezza assoluto, rappresentato dal bambino Useppe, si scontra con lo scandalo della violenza, della guerra e della povertà ed è destinato a soccombere. Per penetrare i tanti significati del testo, occorre perciò guardare ad altri “ragazzini” del romanzo, dalla natura meno assoluta, e ai loro figuranti animali.
Il lupo e l’uccello migratore
La Storia è il romanzo italiano che più di ogni altro consente ai lettori l’ accesso alla rappresentazione della guerra intesa come atroce, immensa saga popolare. La vicenda, ambientata nei quartieri poveri di Roma dove tentano di sopravvivere la maestra elementare “mezzo ebrea” Ida e i suoi due figli Nino e Useppe, si svolge dal 1941 al 1947, e ciascuno degli otto capitoli dedicati a quegli anni è incorniciato da didascalie circa gli avvenimenti principali della storia ufficiale. Nel romanzo, la bipartizione fra la cornice in apparenza annalistica e il racconto d’invenzione vero e proprio corrisponde all’opposizione fra grande Storia e storia della povera gente. Le vicende del dominio, e la retorica dei potenti, sono oggetto di una descrizione sintetica, apparentemente protocollare e oggettiva ma, in realtà, veicolo di una denuncia corrosiva:
1924-1925
In Italia, dittatura totalitaria del fascista Mussolini, il quale frattanto ha ideato una formula demagogica per il rafforzamento del proprio potere di base. Essa agisce specialmente sui ceti medi, che ricercano nei falsi ideali (per la loro dolorosa incapacità dei veri) una rivincita della propria mediocrità: e consiste nel richiamo alla stirpe gloriosa degli Italiani, eredi legittimi della Massima Potenza storica, la Roma Imperiale dei Cesari. Per merito di questa, e altre simili direttive nazionali, Mussolini verrà innalzato a “idolo di massa” e assumerà il titolo di Duce.
1933
In situazione analoga a quella italiana, in Germania i poteri costituiti consegnano il governo del paese al fondatore del fascismo tedesco (nazismo) Adolfo Hitler, un ossesso sventurato, e invaso dal vizio della morte (“Lo scopo è l’eliminazione delle forze viventi”) il quale a sua volta assurge a idolo di massa, col titolo di Führer, adottando come formula di strapotere la superiorità della razza germanica su tutte le razze umane.
Questo schema binario è tuttavia contraddetto dai punti di vista dei personaggi e dai processi di identificazione richiesti al lettore e queste ambivalenze si fanno più evidenti in presenza di animali.
L’episodio iniziale, relativo allo stupro di Ida, è a questo proposito esemplare. In questa sequenza capitale nella narrazione (da quella violenza nascerà Useppe, il puer sacer protagonista del romanzo), si concentrano tre diverse forme di sopruso: la violenza bellica sulle popolazioni dell’Europa occupata, quella razziale sugli ebrei e quella di genere sulle donne. Ida, rincasando in una sera del gennaio 1941, si imbatte nel giovanissimo soldato tedesco Gunther, ubriaco, desideroso di avventure e malato di nostalgia per la sua casa lontana: il milite tuttavia, pur appartenendo al campo degli oppressori, non viene presentato solo come un carnefice ma anche come un ragazzino tenero e disperato, che di lì a poco, come il soldato Giovannino, morirà in guerra. Indice di questa ambivalenza sono le scelte stilistiche dirette a non demonizzare in modo univoco il tedesco narrando gli eventi alternativamente attraverso il punto di vista del soldato e quello di Ida mediante una “focalizzazione interna variabile” (Genette). L’incontro sghembo e struggente dei due personaggi è un’esperienza radicale e complessa, che va oltre la denuncia morale della “strage” e che impone la condivisione delle menti e dei corpi finzionali, dei cinque sensi, delle allucinazioni di Gunther e di Ida:
