Nato in Iran. Autobiografia tra memoria e speranza
Una nevicata cade lenta dal cielo, la BBC Persian trasmette da una vecchia radiolina, mentre una famiglia dorme sotto pesanti coperte. Poi il cielo rimbomba, la terra trema, e i disegni cominciano ad aggrovigliarsi su se stessi. D’improvviso siamo catapultati in una notte d’inverno del 1992 a Teheran e per quasi 90 pagine restiamo paralizzati davanti alla finestra, come il bambino protagonista di questo fumetto. Contempliamo il cielo: quello che vediamo è solo un forte temporale? Oppure è Saddam Hussein che bombarda come era successo tante altre notti? Le urla della famiglia – “Saddam ha colpito!” – sembrano confermarlo. Ma forse si sbagliano, forse è una scossa di terremoto?
Alla fine del primo capitolo di Nato in Iran abbiamo l’affanno come dopo una corsa, e siamo disorientati: questo fumetto non è quello che ci aspettavamo. Tuttavia ne siamo ormai definitivamente conquistati.
Seduto a un bar nel centro di Bologna, la città in cui vive da quando ha lasciato l’Iran nel 2014, Majid Bita racconta che è proprio questo l’effetto che voleva ottenere con il suo graphic novel d’esordio, Nato in Iran, un racconto-fiume di 370 tavole appena pubblicato da Canicola. “Non volevo fare un libro ‘iraniano’, dove si vedono le donne con il velo, gli uomini barbuti del regime… sì, questa è una realtà, viviamo sotto una dittatura, sotto tutte le restrizioni che conosciamo, ma io volevo prendere per mano il lettore e portarlo in Iran per vivere le sensazioni che noi abbiamo vissuto.”
A un lettore di fumetti, la nevicata che apre il libro non può non ricordarne un’altra, quella di un grande classico dell’historieta argentina, L’Eternauta, scritto da Héctor Oesterheld e disegnato da Francisco Solano López negli anni ‘50. Un’altra epoca, un’altra dittatura, all’altro capo del mondo, ma anche lì artisti costretti all’esilio, o resi muti o fatti scomparire, come nel caso del desaparecido Oesterheld. Majid aveva sentito parlare di L’Eternauta ma non l’aveva mai letto, così gli lascio la mia copia. “Da noi in Iran non arrivavano i fumetti”, mi spiega. “Ufficialmente la censura non esisteva, ma nei fatti molte letture erano ‘illegali’, così le cose più nuove non arrivavano. C’erano alcuni vecchi fumetti, c’erano Tin Tin, Mafalda, Quino, Altan, altri fumetti europei ed est europei trasmessi in tv in versione animata… erano fumetti degli anni ’70 ma io li leggevo negli anni ’90.” Majid ha riscoperto il fumetto quando è arrivato in Italia: dopo aver studiato pittura all’Accademia di Belle arti di Bologna è passato al corso di fumetto, “era troppo forte la voglia di raccontare questa storia”. Nato in Iran ha richiesto cinque anni di lavoro: il risultato tiene insieme la freschezza di un esordio, l’urgenza di raccontare e un approccio molto personale alle tecniche del fumetto.
Majid è nato nel 1985, nel pieno della guerra tra Iran e Iraq. Fa parte di una generazione successiva a quella di Marjane Satrapi, che aveva raccontato il suo Iran in Persepolis all’inizio degli anni 2000. “I ragazzi della mia generazione hanno conosciuto Satrapi solo quando Persepolis è diventato un film d’animazione [nel 2007], è stato dopo che abbiamo saputo che era tratto da un fumetto. Ma è stato scritto 25 anni fa e racconta la storia di un’altra generazione, quindi per me è stato piuttosto uno stimolo per fare qualcosa di più recente. Nato in Iran è la storia della mia generazione, quella nata negli anni ’80. Noi abbiamo vissuto un periodo completamente diverso rispetto a quello di Satrapi, che è nata prima della rivoluzione. Parliamo di una generazione che è nata dentro la guerra, che ha vissuto le conseguenze della guerra.” Majid mi racconta un episodio della sua infanzia che non ha inserito nel fumetto, ma che richiama le stesse atmosfere del capitolo con cui si apre il libro. “È una delle prime immagini di guerra che ho. Perdevo sangue dal naso, mio papà mi teneva sotto il rubinetto, fuori, nel giardino, mi stava lavando. Mi disse: ‘Tieni il naso stretto e guarda in su’; io ho guardato e ho visto tre caccia che passavano, un attacco aereo cominciava proprio in quel momento. Non dimenticherò mai quelle tre ombre nere passare.”
