1927 - 2020 / Vittorio Gregotti, l’ostinazione per l’architettura

19 Marzo 2020

Si potrebbe considerare la perdita di Vittorio Gregotti in una certa misura “fatale”, nel senso che – al di là del morbo infuriante ai nostri giorni, che gli ha inferto il decisivo colpo di grazia – il suo stato di salute nell’ultimo periodo era già vacillante, tanto da non promettere di lasciargli a disposizione ancora molto tempo da vivere. E ancora di più: si potrebbe intendere la sua scomparsa come il triste epilogo di una vicenda – professionale e intellettuale – che, avendo egli raggiunto e superato il novantaduesimo anno d’età, si poteva tuttavia ritenere ormai conclusa da tempo. E invece così non è. Gregotti ha continuato fino all’ultimo a combattere la sua battaglia; una battaglia non soltanto per la propria sopravvivenza fisica, ma soprattutto – e innanzitutto – per la sopravvivenza della propria vitalità mentale, vale a dire per sfuggire alla “monumentalizzazione” di se stesso in vita, al vedersi consegnato una volta per tutte alla “storia”. Una battaglia combattuta fino alla fine per affermare – o spesso anche solo per ribadire – la propria idea: di architettura e di mondo. Basti dire che l’ultimo libro da lui scritto, ben lungi dal risalire a dieci o vent’anni fa (come avrebbe potuto legittimamente essere), uscirà invece il 26 marzo di quest’anno. Un libro – Tempo e progetto – il cui tema e il cui titolo lasciano presagire un confronto finale con quella dimensione temporale che, a conti fatti, si è rivelata una sua buona alleata; ma altresì un libro che promette di costituire l’ennesima “puntata” in quel territorio dell’architettura che Gregotti, nel corso della sua lunghissima vita e carriera, ci ha aiutato a esplorare e conoscere nelle sue svariate regioni.

 

Come pochi altri personaggi della vita pubblica attuale, Gregotti ha interpretato il proprio ruolo con una nettezza esemplare. Nettezza d’altri tempi, verrebbe a dire. Ma la nettezza gregottiana è sempre derivata dalla chiarezza della sua posizione. In un’epoca di ambiguità imperante, Gregotti ha rappresentato uno dei pochi “punti fissi”; rispetto a qualunque fenomeno o evento, ha sempre saputo da che parte stare, cosa accogliere e cosa rifiutare. Lo ha fatto – in particolar modo negli ultimi anni – con una sempre maggiore distanza dal “sentire presente”, ciò che ha finito per rendere la sua posizione confondibile, più di una volta, con un conservatorismo nostalgico di ordini o tempi passati. Ma anche in questo caso, si tratta di un’impressione ingannevole. E semmai ciò nei cui confronti Gregotti non ha mai cessato di essere critico è una certa idea di architettura (e di mondo) che pretende di essere l’unica tra quelle possibili. Con una decisione che a tratti è arrivata a rasentare la durezza, Gregotti si è strenuamente opposto alla “liquefazione” dell’architettura (e del mondo), ovvero al modo di concepire entrambi come semplice flusso, “pura comunicazione”. Ed è precisamente a ciò che si riferisce uno dei tanti libri dati alle stampe da Gregotti, in special modo negli ultimi anni, quasi a voler intensificare il suo grido d’allarme: Contro la fine dell’architettura, apparso nel 2008. Ergersi a baluardo contro tale potenziale (ma al tempo stesso assai probabile) destino, che vede l’architettura trascinata con crescente frequenza nei gorghi impetuosi e indifferenti del meccanismo contemporaneo di produzione e riproduzione delle immagini – e dunque la sua sostanziale riduzione a “immagine” a sua volta –, è un compito che parrebbe problematico, se non fosse addirittura titanico. Ma è proprio la difficoltà dello scontro a renderlo degno di essere affrontato, agli occhi di Gregotti. 

