Faustina, Hitchcock e i capelli
In un saggio di qualche tempo fa, la storica dell’arte Griselda Pollock immaginava di rivisitare la tradizione visuale con uno sguardo periferico su dettagli apparentemente insignificanti, piccoli gesti delle mani o intrecci di capelli che ritornano nel tempo per raccontare storie di corpi anch’essi fuori fuoco, ai margini del visibile. Punto di partenza del suo museo ‘virtuale’ erano le famose Grazie scolpite da Canova, ma viste girandoci attorno, di lato e di spalle. Così spiccava l’intricato movimento del loro abbraccio, e osservando da vicino le capigliature saltava all’occhio uno chignon a spirale che Pollock accostava alla più famosa spirale di capelli della storia del cinema: lo chignon di Madeleine nella Donna che visse due volte (1958) di Hitchcock, emblema di un tempo che nel film si avvolge su se stesso come nella capigliatura, confondendo le donne di oggi e quelle di ieri, quelle reali e quelle dipinte, o forse solo immaginate. Come sarebbe una storia culturale delle arti vista dai capelli delle donne?
L’originale mostra Le trecce di Faustina. Acconciature, donne e potere nel Rinascimento, aperta alle Gallerie d’Italia di Vicenza fino al 7 aprile, prova oggi a rispondere, ripercorrendo sguardi e legami tra donne di diverse epoche a partire dai loro capelli: acconciati, ritratti, profilati su monete, scolpiti nella pietra, disegnati da Leonardo o Michelangelo, messi in regola dai trattati o imitati dagli scrittori in tortuose acconciature di parole. La storia dell’arte raccontata dalla settantina di opere in mostra ci è forse familiare, soprattutto quella dei ‘grandi’ del Rinascimento qui esposti: Bellini, Bronzino, Filarete, Leonardo, Michelangelo, Palma il Giovane, Tiziano, Verrocchio… Ma non abbiamo mai guardato queste immagini dal punto di vista delle loro capigliature. Questa mostra ci invita a farlo sin da subito. Già all’ingresso parlano i capelli, come nell’antico poema di Callimaco che dà voce alla Chioma di Berenice, sacrificata agli dèi e trasformata in una costellazione celeste che ancora porta il suo nome. La sua chioma fluente e materica si staglia immediatamente all’altezza del nostro sguardo in un dipinto del Padovanino che ne ricorda il mito (1649 ca) e poi sale in alto, fissata in un disegno di stelle nella mappa del cielo. Ed è sempre lei a ritornare nella curiosa forma ‘a boccolo’ di questa mostra, al termine della quale la Chioma di Berenice (1803) torna a parlare nei versi di Foscolo e prende corpo in alcune teste di Canova, piene di ricci inanellati in cui già s’intravedono gli intrecci delle Grazie. A guidarci lungo il percorso espositivo sono insomma le traiettorie dei capelli: fra alto e basso, spirito e materia, antico e moderno, simulacri e donne in carne e ossa.
