Graphic novel / “Una zanzara nell’orecchio”, storia felice di un’adozione

4 Luglio 2021

“Scusami, papà, ma questa storia della mia adozione la facciamo o non la facciamo?”. Mi colpisce, nella conversazione/intervista che ho appena avuto con Andrea Ferraris, autore del graphic novel Una zanzara nell’orecchio (Einaudi) che si parli di questo fumetto sempre alla prima persona plurale. A parlare qui in realtà è Sarvari, la figlia di Andrea e Daniela: Una zanzara nell’orecchio è la loro storia, è una storia sulla famiglia – sull’idea di famiglia, sulla costruzione di una famiglia a cavallo tra Genova e Mumbai – ma è anche una storia fatta in famiglia. Andrea ai testi e ai disegni, la moglie Daniela Mastrorilli ai colori. Sarvari ha dato il via libera, di più, ha spinto i genitori a raccontare. “Quando siamo partiti per andare a prendere Sarvari in India – racconta Andrea – io non immaginavo neppure di fare i ‘miei’ fumetti: ero un disegnatore Disney, e all’epoca mi bastava. Dopo abbiamo cominciato a pensare che questa esperienza poteva diventare un racconto, però l’abbiamo sempre tenuta nel cassetto perché Sarvari non era d’accordo. Ci diceva sempre di no. Qualche anno fa invece è stata lei a riprendere il filo”.

 

L’iter per l’adozione è una cosa lunga. Le 128 pagine di Una zanzara nell’orecchio coprono un arco temporale lungo anni: ne passano sei solo dalla decisione di adottare alla partenza per l’India, dove Andrea e Daniela incontreranno Sarvari. Anche gli stati d’animo mutano, dalla spensieratezza alla determinazione, dalla paura alla speranza. Il tono della narrazione e i disegni di Andrea si adattano, ci trascinano dal riso alla commozione, utilizzando tutti i registri sperimentati nella sua carriera da fumettista.

 

 

Nelle prime pagine del libro, incontriamo Andrea ancora ragazzo: è soddisfatto della sua vita, della convivenza con Daniela, del suo lavoro e dei vari aperitivi per i vicoli di Genova. E in effetti il suo è esattamente quell’eterno presente in cui vivono i personaggi dei fumetti, a partire da Topolino e Minnie, che infatti fanno capolino proprio in questa parte del libro: “Non potevo non utilizzarli: quei due sono fidanzati da sempre, e quand’è che si sposano? Quand’è che Topolino comincia a prendere seriamente la sua vita? Ecco, io quel passaggio l’ho fatto”.

 

Iniziano così i lunghi preparativi per l’adozione. Il matrimonio, gli incontri con gli assistenti sociali e con altre coppie, i contatti con le associazioni che si occupano di adozione internazionale. Quella di Sarvari è “una storia felice di adozione”, come recita la quarta di copertina, ma questo non vuol dire che non siano mancate le difficoltà. La zanzara nell’orecchio del titolo si riferisce alla comunicazione quasi impossibile che Andrea, Daniela e Sarvari si troveranno ad affrontare nei primi giorni della loro vita insieme, ancora in India. Ma a livello di “tecnica del fumetto” rimango ammirato dalla prima parte del libro, quella che precede il viaggio in India e l’incontro con Sarvari: anni di preparativi e formalità, un ritmo lentissimo che Andrea riesce a far scorrere utilizzando tavole a tutta pagina e trasformando i disegni in simboli – come il karma che si auto-invita al matrimonio per dare alla coppia un indizio sul Paese d’adozione. “Ho avuto qualche difficoltà ad approcciare questa storia – dice Andrea –, ma quando ho trovato questa chiave scanzonata, un po’ ironica, in cui mi metto in scena… credo che mi sia servita per rompere il ghiaccio, e poi credo che serva anche a chi legge, perché entri in un’atmosfera che non ti aspetti”.

 

 

Andrea Ferraris è uno dei pochissimi autori italiani (l’altro che mi viene in mente è Paolo Bacilieri) che riescono a lavorare sia nel fumetto popolare sia nei cosiddetti graphic novel. Dalle storie dei Paperi Disney, Ferraris è passato con disinvoltura a raccontare la vita di Ottavio Bottecchia, il primo italiano a vincere il Tour de France (Bottecchia, Tunuè 2011, su testi di Giacomo Revelli). I suoi lavori più recenti sono invece due romanzi storici: Churubusco (Coconino Press, 2015) ambientato nel 1847 durante la guerra tra Stati Uniti e Messico, e La lingua del diavolo (Oblomov, 2018), che racconta la storia di due fratelli nella Sicilia del 1831, alle prese con l’emersione dell’Isola Ferdinandea. Nel mezzo c’è stato anche il tempo per La cicatrice (Oblomov 2017, con Renato Chiocca), reportage dal muro che separa Messico e Usa.

