Sul metodo / Ginzburg e Prosperi: la pazienza del ricercatore

20 Dicembre 2020

A pensarci, specie per chi incolpevolmente appartenga alla cosiddetta net generation, fa quasi un certo effetto, ma fino a non molti anni fa il mestiere della ricerca erudita si svolgeva ancora e interamente per vie “analogiche”: lontano era lo sfruttamento intensivo di quello sterminato, fluttuante archivio digitale che sarebbe diventato il motore di ricerca Google (compresa, evidentemente, la biblioteca in continua espansione di Google Books), e la minima curiosità, il minimo spunto d’indagine implicavano la consultazione “in presenza” di volumi, cataloghi, schedari ecc.

Da quell’età (proiettata in un passato quasi remoto dalle attuali circostanze pandemiche) giunge il provocante esperimento di Giochi di pazienza (Einaudi 1975), resoconto di un seminario condotto dagli storici Carlo Ginzburg e Adriano Prosperi presso l’Università di Bologna nell’anno accademico 1971-1972, e che l’editore Quodlibet ha recentemente accolto nel piano di riedizione di una parte dell’opera del primo.

 

Il seminario di Ginzburg e Prosperi, avviato nel solco delle ricerche del maestro Delio Cantimori sugli Eretici italiani del Cinquecento (e intimamente suggestionato da una massima di Carlo Dionisotti sul caso, ovvero «la norma che presiede alla ricerca dell’ignoto»), è dedicato al famigerato Trattato utilissimo sul beneficio di Cristo, anonimo libello stampato a Venezia nel 1543 e destinato a un’immediata fortuna presso gli ambienti più diversi, quindi messo all’Indice quattro anni dopo, in pieno concilio di Trento, e fatto oggetto di un’accanita persecuzione inquisitoriale. Un’opera che, apparsa in un momento delicatissimo della storia religiosa europea, dominato da «questioni terribili» quali le discussioni su predestinazione e libero arbitrio, nell’annunciare la salvezza eterna concessa all’umanità tutta da Gesù Cristo attraverso il suo sacrificio, ambiguamente eludeva il rigido discrimine tra Riforma luterana e ortodossia cattolica così come approvata dal Concilio.

«Un testo importante, a lungo introvabile, di incerto autore, d’interpretazione controversa, sembrava fatto apposta per un seminario», commentano in apertura i due storici, ai quali (seguendo una pista d’indagine già tracciata) si scoprono del resto corrispondere ben due autori: un don Benedetto Fontanini da Mantova, benedettino estensore di un «proto-Beneficio» databile attorno al 1540 nonché, più tardi, seguace dell’eretico Giorgio Siculo; e l’umanista Marcantonio Flaminio, responsabile di una serie di innesti probabilmente già presenti nella redazione manoscritta del testo, circolante prima della stampa – da cui le dissonanze dottrinali all’origine della sua controversa ricezione, pazientemente ricondotte alle due diverse mani attraverso l’individuazione su basi stilistiche e contenutistiche dei vari “punti di sutura”.

 

 

Ripercorrere nel dettaglio le tappe dell’indagine condotta da Prosperi e Ginzburg assieme ai propri studenti sarebbe impresa ardua e forse poco grata al lettore di queste righe, considerata la natura altamente specialistica della ricerca in questione; basti qui accennare, in estrema sintesi, all’ipotesi avanzata dai due in risposta alle interpretazioni allora correnti: ovvero, una lettura “radicalista” del Beneficio, sottratto agli influssi della Riforma protestante e ricondotto al contesto della letteratura religiosa in volgare di inizio ’500, in quanto espressione di una tendenza alla corrosione dall’interno dell’antica religione civica e sua risoluzione nel rapporto individuale tra l’uomo e Dio: «Dopo il Beneficio valdesiano, quello luterano, quello calvinista, arrivava ora (dicevamo scherzosamente, ma non troppo) il Beneficio benedettino».

In fondo, ciò che rende Giochi di pazienza una lettura ancora oggi stimolante, sia pure a quasi mezzo secolo di distanza dalla sua prima apparizione, non è tanto lo specifico oggetto di studio – scarsamente appetibile ai profani di teologia e di storia del cristianesimo –, quanto, e a chiare lettere, la scelta di narrare l’intero tragitto dell’indagine, compreso ovviamente tutto ciò che nella pratica storiografica standard viene normalmente taciuto, tra bivi interpretativi, perplessità, audaci giocate d’azzardo, vicoli ciechi, sviste, errori, ritrovamenti fortuiti...