 

La sostanza di tale scontro può essere ricondotta a quanto lo stesso Gregotti, in un libro di qualche anno successivo (Il sublime al tempo del contemporaneo, 2013), definisce nei termini di una assoluta, radicale inconciliabilità tra “moderno” e “contemporaneo” (ma si potrebbe dire anche “postmoderno”): dove tanto l’uno che l’altro non sono riducibili a mere periodizzazioni cronologiche, e devono essere intesi piuttosto come “categorie dello spirito”. Due “spiriti” non alternativi, tuttavia, ma potenzialmente conviventi, all’interno della medesima epoca. È così che Gregotti ha potuto continuare fino alla fine a farsi paladino della cultura del moderno, fondata sui valori della ragione, della libertà e della giustizia e sulla centralità del ruolo collettivo che l’architettura deve necessariamente rivestire. Non soltanto dunque egli non ha accettato la pur da gran tempo proclamata “fine del moderno” (giacché per lui il moderno non può finire fintanto che qualcuno ne tiene vive le ragioni), ma pur assistendo al suo inevitabile tramonto, non ha cessato di denunciare l’irragionevolezza della rinuncia ad esso e il cedimento a uno “spirito” postmoderno sempre più invasivo e pervasivo. Espresso in altri termini, si potrebbe affermare che si tratta della lotta senza quartiere tra senso e non-senso, e che la presa di posizione di Gregotti contro la fine dell’architettura corrisponde precisamente al suo schierarsi contro la fine del senso. Non per nulla, la strumentazione che ha utilizzato per cercare di contrastare lo spirito postmoderno è proprio quella moderna: l’analisi, la critica, in qualche caso (più raro nel suo) l’autocritica; ma anche il confronto con la storia, con il contesto, e il costante ricorso al progetto. Con tali armi egli ha cercato di tenere testa al postmoderno in tutti i modi, in tutte le direzioni: affermando la relazione necessaria tra fondazioni e fondamento, tra politica e architettura, la connessione tra storia e nuovo, le idee di infinito, di futuro, di utopia. 

 

Ma oggetto di tale critica – come già accennato – non è esclusivamente l’architettura “nell’epoca dell’incessante” (per citare il significativo titolo di un altro libro gregottiano, anno di pubblicazione 2006), ma quell’epoca stessa nella sua interezza, dominata com’è dal capitalismo finanziario globalizzato e da quanto egli definisce “l’immobilismo dell’incessante novità”. Un’epoca in cui la maggior parte degli architetti e dell’architettura odierni amano rispecchiarsi, assecondandone i valori e le scelte, e rinunciando invece a produrre con il proprio lavoro rappresentazioni di possibili mutamenti capaci di assumere un significato collettivo. In ciò il contemporaneo dà spazio a quel che Gregotti ha designato con il termine “sublime”, intendendo non quel che Kant vedeva come un conflitto irrisolvibile tra sensibilità e ragione, bensì la vertiginosa affermazione di una “incessante provvisorietà”: “Il sublime al tempo del contemporaneo è la superficiale trasposizione del terribile, dell’orrendo senza il pathos della possibilità; è l’evidenza dell’incapacità di porre la questione del senso, cioè la fuga dal pensiero della ragione critica”.

 

Per comprendere le ragioni profonde della posizione di Gregotti è però necessario fare un passo indietro rispetto alle sue stesse “conclusioni”, e provare a comprendere quale sia il paradigma progettuale moderno cui egli tenacemente si rifà. In estrema sintesi, esistono due modi di praticare l’architettura, tendenzialmente alternativi fra loro: il primo consiste nel prendere in considerazione l’edificio in quanto tale, le sue specificità, le sue destinazioni d’uso, le sue caratteristiche costruttive, strutturali, materiali, distributive, tipologiche, estetiche; il secondo comporta invece il suo inserimento nel contesto in cui sorge, le relazioni che intrattiene con l’“ambiente” che lo circonda, la sua collocazione all’interno di un “panorama” più ampio. Il modo di praticare l’architettura di Gregotti appartiene senz’altro alla seconda specie. Non per forza nel senso che i suoi edifici si preoccupino di relazionarsi al loro contesto attraverso gli elementi (soluzioni, forme, materiali) che impiegano. Non si può certo parlare, nel caso della sua architettura, di “contestualismo” nel senso più proprio ma anche più riduttivo del termine. Le condizioni di “integrazione” e “omologia” di un edificio nei confronti di quelli che gli sorgono accanto, e intorno, se costituiscono fattori spesso positivi e virtuosi all’interno di contesti (in particolar modo storici) che presentano caratteri fortemente omogenei, più raramente lo sono altrettanto nel caso l’edificio debba assumere un unico punto di riferimento all’interno di un ambiente variegato e difforme qual è ad esempio un contesto urbano contemporaneo.

