Speciale
Paolo Volponi: letteratura e industria
Se voi parlate di letteratura e industria con qualche grande cattedratico di letteratura italiana, dirà che è un tema chiuso, una cartella ormai consegnata agli atti: sì, si arriva al ‘64, ‘65, ci sono sette o otto romanzi, alcuni numeri di “Menabò”, ci sono delle ricerche, dei saggi, c’è il tentativo di qualche poesia o poemetto, c’è qualche smania avanguardistica; ma poi lì è chiuso. Ora si tratta di professori che restano all’interno del proprio ruolo, della propria cultura, della propria bravura di erudizione; perché il tema invece, secondo me, è ancora apertissimo e attuale. Il confronto fra letteratura e industria, se volete, è il confronto fra politica e industria, fra università e industria, fra consumo e industria, fra società e industria: fra tutto quello infine che tocca la nostra vita e quel che invece la investe e la decide secondo gli schemi della produzione e poi della distribuzione dei beni. In questo equivoco si è caduti anche perché certi punti di partenza non sono stati chiari, per esempio in Vittorini. Io ho una grande riconoscenza e affetto per un uomo come Vittorini, che considero un ottimo scrittore, soprattutto un grande editore e uno che ha dato un grande impulso alla nostra letteratura. Ebbene: lui è stato colto dalla trasformazione di quegli anni ‘50; aveva qualche anno più di me, ed è uno di quelli che hanno visto (meglio di me, anche se anch’io l’ho visto con chiarezza) il mondo cambiare totalmente. Certo, anche voi assistete a trasformazioni rapide, ma noi abbiamo visto il mondo ruotare completamente su se stesso e presentarsi con un’altra faccia. (…) Io l’ho frequentato negli ultimi anni: non scriveva neanche più, leggeva più testi di filosofia, di scienza, di matematica che non di letteratura; aveva la smania di immettere nel discorso letterario le novità della produzione scientifica e tecnica. Diceva: “noi andiamo avanti ancora con delle sinfonie, con delle armonie, mentre il mondo fa già tutto un altro tipo di discorso, i linguaggi sono mutati ma non per la nostra letteratura”. E diceva cose vere, poneva il problema letteratura-industria. Ma lo poneva come se (e qui sta lo sbaglio che ha generato appunto quegli equivoci per cui la storia della letteratura e dell’industria è rimasta quasi un testo letterario), come se l’industria fosse un oggetto da studiare da parte della letteratura e poi anche da imitare, da cui prendere insegnamenti, modelli e non da esplorare, da criticare, come è obbligo e dovere vero della letteratura nei confronti dei temi ai quali si rivolge. Infatti, quando porta avanti se stessa, anche attraverso le proprie regole, la letteratura ha sempre un’esigenza e una necessità giusta di indagare, di fare della critica, di dibattere, di inventare, di penetrare all’interno delle sensazioni, delle emozioni, cioè di cambiare le luci, di penetrare, di scoprire la realtà di certi mondi. Vittorini credeva invece che la letteratura dovesse prendere certi linguaggi dall’industria e avere dall’industria indicazioni per essere più rapida, più attiva, più larga, più coinvolgente. La mia concezione, invece, già allora era quella di avere uno strumento, la letteratura, da mettere di fronte ad un oggetto, l’industria, che si presentava nuovo; e volevo indagare con il mio strumento quella novità, entrando all’interno. (P. Volponi, Di letteratura e industria, in “L’immaginazione”, nn. 73-74, gennaio-febbraio 1990)
Nel 1990, dialogando con gli studenti della Pantera all’Università di Siena occupata, Paolo Volponi percepisce come ancora attuale la discussione su industria e letteratura, confinata dalle storie letterarie al periodo del “miracolo economico” e al breve dibattito promosso da Elio Vittorini sulle pagine del “Menabò”. Le sue idee riguardo al nesso industria-letteratura (lui, il romanziere italiano più di ogni altro capace di rappresentare la fabbrica, in Memoriale, e la sconfitta operaia ne Le mosche del capitale) sono contraddittorie: da un lato avverte “l’obbligo e dovere vero della letteratura nei confronti dei temi ai quali si rivolge” come quello “di indagare, di fare della critica, di dibattere”, dall’altro sente, come scrittore, davanti all’industrializzazione italiana di dover “inventare, di penetrare all’interno