In tutto Nato in Iran Majid prova a far vivere queste sensazioni anche a noi lettori. "Che cosa si prova a essere dentro a una manifestazione, dove può arrivare un elicottero e uccidere un centinaio di persone? Che cosa si prova a vivere in un paese dove leggere un libro può ucciderti? Forse un lettore italiano può ricordare queste cose dai tempi della Seconda guerra mondiale, ma in Iran questa è una realtà viva.” Come in Persepolis in effetti, e come in tanto fumetto autobiografico, anche qui sposiamo il punto di vista di un bambino, poi adolescente e giovane adulto. Ma le similitudini finiscono qui, perché il Majid bambino ha uno strano rapporto con la realtà. Fa sogni a occhi aperti, o meglio incubi a occhi aperti. Attraverso lo sguardo del protagonista e attraverso il segno del fumettista la realtà si deforma, diventa più complessa e ambigua di come sarebbe in un reportage o in un racconto documentaristico. “C’è una frase nella letteratura iraniana: l’istante del lupo e della pecora. Deriva da un detto popolare, perché una volta, quando i pastori uscivano di casa, nell’ombra dell’alba non potevano capire se quello che vedevano era un lupo o una pecora. Per me l’Iran era così, la nebbia, il peso della dittatura, la puzza del petrolio…” Disegnando, Majid ha scavato nei propri personali ricordi, che però sono lontani e non appaiono così nitidi. Il suo tratto è sporco, aggrovigliato, denso. “Nei primi capitoli vedo il petrolio – il petrolio ha una parte importante nella storia dell’Iran –, vedo la sabbia… perché le memorie della mia infanzia non erano così chiare. Lavorando al fumetto scavavo dentro il nero, dentro questi puntini, dentro questa nebbia che ha coperto l’Iran. In un libro di questo tipo non potevo usare le tecniche del fumetto francofono [la linea chiara], ci voleva un segno un po’ più sporco. Non ho né memorie pulite, né una penna pulita.”
Man mano che leggiamo Nato in Iran scopriamo la realtà circostante come la scoprirebbe un bambino. La soluzione più felice di tutto il fumetto credo che sia nell’ambientazione scelta da Majid per gran parte del libro: la casa dei nonni, alla periferia di Teheran, fatta di archi, nicchie nascoste, soffitta, cantine, giardino, stanze in cui è vietato entrare. La storia dell’Iran, di un altro Iran prima della dittatura islamica, viene fuori dalle cantine, dagli scatoloni di libri vietati e nascosti da anni, dall’armadio della nonna, dove sono rimaste appese le foto di cantanti esiliati fin dai tempi dello Scià, prima della rivoluzione. E ovviamente Majid e i suoi fratelli esplorano la casa, e soprattutto i luoghi proibiti. “Volevo trasmettere non le notizie – quelle le sanno tutti –, io volevo andare dentro le case, dentro le famiglie.” Le conversazioni tra gli adulti della famiglia sono l’altra porta d’ingresso nella società iraniana. “Ogni personaggio della mia famiglia, per come è trattato nel libro, rappresenta una parte del mondo iraniano. Ad esempio, nel fumetto parlo di mio nonno, ma lo faccio per raccontare una tipologia di uomini iraniani di una certa età.” È la generazione coetanea dello Scià, che come il nonno di Majid, parla con nostalgia di quel periodo e dice di aver conosciuto di persona il sovrano, magari solo per far innervosire i figli. Lo zio di Majid, militare, è un’altra generazione ancora: quella che ha vissuto la rivoluzione e il suo trasformarsi in una nuova dittatura. All’insediarsi della Repubblica islamica ha bruciato in giardino tutti giornali e i libri compromettenti, ma dopo vent’anni ha ricominciato a comprare i quotidiani dei riformisti. E poi ci sono le donne della famiglia, la mamma, la nonna, lontanissime dall’idea della donna vittima e nascosta sotto il velo che spesso viene propagandata in Occidente.
Così Nato in Iran è anche un racconto che attraversa le generazioni. Leggendolo, cresciamo insieme a Majid e pian piano usciamo dalla casa dei nonni, dalla dimensione protetta della famiglia, per conoscere la scuola, le vie di Teheran e infine le manifestazioni contro il regime. A tenere insieme venti anni di storia iraniana ci sono alcuni inserti fotografici, digitalizzati, ritoccati e integrati nello stile di Majid. Sono le copertine dei vecchi dischi, o la Peykan, che per decenni fu l’auto della classe media iraniana, o ancora gli edifici del centro di Teheran, gli elicotteri, il poster di Roberto Baggio col Pallone d’oro: tutti elementi che ci riportano immediatamente alla realtà e a un periodo storico ben preciso. Fanno da contraltare al disegno di Majid, che così è libero di spaziare tra naif ed espressionismo.