 

 

Più che le tantissime architetture da lui prodotte in sessant’anni di lavoro, dunque, è il modo stesso in cui Gregotti ha praticato l’architettura a comportare l’inserimento in un contesto più vasto, a implicare strette relazioni con l’“ambiente”, a collocarsi “naturalmente” nell’ambito di un certo “panorama” allargato. Con una lucidità e una caparbietà davvero ammirevoli, Gregotti nel corso del tempo ha costruito la propria pratica architettonica come un unico, grande “contesto”: un contesto nel quale rientrano i maestri che ha ammirato e amato (e in svariate occasioni anche conosciuto); gli interlocutori con i quali ha dialogato (non soltanto architetti ma pure – in moltissimi casi – filosofi, letterati, artisti, musicisti); le architetture su cui si è formato e i luoghi che ha frequentato; i pensieri che ha distillato e quelli che hanno contribuito a formarli; la visione dell’architettura e del mondo che ha via via elaborato. Tutti questi elementi – ma in realtà molti altri ancora – danno corpo, nel loro insieme, a quello che poco più sopra si è chiamato contesto. Sue peculiarità sono la coerenza, la necessità, la logica (non però nell’accezione “matematico-formale” bensì in quella esperienziale, deduttiva, assimilabile alla ragione, o alla ragionevolezza). Di tutto ciò la sua Autobiografia del XX secolo (2005) offre un’ampia e dettagliata esposizione.

 

Nulla sembra dissonare all’interno del contesto che ha coinvolto Gregotti, e in cui lo stesso Gregotti si è integralmente immerso. Si tratta di un “sistema” (ma si potrebbe altrettanto bene dire una “rete”) di relazioni tra persone, luoghi, oggetti, nozioni, pensieri, ecc., ciascuno dei quali ha un senso e occupa un posto preciso. Un “cosmo ordinato”, verrebbe da dire con una tautologia: il cosmo di un architetto del ’900, per parafrasare il sottotitolo di un famoso libro di Carlo Ginzburg. Sfuggirebbero comunque i termini di questo contesto se non lo si comprendesse come una costruzione nel tempo, lenta e stratificata, alla quale Gregotti ha lungamente atteso, accostandovi pezzo a pezzo, secondo un disegno in divenire ma al tempo stesso perfettamente evidente e compiuto nel suo significato ultimo e nella sua struttura complessiva; un disegno all’interno del quale tutti gli elementi presenti partecipano – almeno idealmente – alla composizione di una sola “figura”, ovvero – fuor di metafora – trovano un comune piano di accordo.

 

Di questo complesso (benché straordinariamente compatto e unitario) contesto fanno parte ovviamente anche le architetture di Gregotti. Da un certo punto di vista ne sono il presupposto, da un altro ne sono il prodotto. Ma in ogni caso costituiscono il fattore essenziale intorno al quale ruota l’intero “sistema”. Per questa ragione – e proprio in ragione del loro far parte in modo congenito del suddetto contesto – non si può guardarle e giudicarle come oggetti a sé stanti, indipendenti, autonomi. Il loro essere e il loro apparire sono soltanto le facies di un discorso più grande e più lungo, in cui esse sono inserite, e di cui sono il riflesso. Al di fuori del contesto – si può giungere a dire – esse non sono nulla, non significano nulla. Ciò, che nella prospettiva assolutizzante e pseudo-spettacolarizzante dell’archistar-system contemporaneo potrebbe apparire (o sarebbe tout court) una minorazione, se non addirittura un insulto, nella logica “contestuale” risulta semplicemente giusto e opportuno. Allorché Manfredo Tafuri, riferendosi alle architetture di Gregotti, ne ha messo in luce il carattere territoriale, la “dimensione paesistica” (Storia dell’architettura italiana 1944-1985, 1986), non è soltanto a una questione di scala cui egli alludeva; così come, quando ne ha messo in rilievo lo “stile severo”, la “fissità delle forme” (Vittorio Gregotti. Progetti e architetture, 1982), fino al limite del disinteresse per la “forma” stessa, non è stato certo per criticare tale attitudine quanto piuttosto per sottolineare la vanitas dell’assolutizzazione della dimensione estetica non soltanto nella prospettiva di una critica “avvertita” ma anche – e in primo luogo – nella prospettiva dello stesso Gregotti. 