 

“Per la prima volta sono entrate dentro un mio libro tante cose che ho dentro – racconta Andrea –: ho un registro ironico, ce l’ho anche perché per oltre vent’anni ho disegnato Paperino, quindi la comicità è dentro di me. Però non era mai entrata veramente in un mio libro, ero sempre rimasto su un registro più serio, o comunque se c’era dell’ironia era sempre filtrata”. Per noi lettori è una fortuna, perché possiamo leggere l’esperienza di diventare genitore attraverso la fantasia di un fumettista: tutto prende vita, e tutto diventa metafora. L’Andrea del libro è di volta in volta un astronauta in procinto di partire per una missione senza ritorno, o un esploratore che varca un ponte tibetano – tutte metafore per la decisione di diventare padre. Anche gli oggetti si trasformano: l’aereo che porta Andrea e Daniela in India ha “un muso simpatico”, e infatti parla, dice ad Andrea che andrà tutto bene, e nel corso del viaggio si trasforma pian piano in un gatto che fa le fusa e poi nel gatto-bus di Totoro di Hayao Miyazaki. “Mi è molto facile fare questo tipo di ‘salti’ – prosegue Andrea –, ho davvero visto l’aereo enorme che mi portava in India come un elemento che mi parlava, la forma che aveva mi tranquillizzava. E nel mio lavoro la forma ha la sua importanza. ‘Non può succedere niente di male’, pareva che mi dicesse”.

 

 

A guidare il lettore c’è anche l’uso del colore da parte di Daniela. “Il libro è diviso in tre momenti anche coloristici – spiega Andrea –: all’inizio un unico colore, poi quando sappiamo che saremmo dovuti andare in India i colori riflettono la nostra idea dell’India, e quindi la bandiera indiana. Ma fino a quel momento sono solo idee, appunto: l’idea di diventare papà, l’idea di avere una famiglia… solo quando atterriamo a Mumbai iniziamo veramente una nuova vita, e allora entrano tutti quanti i colori, e le idee diventano realtà”.

 

 

Un oggetto in particolare finisce per diventare un quarto protagonista nella storia: è il tigrotto-peluche che la coppia porta in dono a Sarvari per il loro primo incontro. La bambina lo ribattezza subito Billi (gatto in indiano) e per lei diventa una sorta di coperta di Linus, l’unico oggetto a cui aggrapparsi in giornate di pianti quasi ininterrotti. Se vogliamo continuare con i riferimenti fumettistici, Billi è un compagno fedele come Hobbes, il tigrotto delle strisce di Calvin & Hobbes di Bill Watterson. “Il tigrotto è davvero stato fondamentale, è stato il ponte che ci ha permesso di restare uniti in quei giorni difficilissimi – ricorda Andrea –, ci sono stati dei momenti in cui abbiamo temuto di non farcela, e quel tigrotto però era sempre tra di noi, era la cosa che ci diceva ‘forse è possibile, come gioca con lui poi potrà giocare con noi’. È stato un transfer potentissimo dal nostro mondo al suo, tra l’India e l’Italia. L’ha preso e non l’ha più abbandonato per undici giorni. Adesso ci sono affezionato io, quando l’ho scritturato per il fumetto l’ho tirato fuori da uno scatolone, ho cominciato a parlarci… per me è praticamente vivo”.

 

 

Nello stesso tempo però nel fumetto entrano anche elementi del mondo reale, come la prima fotografia di Sarvari che Andrea e Daniela ricevono, una minuscola fototessera in bianco e nero. Poi – dicevamo che tutta la famiglia ha collaborato a questo libro! – ci sono anche i disegni fatti da Sarvari dopo l’arrivo in Italia. Andrea li ha inseriti nel fumetto: “Anche loro sono parte di questa storia, lei li usava per colmare dei buchi del suo passato. Con la potenza del disegno riusciva a colmare un vuoto, erano una sorta di diario dello sconosciuto. E quando si è disegnata con la pelle scura per la prima volta, abbiamo capito che un passo era stato fatto: ‘questa sono io’, voleva dire”. 

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