Moby Dick, naufragi metropolitani

12 Agosto 2024

Capitolo conclusivo della collaborazione fra la torinese Eris Edizioni e Progetto Stigma, nata nel 2018 per promuovere alcune tra le voci più “devianti” della scena fumettistica nostrana (tra i fondatori di Stigma anche AkaB, autore già di culto per più di una generazione), il Moby Dick di Marco “GK” Gnaccolini e Cosimo Miorelli è una decostruzione radicale, in senso tanto estetico quanto politico, del capolavoro di Melville, rivisitato e ambientato in un universo metropolitano che per puro automatismo verrebbe da dire “distopico”, ma che è soltanto un ritratto a tinte acide di quella civiltà capitalista di cui lo stesso romanziere americano ha vissuto e narrato le origini avventurose. 

Nella sceneggiatura essenziale di Gnaccolini e nei dipinti di Miorelli, animati da una visionarietà di marca steampunk, l’epos del grande romanzo-saggio sulla baleneria torna così a disvelare, a più di un secolo e mezzo dalla sua apparizione, tutto il suo potenziale immaginativo e allegorico: l’oceano come immagine – anche – del mondo intero, diviso tra superficie (la città “legittima”, quella dell’oro e del successo) e abisso (la città “illegittima”, popolata dai relitti di un’umanità sommersa); come distesa di seduzioni e misteri solcata dalla ciurma “piratesca” della mitica nave Pequod, qui nelle forme di un inquietante – e semovente – palazzone squattato.

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E tuttavia, se i gorghi e le correnti avverse navigate dalle scialuppe dei balenieri-rider (che sono poi vecchi pandini Fiat, o scooter sgangherati con tanto di cassone per il delivery) sono qui tradotti in ingorghi stradali e sensi unici imboccati contromano, i capodogli, quelli invece restano capodogli a tutti gli effetti: solo che in Moby Dick City Blues si stagliano in cielo improvvisi come dirigibili, figure sublimi del desiderio di altrove, accidenti imperscrutabili che letteralmente fanno accadere la vita (“Partire” è la parola su cui, in una serie di bivi esistenziali strutturati come in un libro-gioco, si apre il racconto). E la mitica impresa della caccia alla balena bianca, quando davanti agli occhi “si alzano le grandi chiuse del mondo meraviglioso”, diventa, nonostante e proprio per la paradossale ambientazione metropolitana, il simbolo ultimo dell’utopia ribellistica incarnata dall’Ahab di Gnaccolini e Miorelli – contro sfruttamenti e schiavitù, le catene della stanzialità, il lavoro spacciato per promessa di libertà nelle città-lager del capitale –, come tale disperatamente votata al sacrificio.

A farsi carico del racconto è, ancora una volta, la voce di Ismaele, sorta di every man contemporaneo che, rispetto ai mille pericoli e alla precarietà della vita per mare dell’originale melvilliano, sopravvive braccato dalle ristrettezze del precariato lavorativo (e l’alternativa più pratica alla ricerca disperata di un lavoro, un qualsiasi lavoro, per chi rinunci a partire nel libro-gioco della vita, resta pur sempre quella di spararsi). Finché anche questo povero cristo suburbano, uno di “quelli che hanno i venti contrari che prevalgono sui venti che ti spingono avanti”, decide di prendere il largo e gettarsi nell’avventura, lui simile a “uno sfiato continuo come fumo che sfugge da una valvola di sicurezza di un grosso motore”, abbandonando la città di sopra per il sottomondo di Nantucket, da Miorelli schizzato nelle tinte allucinate di tanta iconografia novecentesca, inferno in terra rischiarato dai neon nonché rifugio per i molti, invisibili naufraghi della Storia.

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Il tono della narrazione-riflessione di Ismaele, schiacciata in una seconda persona tanto “inclusiva” (rispetto a chi legge) quanto alienata (“Girati. Guarda che succede”), trova infatti un efficace pendant pittorico nelle tavole di Miorelli: cupe e dense, sempre sul filo dell’onirico, con impasti drammatici di rossi e blu che sanno di acqua salata e sangue ma anche di tramonti alla CO2, di bidoni rugginosi usati come stufe al kerosene, di vapori e sfiati pestilenziali; fino alla preghiera che accompagna l’ambigua ascensione al cielo del finale, dove il bianco schiumoso della pagina inghiotte, ancora una volta, la sete di vendetta e riscatto di Ahab, e il tu solipsistico cede il passo a un noi che, ecumenicamente, sembra chiamare a sé tutti coloro che non hanno più niente da perdere, voce compresa.

Come già sentenzia a un certo punto Ismaele, dopo aver familiarizzato con il selvaggio Queequeg e la sua scorta di fumo: “Che chiunque abiti il cielo abbia pietà di noi, perché abbiamo tutti la testa terribilmente rotta e un disperato bisogno di ripararla ogni tanto”.

Un altro punto di forza di questo adattamento a fumetti di Moby Dick, per concludere, sta anche nel suo contenere (spesso in filigrana, letteralmente sottopelle) una specie di compendio degli strumenti su cui si fonda il nostro sistema di descrizione e mappatura del mondo; nel senso che, riformulando graficamente la forte componente trattatistica del romanzo di Melville, fin dalle prime pagine il testo ingloba in sé frammenti di codici diversi, sferzando l’occhio del lettore a una vera e propria avventura del segno che comprende mappe concettuali, carte topografiche, lacerti di voci enciclopediche e riproduzioni da dizionari etimologici; e ancora schermate web e QR code, recensioni anonime tipo Trip Advisor, ecc… Una tensione sperimentale al fumetto-mondo che è anche, mi pare, una rappresentazione critica della nostra ambizione tutta moderna di assegnare alla realtà confini e termini perentori – a suggerire come il mito, il racconto della balena bianca che accende i cieli delle nostre vite sedentarie, ancora e sempre sfugga a ogni tentativo di definizione, chiedendo solo di essere inseguito, rivissuto, ricantato.

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