I curatori Howard Burns, Vincenzo Farinella e Mauro Mussellin ci offrono una traccia da seguire nel motivo delle trecce di Faustina. L’elaborata acconciatura dell’imperatrice romana Faustina Maggiore (II sec. d.C.) appassiona il Rinascimento: le lunghe trecce annodate attorno alla testa a formare una sorta di prezioso turbante che si innalza sul capo sopravvivono in effigie su monete e busti antichi, perpetuando l’immagine di una femminilità raccolta, come i suoi capelli, attorno al nodo coniugale e alla virtù. La figlia Anna Galeria Faustina, nota come Faustina Minore, adotta una analoga pettinatura che tuttavia, slittando impercettibilmente verso la nuca, scioglie un ricciolo ribelle. Forse la storia, ancora attualissima, dei corpi femminili e dei loro capelli sta tutta in questo gesto antico, un piccolo scarto fra disciplina e libertà che spalanca un mondo. Fra Quattro e Cinquecento, le capigliature delle due Faustine – spesso fuse o confuse – e di altre teste romane si rianimano. Il suggestivo allestimento in chiaroscuro della mostra dà l’impressione quasi cinematografica (una sezione è dedicata non a caso al cinema) di vederle muoversi fra i media, migrare fra pittura, scultura, grafica, arte monetale o miniatura mentre si trasformano: si levano in alto in micro-architetture di trecce, ricadono a cascata sul corpo, si torcono, si annodano, si ornano di posticci, nastri, gioielli, si disfano in onde. E a forza di serpeggiare in forme diverse prendono vita nei capelli di donne reali. Isabella d’Este a Mantova si acconcia all’antica ispirandosi a un busto di Faustina comprato da Mantegna, inventandosi variazioni sul tema (come la ‘capigliara’ con cui la ritrae Pieter Holsteyn II) richiestissime dalle corti europee. La duchessa di Firenze, Eleonora di Toledo, le sue trecce le porta invece avvolte in una retina d’oro. Mentre a Venezia la giovane e colta Cassandra Fedele si autorappresenta come Faustina Maggiore ma talvolta libera i capelli come una “ninfa dei boschi” (Poliziano), adottando uno stile virginale da non confondersi con lo sciolto delle cortigiane, ammiccante e seduttivo, che ci mostra Palma il Giovane. Grazie a una minuziosissima ricerca cui rende giustizia anche il ricco catalogo della mostra (Skira), questo avvincente gioco di rimandi, citazioni, minuscole varianti o sfrontate trasgressioni sul motivo delle trecce di Faustina ci restituisce così l’“occhio del tempo” sull’arte dell’acconciatura. O meglio, sui corpi artefatti del Rinascimento.
Pettinarsi ‘alla Faustina’ non è solo una questione di moda. Anche se, a testimoniare la lunga durata dell’antico, la monumentale calotta di ricci marmorei della “testa Fonseca” (II sec. d.C., in mostra) è riapparsa qualche anno fa nella sontuosa parrucca “Origine” (2010), creata dalla scultrice capillare Marisol Suarez per Hermès. Piuttosto, la mostra ci invita a riflettere sul singolare ruolo dei capelli, irrilevanti per il funzionamento del corpo eppure potentissimi nel simboleggiarne i confini, i passaggi, i ritorni nel tempo. Come già aveva intuito Aby Warburg (Botticelli, 1893) davanti alla Nascita di Venere di Botticelli, l’antico non riemerge nel nudo glabro di Venere ma ai margini del suo corpo, là dove l’ondeggiare dei capelli sciolti rimette in moto l’impulso vitale del paganesimo antico. Per la loro natura ambivalente e polimorfa, i capelli sono in effetti onnipresenti nel mondo classico. Insensibili al taglio, sono materia morta, inorganici e inerti come la pietra a cui vengono spesso paragonati. Per Vitruvio nel De Architectura, i capitelli dei templi greci sono stili di capigliature, i corinzi ‘a corna’ simili a una acconciatura inghirlandata, gli ionici attorcigliati come le ciocche offerte nei sacrifici. E se li stacco dal corpo i capelli diventano oggetti preziosi, offerte votive o pegni d’amore: in mostra, la ciocca bionda donata da Lucrezia Borgia a Pietro Bembo, piegata in onda da fili d’oro, galleggia nel suo reliquiario di vetro come un gioiello, preludio ai monili fatti di veri capelli che spopoleranno secoli dopo nell’Ottocento. Ma la (ri)crescita fa dei capelli una materia viva, mossa da un principio generativo che feconda tutta la natura e collega le teste umane alle chiome degli alberi, degli animali e persino dei corpi celesti, come ricordano la Coma Berenices e il termine ‘cometa’, dal latino coma. Privi di una forma distinta, i capelli sono perciò una fonte inesauribile di forme e simboli. Il filo della vita da tessere in varie fogge per descrivere la trama biomorfa che lega e articola il creato; o da annodare, allacciare e intrecciare a dire un legame. Come Faustina che annoda le sue trecce nel vincolo coniugale e, usando ago e filo, le fissa sul capo ad anello; o le fanciulle quattrocentesche che tornano a promettere fecondità ornando i capelli sciolti con ghirlande di piume e di fiori. Il pittore Ghirlandaio eredita il suo soprannome da lì, da un padre artigiano di capelli.