Un inconfondibile telefonino Nokia ci riporta ad esempio alle rivolte del 2009-2010, quelle del Movimento verde, scoppiate in seguito alla contestata elezione a presidente di Mahmud Ahmadinejad. Sono le manifestazioni che hanno visto protagonista la generazione di Majid. “La morte sul ponte”, il penultimo capitolo del fumetto, è ambientato proprio in questo periodo, ma Majid ha inserito un anacronismo: alcuni manifestanti portano una maschera con il volto di Mahsa Amini, la quattordicenne che – uccisa in seguito a un arresto – è diventata il simbolo delle attuali rivolte. “La situazione che viviamo oggi in Iran non è cominciata ieri, le manifestazioni non si fanno per la prima volta”, spiega Majid. “Quella iraniana è una società viva, attiva, che vuole cambiare le cose, ma si sente sempre alla fine paralizzata di fronte a questioni che non si riescono a risolvere. Di fronte a cose come la guerra, la dittatura… ti senti a un certo punto schiacciato, paralizzato, debole da non poter reagire. Io ho questa sensazione ancora oggi, la sento come iraniano.” È di nuovo la storia del pastore di fronte al lupo o alla pecora. “Ed è una cosa storica, che non ho vissuto solo io. Vale anche per la generazione dei miei genitori: hanno fatto tante cose ma alla fine non hanno ottenuto quello che volevano. Prima di loro, lo stesso. Non è vittimismo, ma un sentirsi schiacciato, stanco, depresso da questa situazione che viviamo da cinquant’anni. Anzi, da 120 anni, se partiamo dalla repressione della Rivoluzione costituzionale persiana del 1905.” Una sensazione non molto diversa dalla paralisi che coglie il Majid bambino all’inizio del fumetto. O da quella del Majid ragazzo, immobile di fronte a un elicottero che da un momento all’altro potrebbe mitragliare lui e gli altri manifestanti.
L’amarezza del “mezzo esiliato”, come Majid si definisce nella postfazione al suo fumetto, convive però con la speranza per quello che sta accadendo ora in Iran. “Questa volta è veramente diverso. Vedo che la volontà di cambiamento sta dentro il paese, dentro la società, viene dal basso, non ha un leader, è tutto un popolo che vuole cambiare.” Majid è stato in Iran l’estate scorsa, e ha scoperto che “la società iraniana è già cambiata tantissimo rispetto a dieci anni fa, quando ci vivevo io. I più giovani, i ragazzi di 15 anni, sono in contatto con gli ultimi orientamenti dei movimenti sociali, ambientali, femministi. Sono più ribelli di quanto eravamo noi, nel rapporto con i genitori, nel modo in cui si vestono… le ragazze tolgono il velo, sapendo di poter essere arrestate. Qualche giorno fa hanno chiuso un bar, dove c’era stato un concerto di musica che non piace al governo. Il giorno dopo la gente è andata davanti al bar e ha iniziato a festeggiare. Sentono che qualcuno è stato arrestato e viene portato in prigione? Tutti vanno davanti alla prigione. Si viene a sapere che un intellettuale sta male ed è in ospedale? Tutti vanno in ospedale. Hanno meno paura, sono più decisi.”
Majid ha lasciato l’Iran nel 2014, dopo l’ennesima svolta repressiva seguita a un periodo di speranze e proteste. Come tanti altri artisti iraniani nel corso dei decenni, si è rifugiato in Europa, e ha scelto l’Italia. Come scopriamo nel suo fumetto, l’Italia l’ha in qualche modo sempre accompagnato: tra i libri trovati nella cantina dei nonni c’erano Silone, Calvino, Tabucchi; tra i film che lui e i suoi fratelli guardavano illegalmente c’erano Scugnizzi, La dolce vita – “Majid, come here!”, dice Anita Ekberg in una vignetta del fumetto, mentre fa il bagno nella Fontana di Trevi. “Alcuni membri della mia famiglia avevano vissuto in Italia, così mi arrivavano film, libri, materiali italiani. ‘Vattinni, non tornare più’ – la frase che dice Philippe Noiret in Nuovo cinema paradiso – da piccolo ho visto tante volte quella scena, da grande me l’ha detta molte volte mia mamma.”