Il Libretto Rozzo dei CCCP e CSI, canzoniere per la nostra età di mezzo

23 Settembre 2022

Sto finendo di sfogliare Il Libretto Rozzo dei CCCP e CSI (1998), ripubblicato questa estate dalla casa di controtendenza Gog per i quarant’anni dalla fondazione del gruppo punk emiliano filosovietico, quando la notizia della morte di Michail Gorbaciov comincia a circolare in Rete. L’ultimo leader sovietico – viene subito fatto notare – che se ne va proprio nell’anno in cui cade il centenario della stessa URSS: nei giorni, di più, in cui il terrore atomico torna a bussare da Est, a ricordarci (dopo la pausa estiva) che ai confini del nostro ipermoderno Occidente è in corso una nuova guerra di portata mondiale scaturita dal conflitto tra due ex Repubbliche dell’Unione.

Coincidenza drammatica, fatalità senz’altro; ma è una fatalità che sembra come spezzare la penosa catena di anniversari con cui sempre ci illudiamo, noi naufraghi del presente con lo sguardo eternamente rivolto al passato, di dare un senso a ciò che è stato e alle sue onnipresenti rovine, di immobilizzarlo a nostro uso. Le circostanze della morte di Gorbaciov, oggi, in questo ulteriore annus horribilis, sembrano confermare che la Storia, nonostante tutto, nonostante centenari celebrazioni ricorrenze (nonostante Gorbaciov, anche), prosegue il proprio ottuso corso, e veramente tira un’aria (così la quarta del Libretto, con una manata di ostalgia) «come se il muro di Berlino non fosse mai caduto».

Un’altra cosa cui penso, scorrendo le notizie dedicate dalla stampa italiana al grande rottamatore, nelle orecchie le urla di Live in Pankow («Voglio rifugiarmi sotto il patto di Varsavia / voglio un piano quinquennale / la stabilità»), è che il fantasma di Gorbaciov – come dire, “il fantasma della fine” – accompagna per intero l’avventura dei CCCP-Fedeli alla Linea (la sigla traslittera latinamente il cirillico SSSR), e anzi la incornicia: fin dall’omonima C.C.C.P. che apre il primo, mitico LP Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi. Del conseguimento della maggiore età (1986), con quella «malattia della pelle localizzata» che sembra farsi simbolo precoce di perplessità e disfacimento: «fedeli alla linea e la linea non c’è». E pochissimi anni dopo, nel 1990, il sol dell’avvenire non avvenuto, sarà l’immagine della «pingue immane frana» di Depressione Caspica a esprimere la geografia interiore, già “post-filosovietica”, dell’epocale Epica Etica Etnica Pathos: la frana di sé, degli ideali e dei sentimenti, la frana degli stessi CCCP, che a breve rinasceranno sotto le insegne del Consorzio Suonatori Indipendenti (CSI), segnando con una manciata di album l’epoca d’oro del rock alternativo italiano, da Ko De mondo (1994) a Tabula rasa elettrificata (1997).

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In un noto articolo del 1984, Pier Vittorio Tondelli commentava così quel sentimento di filosovietismo che, in forme ambigue, andava diffondendosi come un virus in diverse espressioni artistiche di qua della Cortina: «Forse è anche la necessità di avere di fronte un muro per sapere dove sbattere la testa, almeno provarci. Ma forse, più di tutto, è un problema di ricerca di un nuovo immaginario [...]. Solo pochi anni fa, come molti altri, ci siamo immaginati la pianura padana come una prateria, la Via Emilia come un Sunset Boulevard e la costa adriatica come una luminosa, viva, frizzante Nashville. Ora, se la prateria diventa taiga, o tundra, o steppa, cambia effettivamente qualcosa oppure no?».

Sì, effettivamente è cambiato tutto, si può rispondere oggi. Nel miraggio eurasiatico partorito dai CCCP, nati per caso in una discoteca di Berlino dall’incontro fra Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, due compaesani in fuga da sé e dal proprio futuro, la steppa padana si trasfigura in un freddo, scintillante orizzonte mitopoietico: un paesaggio mentale che, dalla periferia emiliana dell’impero atlantista, si estende – passando per il quartiere berlinese di Neukölln – agli sconfinati territori orientali dell’URSS, mito di ortodossia e durevolezza in un’epoca di profonda disgregazione politica e morale.

