Parlare e ascoltare / Quella voce che ci rende umani

7 Marzo 2021

È una bella serata del febbraio 1878. La sala teatrale della Royal Institution a Londra, il luogo in cui la buona società inglese si riunisce per scoprire le ultime novità della scienza, è gremita. Il pubblico osserva quasi ipnotizzato un nuovo meccanismo semplice e geniale: un ago percorre un solco di profondità variabile, inciso su un rullo avvolto nella stagnola, che viene fatto girare con una manovella, provocando così una serie di vibrazioni a una sottile membrana, collegata a sua volta a un piccolo imbuto. Nello stupore generale si sentono delle parole: Hey Diddle Diddle, the Cat and the Fiddle, pronunciate da una voce caricaturale, debolissima e soprannaturale. È una filastrocca che tutti conoscono fin da bambini, e la scelta è davvero azzeccata, perché il pubblico, sapendo a memoria le parole, può inconsciamente completare la frase, che a tratti risulta incomprensibile per i rumori di fondo. L’episodio è raccontato da Trevor Cox, professore di Ingegneria acustica all’Università di Salford, in Gran Bretagna, in A ciascuno la sua voce. Come parliamo e ascoltiamo dai Neanderthal all’intelligenza artificiale, da poco uscito per le Edizioni Dedalo. È così che nacque il primo fonografo di Thomas A. Edison che segnò, secondo Cox, l’inizio della terza era della storia orale dell’umanità, un vero e proprio spartiacque: per la prima volta era possibile registrare le voci e, nei decenni successivi, diffonderle (dapprima sui dischi e poi con la radio…); con la scoperta perturbante che anche l’unica voce che sentiamo continuamente per tutta la vita – cioè la nostra – rimbomba per noi più di come la sentono gli altri, perché il suono, nel suo percorso dalla laringe all’orecchio, genera vibrazioni che amplificano i bassi.

 

Poco meno di una decina di anni dopo lo stesso Thomas A. Edison, come un mago tecnologico, sogna una macchina che non solo registri le voci del presente, ma possa tenere traccia anche dei suoni antichi. Secondo una credenza popolare dell’epoca, il suono una volta generatosi non scompariva mai completamente, piuttosto continuava a decrescere all’infinito. Il passato non era morto, era solo molto affievolito. Si trattava allora di inventare una macchina in grado di catturare il bisbiglio del tempo remoto esattamente come il telescopio rendeva visibile la luce antica delle stelle più lontane offrendo un’immagine del passato. Questo sogna Edison, qui protagonista del romanzo fantascientifico Eva futura di Villiers de L’Isle-Adam (1886), citato tra le opere fondamentali per capire l’influenza delle tecnologie audio alla fine del XIX secolo da Steven Connor, professore di Modern Literature and Theory al Birbeck College di Londra, in La voce come medium. Storia culturale del ventriloquio, uscito una prima volta nel 2007 e adesso ristampato in una nuova edizione, sempre da Luca Sossella Editore, arricchito da una premessa di Marco Belpoliti, una postilla alla prefazione della prima edizione, sempre di Alberto Abruzzese e Davide Borrelli, un Post-scriptum. Performare il ventriloquio di Piersandra Di Matteo e infine una postfazione, Panfonia, pensata appositamente per questa seconda edizione italiana, dello stesso Connor.

 

In questo saggio di grande originalità Connor, come se raccogliesse i suoni di un passato lontanissimo, costruisce quasi una mitografia del ventriloquio, cioè una monumentale storia della voce che arriva da un luogo diverso dalla persona che parla, e dunque anche della dissociazione tra suono e visione. Di solito la questione del ventriloquio pertiene alla storia della magia, dell’illusionismo, dei giochi di prestigio; in realtà è una pratica antichissima che Connor fa risalire all’oracolo di Delfi, tirando in ballo questioni religiose e filosofiche. Prima delle forme di intrattenimento, il ventriloquo – o meglio la ventriloqua, perché all’inizio sono in prevalenza donne – ha a che fare con la profezia, il respiro, la frenesia.