In quanto unica parte malleabile del corpo umano, i capelli rappresentano però anche la soglia attraente e pericolosa fra il colto e l’incolto, lo strumento con cui il corpo può essere piegato all’ordine culturale o, viceversa, disperdersi nella natura. L’antropologo Lévi-Strauss includeva non a caso i capelli fra gli ornamenti che fungono da mediatori culturali, cioè trasformano l’essere umano “da individuo biologico in personaggio” provvisto di un’identità sociale (Il crudo e il cotto). Sulla testa delle donne, questa soglia fra biologia e cultura resta sempre incerta. Secondo la fisiologia di Aristotele e del medico Galeno, i capelli sono scarti, escrezioni prodotte dal calore e dai vapori interni al corpo. Il corpo femminile, più freddo e dai vapori più vischiosi del maschile, avrà per questo chiome più abbondanti e folte, che la teologia cristiana non esiterà a definire “crini” (come per gli animali), distinguendoli dai ‘capelli’ maschili. Con i padri della Chiesa, la fisiologia prende una piega morale. Per S. Tommaso, i capelli “sono prodotti del cibo superfluo come il sudore, l'orina e gli altri escrementi. […] Sono dati all'uomo come ornamenti” (Summa Theologiae). Materie superflue, escrementizie e maledette, che sconfinano nello sporco, nel peccaminoso: Eva nasce già nell’iconografia cristiana con la chioma lunghissima, la Maddalena è tutta capelli, e ovviamente le streghe dalle chiome ingarbugliate confermano che lì si annida il demonio. Tertulliano (De virginibus velandis) ingiunge quindi alle vergini di coprire la chioma, così da proteggere qualsiasi scandalosa controparte delle zone intime. Il velo s’impone alle donne nel Medioevo, e ancora ne porta traccia il Busto di giovane donna (1455 ca) di Desiderio da Settignano esposto in mostra: vista di fronte, la capigliatura aderisce alla testa lasciando libera la fronte e scendendo a ricoprire le orecchie. Che, come insegnano le parole fecondatrici sussurrate dall’angelo Gabriele alla Vergine Maria, sono un pericoloso orifizio. Vista di lato, la giovane donna è però già tutta scolpita di onde spumose.
Acconciarsi la testa è dunque una faccenda serissima per le donne nel Rinascimento. In un mondo che torna a fare dei capelli un’insegna identificativa di genere e di rango sociopolitico, ne va della costruzione del proprio personaggio tra pubblico e privato. E basta un nulla perché l’ornamento torni escremento, e la discesa dei capelli lungo il corpo sia spia di una diversa caduta. Intrecciare il proprio tempo all’antico serve in parte a questa laboriosa arte sartoriale del sé femminile, e il via vai incoraggiato dalla mostra tra le icone del passato e i trattati che prescrivono codici o illustrano tecniche, strumenti, miscele e gesti per aiutare le ornatrices a lavorare sui capelli – il biondo dorato veneziano è il colore perfetto, basta schiarirsi al sole per ore… – ci dice anche tutta la difficoltà e le reticenze delle donne nel rinnovare la propria immagine, nel rendersi finalmente visibili attraverso i significati intessuti nelle chiome. Nel 1515, Federico Gonzaga invia una lettera alla madre Isabella d’Este da parte del re di Francia, Francesco I: le chiede di inviargli una bambola abbigliata come lei e con la sua “acconciatura di testa, e dei capelli, e di come li porta; mandando però varie fogge di acconciature di testa”. La corte di Francia deve emulare il potere e il prestigio delle sue chiome. Che come oggetti di desiderio si scambiano, circolano come una diversa moneta fra le corti, sono doni che la stessa Isabella elargisce per annodare intese politiche e diplomatiche. Sono, a tutti gli effetti, opere d’arte.
