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Venezia / Paesi e città

27 Agosto 2012

  Tutto sembra cospirare a rendere impossibile una qualunque topografia sensoriale o memoriale della mia città: l’“effetto” Venezia è troppo aggressivo, troppo totalitario il gadget del pellegrinaggio, troppo fitta la selva delle citazioni. Eppure, se si valorizza l’infanzia come il momento originario che influenza il resto dell’esistenza, si può anche ipotizzare che la mia esperienza della città, prima del sequestro delle emozioni, possa bucare la crosta dei luoghi comuni e del percepire collettivo: a esempio, l’idea di città putrida e “romantica” o quella di “sito” padano, completato da Gardaland e da Rimini.  

 

 

Il Novecento si apre con un celebre ripudio: l’8 luglio 1910, migliaia di volantini Contro Venezia passatista furono lanciati dai futuristi dalla Torre dell’Orologio (“bruciamo le gondole, poltrone a dondolo per cretini, e innalziamo fino al cielo l’imponente geometria dei ponti metallici e degli opifici chiomati di fumo, per abolire le curve cascanti delle vecchie architetture”). E si chiude con un libello dal titolo Contre Venise (1995) che contiene un analogo monito provocatorio (“Finché non avrete ucciso il fantasma di Venezia non vi sarete liberati dal nemico interiore”): l’autore è Régis Debray, protagonista del maggio del ‘68, polemista agguerrito e studioso dei media. Nel loro candore modernolatra, i futuristi avrebbero voluto incendiare Venezia come superflua reliquia del “passato”, Debray al contrario la condanna in quanto nonluogo postmoderno, nuovo reliquiario del turismo globale. Entrambi però sembrano prescrivere una demolizione (“demolite senza pietà le città venerate”). Del resto, una delle più durature icone della città è l’acqua maleodorante e incombente della laguna che ben si presta a legittimare la necessità di una bonifica o rimozione tecnologica (come tale è stato vissuto, a livello simbolico, il Mose…). I “turisti”, che guardano con curiosità e repulsione all’ “acqua alta”, sembrano da sempre ignorare le qualità idrogeologiche della laguna, la sua permeabilità col mare, la rete di barene e dune che la costituisce, propensi a pensarla piuttosto come un lago, morto e fetido: “sembra che qualche ingegnere in vena di scherzi abbia fatto saltare la volta in muratura e selciato, che in tutte le altre città ricopre queste correnti di acque sordide, per costringere gli abitanti a navigare sulle loro stesse fogne” (Maupassant).

 

 

 La mia esperienza infantile della città comincia proprio dalla laguna: con un sàndolo a remi, in affitto, io e mio padre circumnavigavamo Venezia. Erano gli anni Sessanta. Le barche in vetroresina e i motori fuoribordo ancora non imperavano. Lui sembrava vogare in uno spazio senza tempo, io al contrario cercavo di decifrare nel paesaggio i segni delle mutazioni.

 

La laguna Nord (con le barene affioranti e il faro bianco di Murano, le isole Vignole coi moreti, la polveriera della Certosa ormai preda delle erbacce e il profilo del campanile storto di Burano) mi suggeriva in modo plastico e definitivo la coesistenza di natura e storia. I ghebi sinuosi tra le barene erano uguali ai canali veneziani: ce n’erano di grandi e profondi come il Canal grande e di minuti come il più stretto dei rii. Gli uni e gli altri erano scavati dal flusso e riflusso della marea: lo stesso su cui nel Seicento Galileo avrebbe fondato la sua ipotesi copernicana. Sdraiato sulla prua del sàndolo, osservavo il fondale scorrere a poche decine di centimetri sotto lo scafo e ne vedevo i tanti buchi praticati da cape, gò, bisati. Anche lì le maree avevano creato canali serpentini e azzurrognoli e proprio da lì doveva esser nata in un giorno sereno la mia città: pietre, marmi, palazzi, chiese sapientemente costruiti su barene e ponti ricurvi a valicare i ghebi.

 

 

La laguna Ovest, invece, era l’emblema stesso della modernità: si passava col sàndolo sotto al Ponte della Libertà che portava i treni alla stazione di S. Lucia, corpo estraneo bianco e geometrico, e le automobili a Piazzale Roma, con le analoghe candide costruzioni del Parking e di Ligabue. Persino i due cannoncini che ricordano l’insurrezione del ‘48 mi parevano “moderni”, imparentati al ferro delle rotaie piuttosto che al legno delle barche. Ancora più moderna era la silhouette di Marghera, con i fumi e le fiamme del petrolchimico: una sorta di incendio energetico che si specchiava sull’acqua e alludeva in via permanente al disastro ecologico e alle lotte operaie. I turisti arrivavano già, a carovane: i grandi motoscafi degli alberghi gremiti di macchine fotografiche sollevavano un’onda aguzza e spumosa che faceva impennare il nostro vecchio sàndolo. Anch’essi erano corpi estranei alla città, perché tutto lo spazio che mi rappresentavo si bipartiva fra Laguna e Terraferma, e quest’ultima coincideva con tutto ciò che veneziano non era: automobili, aerei, treni, costruzioni nuove, industrie. Un meraviglioso connubio di antico e moderno per me era l’Arsenale, con la sua enorme dàrsena, in cui potevo entrare perché mio padre ci lavorava: da quegli scivoli per secoli erano state calate in acqua le galee ducali, tra le migliori imbarcazioni del mondo, ma lì dentro si potevano anche vedere, invasi dalle ortiche, i bunker antiaerei della seconda guerra mondiale. Lasciavamo il sàndolo ormeggiato a un palo per visitare i grandi depositi di materiale elettrico della Marina, non ancora dismessi, le matasse enormi di rame, i cavi di ricambio per le corvette. All’odore salmastro di alghe si mischiava quello di nafta e di metallo: che immaginavo sentore di macchine e di guerra, traccia di fascisti e di tedeschi, segno persistente di fortezze volanti americane precipitate in laguna da due decenni.

 

 

 Solo se ricorro a queste specifiche immagini archeologiche posso esprimere le stratificazioni conflittuali e spaziali del tempo nella mia mente: a esse mi sono richiamato ogni volta che mi sono appassionato a una “mutazione”, a un conflitto fra diverse forme di vita (l’omologazione pasoliniana, l’ansioso pendolare di Volponi tra Urbino e Ivrea, la Pieve di Soligo di Zanzotto, la Malo di Meneghello…). Per questo, Venezia per me è un’“immagine di pensiero” e non un nonluogo: è il veicolo memoriale di un senso storico-sociale non altrimenti attingibile. Non so dire tuttavia se a un ragazzino degli anni Zero la laguna insegni ancora il Novecento. A Marcel un quadro veneziano di Carpaccio poteva resuscitare una stoffa di Fortuny e perfino il corpo di Albertine. Venezia descritta da Marco a Kublai è emblema di tutte le città immaginabili. Nelle scritture contemporanee, invece, la laguna sembra evocare ancora una volta solo la deiezione, gli scarichi, il pattume (“l’acqua gorgonzolica del bacino”, T. Scarpa, Venezia è un pesce). Alla derealizzazione della “seconda natura” turistica e virtuale, tra vecchio e nuovo millennio, sembra sia diventato possibile opporre solo la nuda corporeità: “La sfiori, l’accarezzi, la pizzichi, la palpi. Metti le mani addosso a Venezia”. Chissà, però, se il moderno – col suo conflitto tra natura e cultura – ci sta davvero alle spalle o piuttosto non si spalanchi davanti a noi, “tenace pece”, come la grande dàrsena dell’ “Arzanà de’ viniziani”.

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