La pratica del ventriloquio nella storia può avere una forma attiva e una passiva, a seconda che sia pensata come il potere di parlare attraverso gli altri o come l’esperienza di essere parlato dagli altri. Il fascino e la minaccia del ventriloquio derivavano dalla convinzione che esso rappresentasse il potere del suono di annullare l’evidenza della vista. Una voce che proviene dal nulla o da qualche luogo improbabile genera inquietudine. Il mago di Oz, ancora nel 1900, è capace di terrorizzare la piccola Dorothy con il suo ventriloquio amplificato (d’altronde, ricorda Belpoliti, «nella nostra epoca il conquistatore è sempre “alto-parlante” e, come conclude un vecchio aneddoto riferito da Connor, Stalin è solo Gengis Kahn con un telefono»; e viene in mente anche, tra le reinterpretazioni contemporanee, il mago di Oz della compagnia teatrale Fanny & Alexander). Ma il ventriloquio in realtà è la storia anche della relazione tra occhio e orecchio, e di come i due sensi corrispondenti operino nello spazio.

 

E così, attraversando i secoli, incontrando i ventriloqui più disparati, con o senza l’usuale pupazzo, seguendo le evoluzioni dello spiritismo e delle possessioni, il saggio di Connor ci porta dritti dritti nell’epoca della riproducibilità tecnica, che è anche riproducibilità dei suoni e delle voci, e loro separazione dai corpi.

Leggere assieme i saggi di Cox e di Connor consolida l’idea che la storia della voce e la sua evoluzione siano un campo di studi straordinariamente ricco con implicazioni in tutte le branche del sapere, dall’antropologia alla letteratura, dalla scienza alla teologia. Lo spartiacque tecnologico è relativamente recente: tra Ottocento e Novecento si susseguono invenzioni clamorose come il fonografo, il telefono, l’altoparlante, il microfono, la radio. La cultura visuale del ventesimo secolo, secondo la convincente tesi di Connor, si origina ed è anticipata da una tecnologia che riconfigura la sensorialità dalla parte dell’orecchio. La nostra percezione quasi mai è debitrice di un unico senso, ma è il frutto di molteplici impulsi. Concentrarsi su un senso solo però permette che si generino più unioni sinestetiche, con evidenti implicazioni per il mondo delle arti. 

 

 

Tra i capitoli più originali in A ciascuno la sua voce di Cox vi è sicuramente Io sono la mia voce, dedicato al discorso interno. È stato dimostrato che un quarto della nostra vita cosciente è occupato da una qualche forma di monologo interiore. Se vogliamo memorizzare un numero di telefono, mentalmente ripetiamo le cifre. Quando vogliamo chiarirci le idee su un argomento o semplicemente ricordarci quel che c’è da fare, si attivano le zone cerebrali del linguaggio, anche se il sistema fonatorio è a riposo o impegnato in qualche tipico balbettio. Con le moderne tecnologie è possibile però capire che il discorso interno non è una sorta di modalità silenziosa dell’essere umano e non è neppure la rappresentazione stenografica di ciò che potrebbe essere detto ad alta voce. Il discorso interno ha un andamento ondulatorio, procede per divagazioni e somiglia più a un accumulo di appunti; la letteratura ha tentato di rappresentare la voce interiore sulla pagina scritta con risultati che hanno avuto un effetto dirompente proprio negli anni in cui si diffondevano su larga scala le registrazioni su disco di voci e musica. Il caso più clamoroso è James Joyce su cui anche Connor si sofferma, in particolare ricordando l’ingresso esplicito delle allora nuove tecnologie nell’Ulisse: Leopold Bloom ipotizza l’uso del grammofono per mantenere relazioni costanti tra i vivi e i morti, un grammofono per ogni tomba, “E poi come si fa a ricordarsi di tutti? Gli occhi, l’incedere, la voce. Bene, la voce, sì: il grammofono. Mettere un grammofono in ogni tomba o tenerne uno a casa. La domenica dopo pranzo. Metti su il povero trisnonno. Craaac! Prontoprontopronto sonofelicissimo crc sono strafelice…”. In realtà Bloom confonde e mescola nella sua stramberia le possibilità riproduttive del grammofono con la capacità di registrazione del fonografo, innestando pure il collegamento telefonico con l’aldilà, una costante dello spiritismo di inizio secolo.