Più che vedere lui, essa, sdoppiandosi, vedeva davanti a lui se stessa: come ormai denudata di ogni travestimento, fino al suo cuore geloso di mezza ebrea. Se avesse potuto vederlo, invero, si sarebbe forse accorta che lui, davanti a lei, stava nell’atteggiamento di un mendicante piuttosto che di uno sgherro. Con l’aria di recitare, apposta per impietosirla, la parte del pellegrino, aveva posato su una palma la guancia reclinata. E in una preghiera ilare benché proterva, nella sua voce di basso già timbrata ma fresca e nuova, con dentro ancora qualche acidezza della crescita, ripeté due volte: «…schlafen… schlafen…» A lei, che ignorava del tutto la lingua germanica, l’incomprensibile parola, con la sua mimica misteriosa, suonò per una qualche formula gergale d’inchiesta o d’imputazione. E tentò in italiano una risposta indistinta, che si ridusse a una smorfia quasi di lagrime. Ma per il soldato, grazie al vino, la babele terrestre s’era trasformata tutta in un circo. Risolutamente, in uno slancio da bandito cavalleresco, le prese dalle mani i fagotti e le sporte; e in un volo da trapezista la precedette senz’altro su per la scala. A ogni pianerottolo, si arrestava per aspettarla, uguale a un figlio che, rincasando insieme, fa da staffetta impaziente alla madre tarda. E lei lo seguiva, inciampando a ogni passo, come un ladroncello che si trascina dietro ai portatori della sua croce. (…). Ferma in piedi, con ancora addosso il cappotto e in testa il suo cappellino a lutto, essa non era più una signora di San Lorenzo; ma un disperato migratore asiatico, di piume marrone e di cappuccio nero, travolto nel suo cespuglio provvisorio da un orrendo diluvio occidentale.
I due personaggi non possono comprendersi per via delle differenze linguistiche e per le emozioni reciproche del tutto divergenti: Ida, terrorizzata, pensa di essere oggetto di un’inchiesta poliziesca in quanto ebrea, Gunter intende implorare o estorcere l’amore alla donna. Tuttavia, la voce narrante ha il privilegio di conoscere i pensieri confusi del soldatino tedesco, di tradurli in un italiano balbettante, di abitare la mente terrorizzata di Ida e di svelarne gli equivoci.
Insomma: il giovane soldato è allo stesso tempo un aguzzino e un ragazzino e i lettori possono riconoscere l’ambivalenza che informa di sé l’intero episodio proprio a partire dalle figure animali. Al soldato-ragazzino infatti vengono attribuiti sia i tratti dei predatori (“la grinta di un lupo sperso e digiuno che cerca in un covo estraneo qualche materia da sfamarsi”) che quelli inermi dei cuccioli (“un gattino di tre mesi che reclama la propria cesta”); la donna invece è raffigurata come un uccello inerme, “un disperato migratore asiatico”. La polisemia di queste figure da un lato oppone radicalmente i due personaggi avversi, dall’altro li accomuna per le loro differenti vulnerabilità: quella di Gunther legata alla nostalgia per l’infanzia e la casa perduta, quella di Ida connaturata a una minaccia millenaria incombente. L’animalizzazione dei due protagonisti inoltre prepara il lettore alla dimensione preverbale, sensoriale, che domina la sequenza successiva.