 

In questione – e qui occorre contestualizzare la proposta di Ginzburg e Prosperi, ricondurla ai fermenti intellettuali dei primi anni ’70 e, inevitabilmente, all’officina dello stesso Ginzburg tra I benandanti (1966), Il formaggio e i vermi (1976), Spie (1979) – è il rigetto di un modello di storiografia «lindo e pulito», distaccato e obiettivo, «sistematicamente depurato da tutti quegli elementi irrazionali che pure, sulla base della nostra esperienza, ci parevano avere una funzione decisiva nella ricerca storica». Così, ciò che per comodità avevamo definito il “resoconto di un seminario” tende a diventare un discreto “trattato metodologico” – di una metodologia mai priva di umorismo e gusto narrativo – sul fare ricerca, e in particolare sulla complessa e fatale dialettica, al centro di qualsivoglia lavoro erudito, tra presupposti del ricercatore (di natura ideologica, cognitiva, emotiva) e caso:

 

«Che la ricerca storiografica nasca, magari inconsapevolmente, da sollecitazioni pratiche, e sulla base di determinati presupposti, è cosa ovvia. Ma anche quando si ammette questa origine “sporca”, ci si affretta a confinarla nella fase dell’identificazione del problema, e quindi al di qua della ricerca vera e propria. [...] Nella realtà, le cose vanno diversamente. I presupposti ideologici intervengono non soltanto (e una volta per tutte) nella formulazione del tema, ma anche, via via, nella scelta delle fonti e della bibliografia, nella loro lettura e interpretazione, nell’esposizione dei risultati della ricerca. In tutte queste fasi la possibilità di lapsus e di autocensure dettate da presupposti ideologici (e non) è infinita. Le testimonianze che tendono a invalidare le premesse iniziali vengono involontariamente soppresse, o confinate pudicamente in una parentesi o in una nota a piè di pagina. A ogni passo lo storico si trova a lottare con la tentazione irrazionale di confermare i presupposti da cui è partito, di trovare a ogni costo quello che sta cercando. [...]

Se fossero soltanto i presupposti ad agire, la ricerca tenderebbe sempre a confermarli (eventualmente a prezzo di qualche deformazione delle testimonianze). S’instaurerebbe in questo modo, tra presupposti e fonti, un circolo vizioso. Come romperlo?

Qui interviene il caso. Il presentarsi di una documentazione non prevista e non preordinata tende a scompigliare l’armonia (quasi) prestabilita tra presupposti e fonti. Ma il caso si può moltiplicare: l’afflusso della documentazione inaspettata si può sistematizzare. Lo spoglio, più o meno a tappeto, di cataloghi, repertori, bibliografie, ha appunto questa funzione. A una fase centripeta della ricerca, dominata dal problema, e quindi tendente in ultima analisi a confermare i presupposti, segue (dovrebbe seguire) una fase centrifuga, caratterizzata dalla ricerca dell’ignoto. S’intende che nella realtà queste due fasi, quando esistono, s’intrecciano continuamente».

 

 

Ai non pochi cultori dell’opera di Carlo Ginzburg (vero promotore del seminario bolognese e di Giochi di pazienza, nella testimonianza di Prosperi affidata alla sua Postfazione I), queste righe provenienti dal capitolo 19 del volume non potranno non ricordare il più volte rievocato incontro, tra le carte dell’Archivio di Stato di Venezia, con il benandante Menichino di Latisana – incontro del tutto casuale, appunto, di cui lo stesso Ginzburg non mancherà di sottolineare l’importanza inestimabile nel proprio itinerario di studioso; né si potrà dimenticare, a proposito di presupposti “irrazionali”, il profondo investimento esistenziale (tanto evidente da subire una vera e propria rimozione) che alla fine degli anni ’50 doveva spingere una giovane vittima della persecuzione nazifascista quale lo stesso Ginzburg a interessarsi ai processi di stregoneria dalla prospettiva dei perseguitati. In questo senso, e senza volere affatto sminuire il contributo di Prosperi, Giochi di pazienza ci appare oggi come il prodromo di quell’attenzione ostinatamente rivolta dall’autore dei Benandanti, nei decenni successivi, al peso dei presupposti (compresi quelli oscuramente radicati nelle pieghe della propria esperienza, nei suoi risvolti più traumatici) che guidano lungo l’accidentato terreno della ricerca intellettuale.

 

Infine, e ancora: il caso; o meglio, l’ingresso deliberato del caso nelle strategie di ricerca. Nel lavoro sul Beneficio di Cristo, esso era stato provocato da una serie di incursioni condotte nella biblioteca dell’Archiginnasio bolognese e nella Biblioteca Vaticana sulla base dei rispettivi cataloghi, grazie alle quali era stato possibile delineare il contesto religioso e intellettuale del Beneficio stesso. In un saggio del 2001 intitolato Conversare con Orion (citato nella sua Postfazione II ai nuovi Giochi di pazienza, ed espressamente debitore delle implicazioni di metodo emerse dal lavoro sul Beneficio), Ginzburg è tornato a riflettere sul tema, giungendo a delineare una «poetica della ricerca» «ispirata indirettamente alla poetica novecentesca (soprattutto surrealista) dell’objet trouvé», e che oggi, al cospetto della babelica massa documentaria offerta dalla Rete e delle molte risposte che essa sembra fornire indiscriminatamente alla nostra curiosità, può al contrario servirsi creativamente delle nuove risorse on-line in vista di una moltiplicazione delle domande e delle ipotesi da cui origina la sfida la ricerca.

Il motore di ricerca come motore della ricerca, allora? «Ma lo scopo rimane lo stesso, ossia farsi prendere di sorpresa da dati inaspettati: serendipity», e scongiurare il rischio di trovare solo e soltanto ciò che si cerca.

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