 

Dentro questa considerazione dell’architettura di Gregotti come sempre dotata – in maniera approfondita e allargata rispetto a molta altra architettura – di un necessario rapporto con il contesto, con il suo intorno, va inserita la riflessione che egli ha condotto in L’architettura di Cézanne (2011). Meglio ancora di quanto non avesse fatto in precedenza con Le scarpe di Van Gogh (1994), tematicamente affine, in L’architettura di Cézanne Gregotti ha provato a definire il proprio approccio all’architettura attraverso il medium della pittura. Chiarito che “ciò è il contrario di ogni tentativo di mettere in discussione la specificità di ciascuna delle pratiche”, come egli stesso precisa, resta da dire che addentrandosi nello specifico del rapporto con la pittura – e in particolar modo con quella di Cézanne – si aprono interessanti prospettive proprio nella direzione “contestuale” sopra indicata. Nei quadri di Cézanne le “cose” rappresentate (siano esse persone, oggetti, architetture o elementi naturali) sono inserite nel “paesaggio” (interno o esterno che sia) come qualcosa che ne condivide la costruzione. Ogni “cosa” – e non solo ciò che è artificiale, ma anche la natura in quanto dotata di una propria “tettonica” – in essi risulta “costruita”. Il quadro stesso con tutta evidenza è costruito, e la composizione ne è la “struttura fondante”.

Tutte queste “cose” – nota Gregotti – hanno un peso, una “solidità corporea”. Tuttavia, più che l’ossatura, o la struttura, a svolgere la funzione portante di ciascun “volume” dipinto, è il colore ciò che per Cézanne ne costituisce l’elemento statico. E ancor di più: il colore è l’“aspetto strutturante (architettonico?)”, oltreché delle singole “cose”, “dell’intera composizione”.

 


Palesemente, ciò cui è interessato Gregotti, nella circostanza, non è la questione cromatica in quanto tale: non il colore in sé, come qualificazione pittorica impiegabile – e di fatto impiegata – anche in architettura, quanto piuttosto il ruolo che esso riveste, nell’organizzazione dei quadri cézanniani, di “collante” – o addirittura di materia – di tutte le “cose”: come se fosse esso stesso il “contesto” di cui si è parlato. E forse, in questo senso, si sarebbe potuto chiamarlo anche “quadro”. È nel colore (colore-struttura, non colore riempitivo, o esornativo) che il quadro si rivela come qualcosa di compiuto, di unitario: qualcosa di più di una semplice “porzione” di realtà, delimitata da un’“inquadratura”, e perciò separata dalla restante realtà. Qualcosa di più e di diverso da una mera “rappresentazione” della realtà. Non per nulla Cézanne spesso si riferisce – e Gregotti giustamente lo sottolinea – all’“intenzionalità della sensazione […] che la sua pittura vuole provocare”. Il quadro cioè s’incarica della costituzione delle “sensazioni” di cui è portatore, come fosse il suo “messaggio”, o il suo “programma”. 

 

Che questa sia la finalità del quadro, nei propositi di Cézanne, è esplicitamente dichiarato nella famosa lettera a Emile Bernard del 23 ottobre 1905, da cui prende spunto il libro di Jacques Derrida (La vérité en peinture, 1978), e su cui ritorna anche lo stesso libro di Gregotti: “Io vi devo la verità in pittura, e ve la dirò”. In questione nel quadro è dunque la verità, non la realtà. Una verità da intendere non in senso trascendente ma immanente, una verità relativa alle “cose” che vi compaiono e alle “sensazioni” che esse sono in grado di suscitare. Ben al di là di ogni “naturalismo”, o “realismo superficiale”, quindi, la pittura di Cézanne cerca di cogliere un “realismo profondo”, fissando attraverso la costruzione compositiva cromatica il “carattere rivelativo delle cose”, la loro “struttura originaria”. Si tratta di un lavoro archeologico-geologico, una sorta di “scavo” in direzione dell’essenza della pittura, condotto mediante lo “strumento” del colore-struttura. 