Ida, priva di coscienza perché preda di un improvviso attacco epilettico, non si rende conto di ciò che accade e, quando rinviene, avverte la quiete e la dolcezza che seguono gli eccessi del male mescolati con l’abbandono del corpo maschile nel suo; Gunther, d’altro canto, è raffigurato come un incerto predatore capace a un tempo di rabbia assassina e di goffa, mite tenerezza:
E senza neanche togliersi la cintura della divisa, incurante che costei fosse una vecchia, si buttò sopra di lei, rovesciandola su quel divanoletto arruffato, e la violentò con tanta rabbia, come se volesse assassinarla. La sentiva dibattersi orribilmente, ma, inconsapevole della sua malattia, credeva che lei gli lottasse contro, e tanto più ci s’accaniva per questo, proprio alla maniera della soldataglia ubriaca. Essa in realtà era uscita di coscienza, in una assenza temporanea da lui stesso e dalle circostanze, ma lui non se ne avvide. E tanto era carico di tensioni severe e represse che, nel momento dell’orgasmo, gettò un grande urlo sopra di lei. Poi, nel momento successivo, la sogguardò, in tempo per vedere la sua faccia piena di stupore che si distendeva in un sorriso d’indicibile umiltà e dolcezza. «Carina carina», prese a dirle (era la quarta e ultima parola italiana che aveva imparato). E insieme cominciò a baciarla, con piccoli baci pieni di dolcezza, sulla faccia trasognata che pareva guardarlo e seguitava a sorridergli con una specie di gratitudine. Essa intanto rinveniva piano piano, abbandonata sotto di lui. E nello stato di rilassamento e di quiete che sempre le interveniva fra l’attacco e la coscienza, lo sentì che di nuovo penetrava dentro di lei, però stavolta lentamente, con un moto struggente e possessivo, come se fossero già parenti, e avvezzi l’uno all’altra. Essa ritrovava quel senso di compimento e di riposo che aveva già sperimentato da bambina, alla fine di un attacco, quando la riaccoglieva la stanza affettuosa di suo padre e di sua madre; ma quella sua esperienza infantile oggi le si ingrandì, attraverso il dormiveglia, nella sensazione beata di tornare al proprio corpo totale.
Il lettore è chiamato dalla dimensione polisemica della scrittura a identificarsi sia con la donna violentata che con il soldatino tedesco, oltre il binarismo vittima-carnefice. Nel contesto culturale odierno, in cui la testualità letteraria è privata delle sue prerogative indocili, confinata a funzioni di intrattenimento o, d’altro canto, di piatta denuncia delle ingiustizie, le figure animali della Storia ci chiedono di abitare la mente e il corpo di entrambi i personaggi.
La gatta e il ragazzino
L’anarchico Davide Segre è, a suo modo, uno dei “ragazzini” che popolano le opere morantiane e dai quali ci si aspetterebbe una soluzione di salvezza; Rossella invece è un gatto, come l’Alvaro di Menzogna e sortilegio, immagine di consolazione poetica per Elisa, la giovane protagonista del romanzo d’esordio (Giroletti, 2020). Le due descrizioni di Davide e della gatta invece convergono sotto il segno del brutto e del perturbante, divergendo dalla pura innocenza e dalla creaturalità:
Aveva la pelliccetta logora, ingiallita e zozza, come una gatta vecchia; e il corpo così macilento che al posto dei fianchi, adesso che non era più incinta, le restavano due buchi. La sua coda era ridotta a uno spago; e il suo muso era diventato un triangolo acuto, con gli orecchi enormi, gli occhi dilatati e la bocca semiaperta che mostrava i denti. S’era fatta ancora più piccola di prima; e somigliava, nell’espressione del muso, a certi borsaioli abbrutiti, che invecchiati non fanno che guardarsi da tutti gli altri viventi, non avendo conosciuto che l’odio. Dapprincipio andò ad acquattarsi sotto un banco, ma siccome i ragazzini si sforzavano a stanarla di là sotto, schizzò via, e con un balzo del suo corpo scheletrito raggiunse la cima della catasta, dove rimase appollaiata come un gufo. Stava in guardia, con gli orecchi indietro e gli occhioni iniettati di sangue che fissavano in basso minacciosi. E ogni tanto soffiava, convinta di presentarsi, a quel modo, come un essere terrificante, da fare indietreggiare il mondo intero.
Nella fotografia, scattata alcune stagioni prima, il giovane che presentemente dormiva sul saccone era tuttora riconoscibile, sebbene adesso, al confronto, apparisse sfigurato. Le sue guance, attualmente emaciate, sul ritratto si mostravano colme e fresche, nel loro intatto disegno ovale. Il suo aspetto vi si denotava lindo e addirittura elegante, nel collettino semiaperto, bianco e liscio, con una bella cravattina a nodo. Ma il cambiamento più sconcio era nell’espressione che, sul ritratto, perfino da quella comune fototessera, stupiva per la sua ingenuità. Era seria, fino alla malinconia; ma quella serietà somigliava alla solitudine sognante d’un bambino. Adesso invece la sua fisionomia era segnata da qualcosa di corrotto, che ne pervertiva i lineamenti dall’interno. E questi segni, ancora intrisi di uno stupore terribile, parevano prodotti non da una maturazione graduale; ma da una violenza fulminea, simile a uno stupro.