 

Le idee si chiariscono nel dopoguerra, quando la diffusione delle tecnologie diventa di massa. A datare e chiarire la popolarità della registrazione contribuisce Samuel Beckett in particolare con L’ultimo nastro di Krapp, scritto nel 1958: protagonista un uomo anziano che ascolta i diari registrati su nastro accumulati durante la sua vita. Perché fosse credibile questo lungo e pignolo accumulo di nastri Beckett ambientò il dramma in “una tarda sera nel futuro”. Da lì in poi la voce separata dal corpo e riprodotta, espressione sorprendente e intima del muto monologo interiore, cominciò un suo personale viaggio nel mondo delle arti, trovando soprattutto nei radiodrammi (in realtà già a partire dal dopoguerra) – verrebbe da aggiungere – il genere più adatto per esprimersi, tramite anche curiosi espedienti narrativi come far ascoltare la voce della coscienza o le voci di sentimenti contrastanti in un conflitto interiore o ancora quelle che tormentano la mente dei matti.

 

È ancora Samuel Beckett in Ceneri (1959), tra i suoi lavori radiofonici più belli, a scegliere come protagonista un vecchio che parla da solo ad alta voce, in continuazione, per coprire il rumore del mare, che detesta. Il suo monologo si trasforma poi in dialogo fitto prima con il padre e poi con la moglie, senza che l’ascoltatore riesca a capire se si tratti di presenze reali o di fantasmi mentali. E la voce, scatola nera dell’individualità, un nastro che ha registrato tutte le gioie e i dolori di una vita, è anche l’assoluta protagonista nella produzione moderna dei podcast. Indossando le cuffie oggi ascoltiamo creazioni sonore che mettono a tema l’intimità della comunicazione, passando, come al microscopio, la voce di chi parla, osservata e gustata nelle sfumature, nelle fragilità e nelle incertezze dal forte valore espressivo. Ecco allora fiorire podcast che recuperano i generi diaristici o epistolari e pure, nella loro traduzione moderna, messaggi in segreteria, vecchie audiocassette, conversazioni notturne registrate in lontane trasmissioni radiofoniche.

 

L’interiorità della voce, in questo tipo di produzioni, è forse l’ultimo pertugio di turbamento per una contemporaneità, che ha reso abituale, tramite l’esplosione della tecnologia, la dissociazione della voce dal corpo. Se Raymond Schafer, padre del paesaggio sonoro, alla fine degli anni Sessanta parlava di un mondo immerso nella “schizofonia”, cioè nella scissione della voce dal suo punto di emissione, con implicazioni patologiche, Connor nella conclusiva postfazione, che è come una pietra sopra (o un mattone iniziale per successive architetture?) sulle sue oltre quattrocento pagine di storia del ventriloquio, parla di “panfonia”: la voce dissociata oggi non sorprende più, la voce non è esiliata dalla propria origine come nella “schizofonia”, ma trova ovunque un modo di sentirsi a casa, «il più grande scandalo ontologico avverato dalla registrazione della voce è la possibilità di dire senza mentire: “sono morto”. Ma questa è una forma di morte vivente alla quale ci siamo serenamente e perfino allegramente abituati»...

 

In qualche modo tutto ha avuto origine proprio in quella serata del 1878, quando per la prima volta Edison, che non sentiva il canto di un uccello dall’età di dodici anni, perché parzialmente sordo, riuscì ad ascoltare la propria voce, infilando la testa nella cornetta acustica. E così, da lì in poi, riuscirono a fare tutti quanti, scoprendo che in questo specchio sonoro l’immagine era quasi uguale a quella attesa, quasi, ma non uguale. È nello spazio di questa non coincidenza – manifestazione moderna anche delle pratiche antiche del ventriloquio, nella separazione della voce dal corpo («La mia voce non è mai soltanto mia, ma c’è sempre un “minimo di ventriloquismo”; non sono tanto io che parlo, piuttosto io sono parlato, la voce parla dentro e attraverso di me» ricorda Mladen Dolar)  – che iniziò un processo di elaborazione vocale che ha avuto, e continua ad avere, un’influenza enorme nelle arti e nella musica e soprattutto nella vita quotidiana di ognuno di noi.

 

La voce come medium di Steven Connor (Luca Sossella Editore 2021) 

A ciascuno la sua voce di Trever Cox (Edizioni Dedalo 2020)

 

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