Come siamo diventati i nostri capelli
Come potremo recuperare tutti i nostri capelli al momento della resurrezione? Tutti quei pezzetti di noi che abbiamo perduto, tagliato…? La preoccupazione espressa da Sant’Agostino nell’Enchiridion serpeggia fra i Padri della Chiesa rimbalzando fino alla Summa Teologica di S. Tommaso. E la risposta è no: i capelli non ritorneranno, ma “quanto di essi era perduto sarà trasformato in carne e riportato in altre parti del corpo”. Non risorgeranno ma diventeranno il nostro corpo.
In un volume appena uscito per il Saggiatore (All’aria sparsi, 2023), Elena Martelli ci racconta che non occorre attendere l’aldilà per diventare i nostri capelli, questo materiale così strano e polivalente, difficile da classificare. Fatti di materia, scrive, i capelli “trasudano spirito. Fatti di corpo, ne esprimono l’anima.” Generati nelle regioni intime del corpo, ne sono anche la parte esterna più visibile, l’estensione pubblica del sé che a colpo d’occhio parla di chi siamo o vorremmo essere per età, genere, etnia, status, gruppo sociale o religioso.
Anche una volta staccati dal corpo, i capelli restano perciò, per dirla con gli antropologi da J. G. Frazer ad Alfred Gell, le nostre exuviae, emanazioni della nostra personalità che si disperde e si distribuisce nell’ambiente per consolidare legami a distanza – un capello è per sempre, sono immarcescibili – o alimentare i rituali più diversi, dalla ciocca-ricordo o reliquia a quella offerta in sacrificio, dal rito magico o iniziatico fino allo scalpo che sottrae l’anima al nemico per farne un trofeo. Una bella mostra allestita qualche anno fa al museo Quai Branly di Parigi (Cheveux chéris: frivolités et trophées, 2012-2013) metteva in luce quanto la lavorazione di questo materiale bio-culturale sia una costante antropologica declinata in infinite varianti a seconda delle culture, invitando a riflettere su come anche ciò che a prima vista ci sembra ‘orripilante’ (persino l’orrore, sì, è un fatto di peli che si rizzano sul corpo) si inscriva in una fitta rete di scambi sociali, culturali o affettivi che passano per i resti di capelli. È d’altronde solo nel tardo Ottocento che si affievolisce in Occidente l’usanza di creare gioielli intrecciati con i capelli delle persone amate o dei defunti da indossare a contatto con la pelle. Sono piccole immagini ‘fatte’ dal corpo, tracce fisiche di ricordi da tenere in mano che, osserva Martelli, anticipano l’effetto-Polaroid, l’istantanea di un’emozione a cui tornano a guardare i lavori in capelli di numerose artiste contemporanee, da Mona Hatoum a Doris Salcedo o Annette Messager.
Al fondo di queste pratiche tricologiche c’è tutto il rapporto complicato e ambivalente con la nostra natura biologica e con i nostri corpi. Insieme alla peluria, la testa cespugliosa è, infatti, un ‘segnale di specie’, l’ultima traccia evidente della nostra animalità e il filo sottile che ancora lega l’umano al più vasto regno naturale. Ce lo ricordano del resto il termine greco kome, da cui discendono etimologicamente sia la chioma terrestre (umana, animale e vegetale) che la cometa celeste, e un immaginario culturale che da secoli gioca con storie di metamorfosi, di trecce femminili trasformate in costellazioni (Coma Berenices) o teste arcimboldesche, in un serbatoio inesauribile di commistioni biomorfe oggi non a caso rivisitato in chiave di interspecismo. Ma è proprio questa continuità con la natura a far sì che peli e capelli non possano “essere lasciati a se stessi” e debbano essere coltivati. Unico materiale malleabile del corpo, vanno manipolati con cura, plasmati e modellati in base a “norme pilifere”, dettami, leggi, mode o tecniche che servono non solo a tracciare dei limiti rispetto alla natura, ma a perimetrare visibilmente i confini identitari dei corpi, dando loro, inevitabilmente, anche la possibilità di smarginare, di contestare queste frontiere sregolando le chiome. È qui che cominciamo a diventare i nostri capelli.
Riprendendo le suggestive tesi dell’antropologo Christian Bromberger, Martelli illustra per esempio come per le religioni che si affacciano sul Mediterraneo il sacro passi da una “geografia capillare dell’ortodossia”, tanto che la dialettica tra l’irsuto Esaù e il glabro Giacobbe di cui parla la Bibbia (Genesi, 25 e 27) fa del pelo “uno degli argomenti essenziali del processo geopolitico cristiano”. Secondo S. Paolo, che detta la linea, capelli e barbe disciplinati distinguono il buon cristiano dai suoi vicini, l’incolto anacoreta orientale o il ‘villoso’ giudeo che esibisce la sua fede facendosi crescere attorno al viso dei boccoli, i peot che ancora oggi identificano i maschi ebrei ortodossi. I talebani che si riprendono Kabul nel 2021 riportano indietro l’orologio all’integralismo pilifero che storicamente contraddistingue i musulmani da ebrei e cristiani, per cui “la barba deve poter essere tenuta nelle cinque dita della mano, i capelli non troppo lunghi, i peli pubici e delle ascelle rasati”.