delle sensazioni, delle emozioni, cioè di cambiare le luci, di scoprire la realtà di certi mondi”. Quando ci si riferisce a un grande scrittore occorre saper distinguere tra l’ideologia e i risultati, tematici e formali, della sua scrittura. Tanto più ciò appare necessario per Volponi che fu “scrittore di complemento”, coinvolto come dirigente industriale prima e come parlamentare poi in processi produttivi e decisionali estranei al tradizionale mondo delle “lettere”. Dunque: tenuto conto di questa distinzione, ci si può ancora oggi domandare cosa Volponi, come scrittore e come dirigente, si aspettasse dall’industria. Egli nutriva, negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta, una “cieca fiducia” in un’industria democratica, capace di mediare tra gli spiriti animali del capitale (la bulimia del profitto ) e le finalità di progresso (la giustizia e il benessere sociali). Il termine stesso “industria” nel suo ideale olivettiano equivaleva a progettazione e a mediazione. Equivaleva cioè a una capacità d’invenzione e di pianificazione propriamente umana e “artigianale”, in grado di restituire i profitti alla comunità e di dar vita a una bellezza moderna (design, formazione delle maestranze, cultura, partecipazione, progettazione del territorio). Questo disegno non era pura utopia: all’Olivetti in quegli anni lavoravano uomini come Gallino, Musatti, Fortini e Giudici, le edizioni di Comunità traducevano e pubblicavano Simone Weil e Kirkegaard, la biblioteca olivettiana di via Jervis era tra le più aggiornate d’Europa e presso il centro culturale di Ivrea transitavano scrittori e poeti come Pasolini e Enzensberger. Questa fiducia nell’industria progettuale veniva da lontano: dalle ideologie laiche e progressive dell’illuminismo, dalle correnti repubblicane e federaliste del Risorgimento e dal socialismo libertario e filantropico. Volponi, anche dopo la morte di Adriano Olivetti, avvenuta nel 1960, si aspettava che dall’industria venisse un benessere non futile, non barbaro, non degradato, ma incentrato su un’alta qualità della vita. E questo ideale in lui era così tenacemente radicato da attraversare indenne la svolta del 68-69, le grandi lotte operaie, il piano di riarticolazione finanziaria del capitale. La delusione arrivò più tardi e fu terribile: fra il 1973 e il 1975 quando lo scrittore-dirigente subì due “espulsioni” dall’Olivetti (dove stava per diventare Amministratore delegato) e dalla Fondazione Agnelli, dunque dalla Fiat.
Volponi era di certo un uomo contraddittorio, abitato da tensioni psichiche fortissime e da scissioni acute. Non a caso, disse una volta che la radice prima del suo diventare, giovanissimo, un poeta fu “la paura”, il bisogno di dare una forma al proprio terrore “liquido e animale”. La sua grandezza, ciò che lo rende un intellettuale pressoché unico nel panorama del secondo Novecento, sta nell’aver tenuto assieme queste sue anime divergenti entro un disegno unitario e utopico: il dolore, la paura, la scissione in lui vengono riutilizzati come materia prima per una messa in forma estetica e per una speranza nella liberazione umana. Volponi arriva a Ivrea nel ‘56 e il paesaggio dell’Appennino urbinate o le incursioni festose nei Lungotevere della capitale, con Pasolini, lasciano il posto agli interni claustrali e claustrofobici di un’industria perfetta, a cui lui crede e, nondimeno, a cui guarda con ansia. I ficus aziendali che in una memorabile pagina delle Mosche del capitale dialogano con il computer, compaiono già in una lettera a Pasolini, scritta appena giunto negli stabilimenti olivettiani:
Caro Pier Paolo,
Come invidio la tua spavalderia di uomo felice in amore. Io continuo a trascinare il mio cuore su e giù per lungotevere degli Anguillara, davanti a un portone regale, sotto le grandi finestre e l’albagia della casa palazzotta. (…) Intanto lavoro dentro un ufficio di vetro, tra piante insipide che sembrano vivere di corrente elettrica; tutta la stanza vibra tesa, percorsa da sottili e insistenti messaggi, da colori e nichel come un’anticamera della sedia elettrica. Ogni tanto contrabbando un foglio di poesia o un libro. (P. Volponi, Scrivo a te come guardandomi allo specchio. Lettere a Pasolini (1954-1975) , a c. di D. Fioretti, Polistampa, Firenze, 2009, pp. 42-43).