C’è un senso in cui gli artisti rinascimentali imitano le donne nel maneggiare i capelli. Per Leonardo, i capelli tornano a essere i fili di cui è intessuta la natura. Sono le linee del visibile, il gomitolo da cui prendono vita le forme e i corpi. Flessibili, mobili, sottili o spessi, possono addensarsi in stoffa o tracciare i contorni aerei di un paesaggio. Nei suoi disegni fatti di pure linee ornamentali i capelli si avvolgono a spirale, come a mettere in forma il garbuglio dei pensieri. Più spesso, nei suoi quaderni, il loro movimento vorticoso è analogo alle chiome dell’acqua. Perché anche i corpi liquidi hanno i loro capelli (non si dice forse a pelo d’acqua?). Curiosamente, questa visione dell’arte rinascimentale alle prese coi capelli era già emersa fra Otto e Novecento, all’epoca del ‘rinascimento del rinascimento’. In Studi sul Rinascimento (1873), Walter Pater descrive un Leonardo ossessionato dal moto di acque e capelli, che ritorna in “fantastiche acconciature annodate e avvolte sì stranamente”. Mentre Antonin Artaud, nello straordinario Uccello le poil (1926), immagina l’insorgere del Rinascimento attraverso il pittore Paolo Uccello che ancora si affanna a pettinare le linee, a governare l’“arabesco di un mare di capelli”: “Da un pelo all’altro, quanti segreti, quante superfici. Ma due peli uno accanto all’altro, Uccello. La linea ideale dei peli intraducibilmente sottile e ripetuta due volte”.
Sui labirinti di trecce della mostra vicentina aleggia la memoria di Leonardo, con la sua testa di Leda che si affaccia da un ingrandimento alla parete. Ma i protagonisti sono Michelangelo e le acconciature all’antica che riappaiono nei suoi lavori. Nella Leda – qui in tre copie tratte dalla perduta tavola a tempera di Michelangelo – in cui riconosciamo il sofisticato e prezioso raccolto delle acconciature classiche. E soprattutto nei disegni delle cosiddette “teste divine”, dove la sperimentazione sulle linee scompiglia le chiome in movimenti cangianti. Così, parafrasando Alberti in Della Pittura, i capelli dello spettacolare ritratto di Cleopatra (1534 ca) ondeggiano in aria come fiamme, si tessono come serpe crescendo parte in qua parte in là, si torcono come rami ora in su ora in giù, o come funi ora in fuori ora in dentro. Un intero immaginario della chioma come materia organica – le fiamme, i rami, le serpi, il moto dell’onda – si fonde a quello dell’ornamento tessuto, piegato, annodato o torto come una fune, a suggerire una dispersione del corpo verso il superfluo e l’accessorio che qui coincide, tuttavia, con l’emersione del desiderio.
Nel percorso della mostra, vediamo l’erotismo riaffiorare nei capelli, nelle loro trame, vere e proprie trappole per l’occhio, precipitati dell’emozione e dei sensi che irretiscono e sorprendono lo spettatore. Lo catturano come il personaggio di Ameto nella Comedia delle Ninfe Fiorentine (1341-42) di Boccaccio, che Michelangelo e gli artisti del tempo ben conoscevano. In questa mostra è lui, con la sua attenzione alla sensorialità della materia, che scalza Petrarca come poeta della vita delle chiome. Nella Cleopatra di Michelangelo, il moto rotatorio della testa suggerisce che anche il corpo si avvita a spirale in una linea serpentina, “linea della bellezza” la definirà William Hogarth due secoli più tardi (Analysis of Beauty, 1753). Ruotando, il capo e gli occhi si volgono all’indietro. Perché le trecce delle immagini, come ci insegna questa mostra, sono anche quelle che sfidano la linea retta del tempo.