L’immagine del corpo politico ovviamente si conforma. Sul capo dei sovrani cristiani spariscono progressivamente i capelli lunghi (parrucche a parte, ne scrive a lungo Martelli) ma non le loro connotazioni di vigore sessuale, potere e forza guerriera, che migrano sull’acconciatura corta del capo maschile e lì ancora in parte sopravvivono. Dal complesso di Sansone che spingeva Berlusconi ai trapianti di capelli al ciuffo da “cattivo di un cartone animato” di Trump o volutamente scompigliato e anarchico di Boris Johnson, l’estetizzazione politica del capo trasuda una mistica del potere che oggi è del tutto auto-riferita, ma da cui continuano a irradiarsi messaggi di virilità, timor sacro o energia rigeneratrice. Manco a dirlo, l’ossessione per il potenziale trasgressivo, massimamente sessualizzato, dei lunghi capelli delle donne accomuna invece le religioni, che quando ancora li soffocano sotto il velo sono pronte a metterti a morte per una ciocca fuori posto. È accaduto a Mahsha Amini in Iran nel settembre del 2022, scatenando nel paese una rivolta politica nel segno dei capelli e da Roma a Toronto la gigantesca cerimonia collettiva di donne che si tagliavano una ciocca in segno di lutto per Mahsha, rinnovando nelle piazze social riti di antica memoria.
All’apparenza effimeri e superficiali, i capelli sono dunque dispositivi simbolici potentissimi e di insospettata profondità, veicolo di importanti fatti politici, culturali e sociali. Mappano mondi, ed è appunto per ‘mappe tricologiche’ che All’aria sparsi attraversa l’affascinante storia culturale dei capelli dagli antichi ai giorni nostri. La metafora spaziale non è casuale. Le infinite permutazioni di senso dei capelli lungo la storia dipendono in definitiva da un repertorio limitato, poche mosse che intervengono a normarne, codificandoli, la lunghezza, il colore, la struttura e la forma. A forme simili possono dunque corrispondere significati differenti e un medesimo significato può esprimersi attraverso forme opposte: i capelloni in rivolta negli anni settanta (tanto criticati da Pasolini) assomigliano a prima vista ai santi asceti rivestiti solo di lunghi capelli per tagliare i ponti col mondo, scelta che la tonsura visualizza invece ripulendo completamente il cranio dei monaci. Rasandoli come chi subisce una punizione, una morte sociale o un’umiliazione pubblica, come le collaborazioniste messe in piazza nel 1944 dai francesi o, notizia di questi giorni, la giornalista russa indipendente Elena Milashina, che i suoi aggressori non solo picchiano e imbrattano, ma sfigurano nella sua femminilità tosandole i capelli.
Quella dei capelli è dunque una storia culturale senza archetipi né evoluzioni, ma fatta di ritorni, risorgenze, slittamenti di senso e antiche sopravvivenze. La tricofobia di S. Paolo ci lascia per esempio la convenzione del maschio con i capelli corti, dura a morire anche in tempi di fluidità di genere, per cui l’emancipazione femminile finisce per coincidere con lo scorcio delle chiome, unisex à la Titus al tempo della Rivoluzione francese, à la garçonne nel Novecento con le prime femministe. Alle afroamericane non basta invece accorciare le denigrate chiome crespe per emanciparsi dal modello bianco dominante del capello liscio, al quale sono indotte a conformarsi prima che l’orgoglio afro inizi a rivendicare con forza il diritto estetico-politico ai capelli crespi. Per quanto Michelle Obama li abbia esibiti solo una volta dismessi i panni della first lady.
La storia culturale dei capelli si racconta perciò solo ricostruendo un territorio variegato e mutevole con occhio attento anche alle minime variazioni, come fa Elena Martelli procedendo per micro-narrazioni che fanno la spola tra il ‘piccolo’ e il ‘grande’ in settantacinque capitoli di varia lunghezza, proprio come i capelli alla cui conformazione il libro si ispira. Il volume parte dagli dèi antichi e arriva alle dive del cinema (Monroe, Bardot, Birkin, Aniston, Meg Ryan …) e ai loro parrucchieri-Pigmalioni; passa dai rigidi dogmi religiosi ai codici arbitrari della moda, “sorta di religione essa stessa dell’innovazione”. Come a dire che, nell’odierno “orizzonte sacro delle apparenze”, per citare Baudrillard, il linguaggio di peli e capelli non si è affatto depotenziato. Anzi, è misura del contemporaneo culto del corpo, esaltato se transessuato, inorganico, liscio e perfetto: “l’ossessione per l’epilazione – scrive Martelli – è la forma del sacro che prende oggi il corpo”.
All’aria sparsi esce proprio mentre a Parigi un’ennesima mostra celebra peli e capelli (Des cheveux et des poils, Musée des Arts Décoratifs, fino al 17 settembre 2023) e nel mondo anglosassone si pubblicano interi volumi collettanei sulla storia dei capelli (Bloomsbury Academic, Cultural History of Hair, 2020, in sei volumi), segno che gli ‘hair studies’ si stanno diffondendo nelle università. Se i capelli sono un termometro dell’aria che tira in una società, la nostra è decisamente all’insegna delle chiome. Il filosofo Michel Serres ha scritto che i capelli sono anche la nostra prima protesi naturale, un prototipo organico della trasformazione tecnologica del corpo tra il biologico e l’artificiale, la natura e la cultura. Nell’era della bioingegneria, dell’intelligenza artificiale e delle ‘smart wigs’, siamo tutti diventati protesi e parrucca.
In copertina, Perruque tressée Marisol Suarez, 2010 (Katrin Backes).