 

È questo lavoro di “scavo” ciò che Gregotti ha cercato di riguadagnare all’architettura per mezzo della pittura di Cézanne, rivelando però al tempo stesso – retrospettivamente – come la lezione del pittore francese abbia costituito parte integrante della propria formazione: “L’interesse che la pratica artistica del moderno in architettura apre, specie con la mia generazione, nei confronti del paesaggio e delle sue modificazioni soprattutto come materiale del progetto, sino a ricostruirne le gerarchie in quanto possibilità insediativa è quindi debitore anche nei confronti della pittura di Cézanne”. Stando a questa affermazione, sarebbe stata dunque proprio la ricerca della “verità in pittura” da parte di Cézanne a influenzarlo – in maniera più o meno cosciente – nel suo modo di concepire la propria architettura, e di conseguenza anche a suscitare in lui la propria ricerca della “verità in architettura”.

 

Alla luce di ciò, sarebbe opportuno provare ad analizzare tutta l’architettura di Gregotti sotto questo specifico punto di vista, e non soltanto il Grand Théâtre di Aix-en-Provence (2003-07), come egli stesso fa nel libro su Cézanne. È interessante tuttavia che, proprio riferendosi a tale progetto, egli rilevi come esso, sulla scorta delle “sollecitazioni” cézanniane, abbia rappresentato il “tentativo di costruire un processo di radicale discussione della relazione tra architettura e contesto geografico profondo”. Il suo obiettivo sarebbe quello di costruire “qualcosa che appaia da sempre costitutivo del luogo”. A questo fine il suo sforzo si concentra nel “trasformare la […] costruzione da edificio in architettura del terreno”: “un terreno pietrificato […] su cui la gente di Aix-en-Provence può camminare”. La morfologia del Teatro viene così ripensata come si trattasse di un accumulo di “strati geologici”, di materia minerale, esattamente al modo in cui Cézanne intendeva e dipingeva la Montagne Sainte-Victoire e il paesaggio che la circonda: implicando con ciò che il Teatro, unitamente a farsi interprete delle funzioni che gli sono proprie, debba farsi interprete anche di “sensazioni”. Inoltre, nel libro citato Gregotti arriva ad affiancare alcune fotografie del Teatro e altrettante riproduzioni di quadri di Cézanne, con lo scopo palese di rintracciare – e al tempo stesso di “comprovare” – l’esistenza di possibili assonanze tra esse, e persino di un vero e proprio piano analogico, di natura non meno figurale che sostanziale.

 

Allo stesso modo si possono rileggere i più significativi progetti di Gregotti come tentativo di istituire una “relazione tra architettura e contesto geografico profondo”: la sede dell’Università degli studi di Firenze (1971), rimasta allo stadio di progetto, quella realizzata dell’Università degli studi della Calabria, a Rende presso Cosenza (1973-79), l’intervento ex lege 167 di edilizia economico-popolare a Cefalù (1976-79), perfino il Quartiere ZEN a Palermo (1969-73), rivelano tutti la loro concezione dell’architettura come fatto non isolato, quanto piuttosto come qualcosa che compartecipa delle costruzione di un paesaggio più vasto; un paesaggio del quale l’architettura non è semplicemente “parte” ma con il quale giunge organicamente a fondersi, se non addirittura a confondersi. E se i citati progetti per Firenze, Rende, Cefalù, si presentano come macrosegni, con valenza quasi “gestuale”, che cercano un inserimento e un dialogo con il paesaggio geografico, il Quartiere ZEN prova invece ad avviare un (pur difficile) colloquio con il paesaggio storico, individuando nella forma della griglia delle città di fondazione del Settecento siciliane un possibile “momento di inizio, sepolto sotto gli eventi della storia”.