Le piante “insipide” e “elettriche” negli interni aziendali del ‘56 sono un’immagine eloquente: prova della longevità di alcune emblematiche figure e traumatiche allegorie nel repertorio di questo scrittore. Si pensi solo al fatto che il nucleo generatore di Memoriale fu una lettera che un operaio affetto da nevrosi ossessive e da manie persecutorie scrisse a Volponi che in azienda dirigeva il personale: è come se nelle sue prime pagine ci fosse già, insomma, l’innata vocazione a dare voce e forma e cittadinanza alle contraddizioni meno riducibili e alle tensioni meno conciliabili. In modo analogo funziona, rispetto al mito industriale, la coppia divergente di “maestri e amici” costituita da Pier Paolo Pasolini con la sua «religione del peccato innocente» (Gian Carlo Ferretti), e da Adriano Olivetti, con il suo «industrialismo illuminato» . L’amicizia con Pasolini diviene decisiva nel decennio 1955-65, tra gli anni di “Officina”, la rivista bolognese a cui anche Volponi collaborò, e la conversione romanzesca del giovane poeta e dirigente de Le porte dell’Appennino. Scrivere il primo romanzo industriale (Memoriale) ha costituto una vera Bildung per Volponi, mediata fraternamente dal suo maestro e amico. Anche nel campo della sessualità, pur nelle rispettive inclinazioni (omosessuale Pier Paolo, eterosessuale Paolo) Pasolini ha aiutato Volponi a conquistare un senso di creaturale naturalezza nei confronti della rappresentazione del desiderio umano, in tutte le sue forme. Le cose mutano nel decennio successivo: anche se appare come attore in Mamma Roma, Volponi non gradì il successo nell’industria cinematografica dell’amico, il diventare sempre più un uomo di scandalo, e non approvò la polemica luterana e corsara contro i guasti della cultura dei consumi e dell’omologazione. Volponi sentiva questa come una battaglia di retroguardia, già combattuta dai Francofortesi con altri e più aggiornati strumenti culturali. Invece è verosimile ipotizzare che Volponi abbia guardato con speranza alla gestazione di Petrolio e al ritorno di Pasolini alla scrittura romanzesca. Resta il fatto che nessuno seppe parlare di Pasolini e della sua morte con l’umanità affettuosa e sofferta con cui ne parla Volponi nel lungometraggio di Laura Betti Pasolini le ragioni di un sogno o nel breve racconto Cronaca di una notte dei tempi.
Il nesso letteratura–industria è dunque rappresentato nella scrittura volponiana come un campo di tensioni o di forze opposte e all’insegna dell’ ambivalenza: del resto, Pasolini e Olivetti, gli “amici e maestri” degli anni Cinquanta, non potevano di certo evocare in Volponi un medesimo sguardo sulla fabbrica. Nel corso degli anni Settanta e Ottanta andrà poi profilandosi, impetuosa e arrogante, una realtà postindustriale: la deindustrializzazione robotica, le dismissioni, le delocalizzazioni e il dominio del capitale finanziario e immateriale. Allora perché, vien da chiedersi, ancora nel 1990 dialogando con il movimento studentesco della Pantera, Volponi riattualizza il binomio vittoriniano? Una parziale risposta può venire da Corporale. È significativo che, secondo Volponi, il proprio romanzo più “industriale” fosse proprio Corporale, apparentemente incentrato solo sulla paura della bomba nucleare. Volponi amava in modo viscerale questo romanzo, considerato come la propria opera più sofferta, tormentata e misconosciuta e, a differenza dei primi due, osteggiata da Pasolini, che lo vide troppo vicino agli esperimenti della neoavanguardia. È un romanzo di grandissimo rilievo, dalla storia compositiva tormentata e decennale, che si colloca nel solco della tradizione del modernismo: sia sul piano dei temi, con la duplice conquista della capacità di rappresentare la condizione atomica e la mutazione, che su quello delle forme, con l’uso di un punto di vista (e di un io narrante, in due porzioni del testo) di Gerolamo Aspri, un intellettuale deragliato, controfigura dell’autore, e non più di un subalterno come Albino Saluggia. La figuralità pirotecnica, la capacità di creare sinestesie che incrociano i cinque sensi e recettori del corpo, l’uso del lessico pittorico e cinematografico dei colori e della luce fanno di Corporale una miniera di lingua e stile, da studiare per generazioni.
Volponi ha saputo trapiantare nella prosa di Corporale la concentrazione ritmica e figurale del verso non disarticolando la durata della forma narrativa ma anzi esaltandone la potenzialità affabulante grazie al suo opposto, la verticalità poetica. Scrivere “a livello” industriale, a differenza che in Vittorini, per Volponi ha significato “cambiare le luci, penetrare, scoprire la realtà di certi mondi”. In Corporale egli ha fuso a tal fine allegorismo e analogismo visionario e cosmico, scompaginando le carte della critica in modo meraviglioso e salutare. Come solo i più grandi sanno fare. Come ha ben notato Guido Guglielmi, nell’eroe di Corporale diversamente da Albino Saluggia, “ciò che è più primitivo” si coniuga con “ciò che è culturalmente più complesso e maturo” grazie a una straordinaria combinazione di “sovraeccitazione ideologica” e di “basso realismo” (G. Guglielmi, Il romanzo centrale di Volponi, in Miscellanea di studi in onore di Claudio Varese, Vecchiarelli, Urbino, 2001, pp. 439-46). Al di là dei temi (il corpo, la bomba, la mutazione antropologica degli italiani) è forse in questa oltranza costruttiva e formale, sia sul piano dell’elocutio che dell’inventio, che va indagata la segreta sostanza modernamente tecnica e “industriale” dell’intera opera volponiana.