Perfino il suo sonno ne veniva degradato; e i presenti inconsapevoli ne risentivano un malessere prossimo all’antipatia. Altri tipi dispersi e malandati erano già capitati in quell’ambiente; ma in lui si avvertiva una diversità, che quasi ne scansava la compassione comune.
Una magrezza deformante caratterizza sia il corpo dell’animale che il volto del giovane: i tratti di Rossella sono quelli di una cosa inanimata (lo spago) o di un lugubre uccello notturno (il gufo); quelli di Davide, sono corrotti e degradati come quelli di un bambino stuprato. Entrambi, persa l’innocenza e avendo subito violenza, la riproducono inevitabilmente: la gatta, denutrita e affamata, perseguitata dalla crudentà di alcuni “ragazzini”, lascia morire il suo cucciolo e sbrana, sotto lo sguardo incredulo di Useppe, una coppia di canarini (i Peppinielli); Davide Segre, torturato dai nazisti, benché pacifista, sfonderà a calci la faccia di un SS.
Animali e ragazzini nel romanzo non sono dunque l’alternativa alla violenza della Storia. Al contrario, le figure animali finiscono per veicolare un’immagine di realtà attraversata da tensioni contradditorie: vitalismo e istinto di morte, tenerezza e atrocità, violenza subita e restituita (Giroletti, 2020). Forse è proprio questa capacità del testo di fare i conti con la dimensione della violenza, storica e antropologica, che ha suscitato in un primo tempo l’interesse di un interprete di eccezione come Franco Fortini, che progettò un seminario sul romanzo all’Università di Siena proprio nel 1974, l’ “anno della Storia”, nel corso di una ricezione irta di polemiche, di fraintendimenti e di semplificazioni (Borghesi, 2023).
Dopo mezzo secolo, nel nostro presente, alla luce della tragedia della guerra di nuovo giustificata, propagandata e autorizzata in modo disinvolto e tracotante degli attuali poteri, i ragazzini e gli animali morantiani tornano a parlarci per la loro potenzialità non manichea, grazie alla forza dell’ambivalenza: più della materna Bella e del puer sacer Useppe, sono l’affamata Rossella e il contorto Davide Segre, i traviati dalla violenza della Storia, a riguardarci da vicino.
Per approfondire
Borghesi, Angela (2018), L’anno della Storia. Il dibattito politico e culturale sul romanzo di Elsa Morante. Cronaca e Antologia della critica, Macerata, Quodlibet.
D’Angeli, Concetta (2003) Leggere Elsa Morante. Aracoeli, La Storia e Il mondo salvato dai ragazzini, Roma, Carocci.
Di Fazio, Angela (2014), La lingua della sommossa ne Il mondo salvato dai ragazzini: “Un sistema linguistico così comunicativo da scandalizzare”, «Cuadernos de Filología Italiana», XXI, Nùm. Especial, pp. 113-130.
Giroletti, Stefania (2020), Figure animali e funzioni del doppio nel romanzo La storia di Elsa Morante, «Studi novecenteschi», 99, 1, pp. 105-126.
Mengaldo, Pier Vincenzo (2000), Spunti per un’analisi linguistica dei romanzi di Elsa Morante, in Id., La tradizione del Novecento. Quarta serie, Torino, Bollati Boringhieri, pp. 147-168.
Morante, Elsa (1988), Opere, vol. 1, a cura di C. Cecchi, C. Garboli, Milano, Mondadori.
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Francesca Rubini | Roma fra le pagine della Storia
In occasione dei 50 anni dalla prima pubblicazione del romanzo La Storia di Elsa Morante nel 1974, Biblioteche di Roma e doppiozero propongono dal 24 settembre al 17 dicembre 2024 una nuova rassegna Alfabeto Morante, Lezioni in biblioteca dedicata a una delle autrici più significative del Novecento.
Venerdì 22 novembre ore 11.00 Biblioteca Flaminia
Infanzia e mondo animale nella “Storia” di Elsa Morante con Emanuele Zinato.