 

 

Analogamente si potrebbe dire del Quartiere per abitazioni popolari a Cannaregio, Venezia (1981-2001), del Centro culturale Belém a Lisbona (1988-93), del Quartiere Bicocca a Milano (1989-2010), della Città nuova di Pujiang in Cina (2001-09): tutte occasioni nelle quali Gregotti oltrepassa, non soltanto dimensionalmente ma anche concettualmente, la scala architettonica, per accedere alla costruzione di un paesaggio urbano. È qui che si verifica tangibilmente ciò che egli scrive in L’architettura di Cézanne: “costruire, erigere come modo di riconoscere l’essenza di un luogo modificandolo e ricucendolo, ristabilendone la conoscenza e su di essa fondare il suo uso”. In questa prospettiva l’architettura, più che come una “forma in sé”, appare come una forma d’interrogazione del luogo, e al tempo stesso come una risposta che attinge i propri modi (costruttivi, distributivi, spaziali, estetici) direttamente da esso. È ciò che conferisce all’architettura quell’aspetto “nativo”, originario di cui parla Gregotti, prendendo lo spunto dalle riflessioni cézanniane: aspetto – sia chiaro – che non ha nulla a che fare con lessici vernacolari, o con riprese della tradizione, e che si dà piuttosto come una “sovrapposizione di strati”: “strati di azioni naturali e umane”, precisa Gregotti, che si sono depositate nel tempo e nel luogo, e che l’architetto è chiamato a rintracciare e a trasformare con il suo lavoro di “scavo” (conoscitivo e materiale); giacché compito dell’architetto è la “modificazione del contesto come interpretazione civile e profonda delle sue possibilità”.

 

Ma proprio ciò ci riconduce al primo libro di Gregotti, Il territorio dell’architettura (1966), quella riflessione d’esordio in cui, pur rimanendo fedele ai “maestri” dell’architettura moderna (sopra tutti il “suo” maestro Ernesto Nathan Rogers), egli ha compiuto un significativo allargamento del campo d’azione disciplinare, da un punto di vista fisico e concettuale. Per il giovane Gregotti l’architettura diviene – nel senso più effettivo – un terreno esteso che l’architetto è chiamato a leggere e ad “accordare” secondo un paradigma di complessità e di “apertura” che prevede sempre e comunque, per essere affrontato, l’esercizio del progetto; una semiologia a larga scala, si potrebbe dire sulla scorta dei riferimenti che lo stesso autore utilizza nel libro. All’interno di questo orizzonte preventivamente controllabile e modificabile con successivi adeguamenti, Gregotti lascia spazio anche alla nozione di “ambiente”, nella specifica versione di “ambiente antropogeografico”, nozione evolutiva rispetto a quella di Rogers ma indubitabilmente discendente da essa. Un nuovo tipo di unità – quella proposta da Gregotti – tra architettura, urbanistica, geografia e le altre discipline che si occupano dell’interpretazione e delle modificazioni dello spazio che lo stesso Gregotti si incarica non soltanto di enunciare ma anche di studiare con sguardo profondamente analitico, nonché di affrontare con i propri progetti. 

 

È sulla scorta di questa articolata “costruzione” (di pensiero e di azioni) che – forse – si lascia comprendere, nella pienezza della sua portata, la lotta ingaggiata da Gregotti con lo spirito contemporaneo, negatore di tutte le sottili relazioni – e prima di ogni altra cosa, di un’idea di realtà da costruire e decostruire – di cui egli si è fatto difensore e propagatore. Una realtà che è evidentemente tutt’altra cosa rispetto al puro rispecchiamento dell’esistente. Si tratta invece di un fondamento più solido, più effettivo, più reale delle apparenze, delle “immagini”, a cui troppo di sovente oggi l’architettura si riduce; un fondamento su cui le “cose” dell’architettura poggiano e dal quale desumono il loro senso. Realtà che non soltanto “esiste”, ma che “pre-esiste” a ogni intervento umano (e che in questo si lascia qualificare come “realtà naturale”), e nel contempo è frutto di una costruzione, di un continuo lavoro necessario per accedervi. Realtà che, a tratti, dà luogo a esili ma resistenti “frammenti di verità”. È questa la materia, a volte poco appariscente ma sempre incredibilmente tenace, di cui sono fatte le “cose” di Gregotti. Al punto che di esse si potrebbe dire lo stesso che Rainer Maria Rilke ha scritto a proposito delle “cose” dipinte da Cézanne: “indistruttibili nella loro ostinata presenza”. E vi è da ritenere che neppure la scomparsa di Gregotti – ma neppure quella (possibile? probabile?) del mondo così come l’abbiamo conosciuto finora, nel momento in cui il morbo infuriante ai nostri giorni avrà finalmente cessato di agire – potrà riuscire a distruggerle.

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