Una scrittrice palestinese / Adania Shibli, una storia di violenza dissepolta
Che cos’è un “dettaglio minore”? In psicoanalisi è ciò che può schiudere l’universo dell’inconscio individuale, la feritoia da cui entra la lama di luce, il punto d’accesso al non dicibile.
In storia, come affermava la narratrice e storica algerina Assia Djebar, è proprio il dettaglio minore a rivelare, riportandolo alla coscienza, l’ineffabile, il rimosso, ciò che è stato sepolto per sempre. Djebar parlava del lutto delle donne algerine, murate nel sudario del silenzio e di un’amnesia imposta e autoimposta. Per loro il dettaglio minore poteva essere un cucchiaino di latta ritrovato nella cenere di un bivacco del maquis. Quel cucchiaino, veicolo materiale di una memoria affettiva soffocata e tuttavia non spenta, poteva fare da esca al ricordo, all’espressione del lutto, al pianto, al dolore che, verbalizzato, libera e restituisce il respiro.
Nella critica d’arte il dettaglio minore, il nonnulla che sfugge all’osservazione perché apparentemente insignificante, è quello che permette di distinguere il falso dall’originale, la copia dal quadro autentico. L’evidenza, in altre parole, tradisce la verità, distrae, distoglie, semplifica invitando lo sguardo a posarsi qui e non lì, a non fare connessioni, a non interrogarsi. L’unghia o il lobo dell’orecchio – ricordate Freud, Morelli e la nascita del paradigma indiziario? – può dire di ciò che è ed è stato più di un volto e la corteccia di un albero più di un intero paesaggio.
La scrittrice Adania Shibli, di origini beduine e palestinese “dell’interno” – come sono chiamati i discendenti dei palestinesi che nel 1948 rimasero a vivere nel neonato stato di Israele, stranieri o cittadini di minor grado nella loro terra – ha intitolato così, Un dettaglio minore, il suo nuovo romanzo (tradotto dall’arabo, con acutezza visiva e acustica, da Monica Ruocco, La Nave di Teseo 2021). Mettendo a tema, fin da quel fuori testo che è il titolo di un’opera, la natura e il movente della sua narrazione: una ricostruzione innescata da un’identificazione e da un impulso “narcisistico” a connettere, fondata su prove non rappresentative, bensì indiziarie.
Tutto nasce da una vicenda reale e dal caso. L’autrice – io narrante, se pur mai dichiarato, della seconda parte di un romanzo simmetrico fin nel numero delle pagine – si imbatte in un cupo fatto di cronaca risalente all’agosto del 1949, per la precisione al 13 del mese di agosto di quell’anno. Quel giorno una ragazza beduina – l’unica sopravvissuta del suo clan? –, catturata e stuprata per giorni da un gruppo di soldati delle Forze di difesa israeliane, viene uccisa e sepolta nelle sabbie del deserto del Negev. Non serve più e puzza. Puzza di dromedario e benzina, odore animale e minerale, non umano, da cancellare.
Quello stesso giorno, venticinque anni dopo, il 13 agosto del 1974, su quel medesimo suolo, viene al mondo Shibli.
Eco, ritorno, rispecchiamento. Fissità del tempo. Ripiegarsi su di sé della Storia in uno spazio dove “tutto è immobile, tranne i miraggi”. Dove, su ogni cosa, regna altissimo il silenzio, rotto dal latrato di un cane (quello della giovane uccisa? Quello che annuncia una morte a venire?) Esiste, può esistere la dimensione temporale in una geografia che si è costruita sul lento, indiscusso avanzare delle ragioni del più forte e sulla logica imperturbata della ripetizione? Il dettaglio minore di Shibli irrompe proprio qui, in quella presunta non-cesura che è la riproduzione dell’identico.
Psicoanalisi e storia e una scrittura rigorosamente ossessiva al servizio di due personaggi, opposti e complementari, destinati a non incontrarsi se non nel territorio misterioso della memoria genetica di chi scrive. Shibli chiama 1 e 2, senza aggiungere altro, le due parti del suo romanzo, consegnando a chi legge l’attrito e l’attrazione dei corpi e la violenza agita e subita in un paesaggio che è esso stesso puro e sensibile corpo ferito.
1.In una “prima parte” solo illusoriamente cronologica, un uomo, un ufficiale dell’esercito israeliano, satura la scena attraverso una terza persona glaciale e potentissima, forense. Di sé quest’uomo sa dire solo attraverso i gesti del comando e i sintomi di un corpo in putrefazione. Il suo regime è quello dell’afasia e dell’inerzia emotiva.
2.Nella seconda – sempre che si possa definire successiva la mise en abyme disegnata da Shibli – una donna, palestinese della diaspora e ricercatrice, entra in scena attraverso una prima persona ansiogena, incalzante e tuttavia altrettanto necroscopica. Anche lei è puro sintomo, fisico e psichico, ma sa e sa parlare di sé, di sé in un territorio invaso e sfregiato.
Due, inscindibili, anamnesi psichiatriche. Due tagli. Due punti di vista e di osservazione. Due narrazioni fortemente soggettive per crearne una sola o una terza, affidata a lettrici e lettori, chiamati con durezza e furore ad assumere il ruolo di osservatori, di testimoni e di giudici. A legarle, quell’evento banale e per definizione muto che è la coincidenza, richiamo inudibile se non in uno stato di tensione e di attenzione particolari. Chi lo coglie non ha via di scampo: ogni segno, ogni impronta si trasforma in geroglifico da decrittare, in tessera di un mosaico esploso.
Mentre scrivo queste righe, a Gaza e in Cisgiordania – la Palestina in estinzione anche come nome di luogo – il copione si sta ripetendo. Israele la chiama difesa, ma i suoi sono atti di offesa, pianificati, spavaldi, impuniti. Shibli, come forse prima di lei solo gli scrittori palestinesi Ghassan Kanafani e Mahmud Darwish, ha saputo restituire al suo paese quella “memoria per l’oblio” di cui noi non sembriamo capaci.
Per sapere che un dromedario è “bianco cieco da un occhio [e] che porta due otri, uno pieno d’olio, e l’altro di vino”, ci ricorda l’autrice, non è necessario che tu l’abbia rubato all’uomo che l’ha perso. Si tratta di rivelare come hai fatto a descrivere un animale che non avevi mai visto, di elencare i piccoli e semplici dettagli, gli indizi minuti, che ti hanno permesso di immaginartelo: “le tracce irregolari sulle sabbia, alcune gocce d’olio e di vino colate dagli otri a causa della sua andatura claudicante e un ciuffo del suo pelo caduto per terra”.
La storia non è forse un atto di immaginazione, la capacità di riempire le lacune lasciandole a vista? Come si fa, con delicatezza e rispetto, restaurando un affresco o un arazzo logorati dalle intemperie e dall’esposizione alla luce. Ma in Palestina la Storia non riesce a coincidere con il passato.