(Impossibile tracciare una mappa completa dei musicisti italiani che, oggi soprattutto, sono in qualche modo debitori dell’allucinazione eso(vie)tista dei CCCP, tracciando ponti invisibili fra le proprie tradizioni locali e un altrove che può andare dai tribalismi afro alla fusion alla techno hardcore nordeuropea.)

D’altra parte, gli anni in cui i CCCP si affacciano sulla scena del rock nostrano sono anche quelli in cui, grazie in particolare all’apporto di diversi fotografi e scrittori, va maturando una nuova iconografia della provincia italiana (o, almeno, del suo settore nord-orientale): desertica, inghiottita da asfalto cemento ed eternit, rischiarata da bagliori nucleari, sospesa in languori estatici –penso a Luigi Ghirri, chiaramente, al suo incontro (improbabilissimo) con i CCCP a Rio Saliceto, nelle stanze della settecentesca villa Pirondini, immortalata per sempre nelle foto di Epica Etica Etnica Pathos. Ma penso anche a certe pagine da Verso la foce (1989) di Gianni Celati, che sembrano trovare un naturale accompagnamento musicale nei riff di Zamboni, Canali, Maroccolo e Magnelli, come testimonia Sul 45° parallelo (1997) di Davide Ferrario, magico connubio filmico tra le fantasticazioni fluviali di Celati e il viaggio in Mongolia di Ferretti e Zamboni (da cui Tabula rasa elettrificata, consacrazione / implosione dei CSI e di ogni residuo “sogno tecnologico bolscevico”).

Come per le musiche (dal cabaret punk-ethno-industrial dei “primi CCCP” al rock spiritual-dissonante del Consorzio), allo stesso modo i testi di Zamboni e – in massima parte – di Ferretti riproposti ora nel Libretto Rozzo esprimono la continua evoluzione di questo sovietismo etico-estetico: perché se è vero che, come recita sempre il retro del volume, i CCCP / CSI hanno “musicato la storia”, è altrettanto vero, o forse più, che ad essere musicate sono state, in qualche modo, le metamorfosi che la stessa idea di sviluppo storico ha conosciuto nell’ultimo decennio del ’900, incentrate sul crollo dell’URSS e su una conseguente, quanto mai problematica “fine della storia”.

Le origini culturali dei CCCP affondano nel clima movimentista dei tardi anni ’70 bolognesi, dove Ferretti, prima di diventare operatore psichiatrico, vive la sua tormentata formazione tra militanza rossa e studi damsiani: una miscela infiammabile che informerà i cut-up maodada delle sue prime liriche, fatte di slogan e proclami urlati, bagliori lirici, citazioni majakovskijane, schegge di malessere impazzite e ripetute all’infinito (Curami), dove ogni asserzione già contiene in nuce la sua negazione schizoide (Sono come tu mi vuoi, a firma Zamboni), e che troverà una vetta nell’anti-inno generazionale di Emilia paranoica, affresco martellato di una umanità di provincia insonne e annoiata che, in attesa di “un’emozione / sempre più indefinibile”, tira avanti a plegine e roipnol (Valium Tavor Serenase è l’altra ricetta da cocktail farmaceutico in repertorio): “Emilia di notti tranquille / in cui seduzione è dormire / Emilia di notti ricordo / senza che torni la felicità / Emilia di notti d’attesa di non so più / quale amor mio che non muore / e non sei tu e non sei tu”. Sono gli anni della guerra del Libano e in alto, nel vuoto della notte, sfilano minacciosi “bombardieri su Beirut”.

È un epos in musica, quello dei CCCP / CSI, che muove “dalla cronaca al mito” (come titola – al netto di un vistoso refuso tipografico – la prima delle quattro sezioni tematiche in cui sono raggruppati i testi), in altri termini dalla registrazione degli eventi alla fondazione di un immaginario, e che nei PGR (Per Grazia Ricevuta), l’ultima incarnazione del gruppo purtroppo non compendiata nel nuovo Libretto, tornerà ad abbracciare la storia minima del vivere, la cronaca degli affetti e delle stagioni che si rincorrono, in un duro rifiuto piccolopatriottardo della civiltà tecnologica che, in altra veste, continua ancora oggi.

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Del resto, come per la tematica religiosa, una spessa vena di polemica antimoderna e di visionarietà apocalittica è già nei versi del primo Ferretti, lampante in Svegliami (“ha conati di vomito la terra / e si stravolge il cielo con le stelle / e non c’è modo di fuggire / e non c’è modo di fuggire mai / SVEGLIAMI SVEGLIAMI SVEGLIAMI”) in Canzoni preghiere danze del II millennio – sezione Europa (1987); una vena che senz’altro in Ko De Mondo, l’esordio dei CSI, in pezzi come Del Mondo o Occidente (“luogo da cui non giunge suono / luogo perduto ormai”) assumerà accenti millenaristici, in parallelo allo scenario geopolitico sconvolto e alla mutazione dello stesso Ferretti, che da dissacrante urlatore punk riscopre, con il ritorno a ben altra “ortodossia”, quella appunto della fede cattolica, le potenzialità salmodianti del proprio timbro gutturale e incrinato, mentre nei live il suo aspetto ricorda sempre più quello di un febbricitante monaco post-atomico.

Il tempo dell’Occidente sembra davvero essere giunto al capolinea, là dove nell’invettiva di Finistère (che è poi la località bretone dove il disco è stato registrato) finisce anche il mondo: “Annus horribilis / in decade malefica / decade malefica in stolto secolo /secolo osceno e pavido / grondante sangue e vacuo di promesse [...] annus horribilis / conosco le parole dette scritte scandite / tenerezze stupite e tensioni impazzite / tendono al grande bang / e tutto tende al grande BANG”.

E poi c’è Linea Gotica (1996): il disco più cupo, feroce, distorto dei CSI, quello in cui le liriche di Ferretti, sorrette dal confronto testuale con Fenoglio e Pasolini, illuminano la ricchezza di un pensiero cantante che fa della storia e dei suoi traumi (il presente della guerra balcanica in Cupe vampe, la travagliata memoria della Resistenza partigiana nella titletrack) la figura di una necessaria guerra civile interiore, una “questione privata” appunto: “occorre essere attenti occorre essere attenti / e scegliersi la parte dietro la Linea gotica”. E viceversa, un pensiero che proietta le perturbazioni di una coscienza in crisi – con le sue “dissonanze chiassose confuse / armonie affannate e sconnesse” (Blu) – e la sua ricerca di purezza sui più vasti movimenti delle età, che si succedono “meravigliose” (“altro vi fu e sarà e quanto / e in quale forma”, Esco).

Già ai tempi di Canzoni preghiere danze del II millennio, il terzo bistrattato album dei CCCP, agli sgoccioli di un nuovo mille e non più mille, Ferretti percepiva l’avvento di “una nuova fase medievale, nella quale gli uomini, anziché esercitare la violenza su altri uomini, come avvenne nel primo Medioevo, distruggono gli elementi essenziali alla vita del pianeta”: un neo-medioevo da fine millennio, votato all’autodistruzione, “senza invasioni di barbari e senza peste ma con il pericolo atomico e le droghe di massa”.

In questi primi assaggi di III millennio, in cui di nuovo “l’Europa è una, per le radiazioni”, la peste è tornata a mietere vite e così gli eserciti (i barbari, quelli ce li abbiamo sempre avuti in casa), i testi del Libretto Rozzo tornano a noi come un canzoniere per questa nuova, instabile età di mezzo di cui stiamo ancora imparando a prendere le misure (“non si teme il proprio tempo è un problema di spazio”, ancora in Linea Gotica) – aspettando chissà quale rinascimento.

Canzoni non – come vuole lo strillo da discount culturale – “attuali”, quelle di Ferretti e compagnia; semmai, inattuali proprio in quanto contemporanee, nel senso agambeniano di “colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio”. Inattuali perché non per tutti, nonostante le cover a Sanremo; canzoni per chi, in fondo al buio fitto dell’oggi, cerca la scintilla che è liberazione dalla paura del tempo: “lasciando perdere attese e ritorni / ho aperto gli occhi dall’orlo increspato / ho visto l’alba blu” (Blu).

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