Guardare con il naso

15 Febbraio 2024

Da un po’ di tempo a questa parte si moltiplicano fra gli studiosi le ricerche sulla sensorialità, storie della pelle e del tatto, del gusto, dei processi uditivi e dei suoni che percepiamo con le nostre labirintiche antenne, le orecchie. Nate in parte da un’insofferenza verso l’odierno primato della vista, queste ricerche di antropologia dei sensi, lanciate dalla storica della cultura Constance Classen, mirano in realtà a scombussolare le gerarchie per ricordarci non solo che il mondo si percepisce altrimenti, ma che anche l’esperienza del vedere è complicata, intersensoriale. Non passa solo dall’occhio ma coinvolge gli altri organi dei sensi, riverberandosi nell’intero corpo. Posso allora annusare un quadro? Immaginare un’arte degli odori? È in questa scia che si colloca il prezioso volume di Caro Verbeek Sul naso. Una storia culturale (Il Saggiatore, 2024) dedicato al più bistrattato dei sensi, l’olfatto, e al suo organo percettivo, quella protuberanza che ci taglia in due la faccia segnando spesso anche il confine tra il bello e il brutto, il normale e il diverso. C’è nobiltà in un naso grosso, ‘importante’? Perché l’esperienza del vedere è anche culturale, e per secoli l’idea che l’anima di una persona sporgesse dal suo naso ha prodotto sguardi e percezioni fisiognomiche ben diverse da quelle del nostro tempo, ossessionato dalla rinoplastica. 

La parte più carnosa e prominente del corpo e il senso più rarefatto, ineffabile ma sottilmente penetrante. Sul naso viaggia lungo queste due direttrici e la sua insistenza sulla fisicità è tanto più interessante in un’epoca segnata dalla comunicazione smaterializzata del digitale, al punto che Google ha lanciato nel 2008 un ‘Google nose’ per odorare a distanza, rivelatosi poi un pesce d’aprile: “al contrario delle immagini e dei suoni – scrive Verbeek – gli odori non si possono trasmettere online, l’olfatto è diventato più prezioso. Esso esige vicinanza fisica ed è per definizione un’esperienza unica che non può essere copiata e ripetuta, per esempio sui social media, per cui possiamo apprezzarla solo qui e ora.” Sembra però che dei dieci miliardi di odori diversi che il naso è in grado di recepire – a fronte dei tre tipi di recettori di cui dispone l’occhio – non sappiamo più bene cosa farcene; anzi, ambienti e corpi vanno deodorati. Annusare è diventato roba da bambini, selvaggi o maleducati, scontando il progressivo declassamento dell’olfatto da senso ‘inferiore’ e ‘animalesco’ – quello del Jean-Baptiste Grenouille di Süskind in Il Profumo – a inutile orpello evoluzionistico. Così almeno la pensavano Darwin (peraltro tormentato dalla forma del suo naso) e Freud (reso anosmico, incapace di sentire gli odori, a forza di sniffare cocaina), convinti dell’inutilità sociale dell’odorare ora che la specie, eretta, non selezionava più il partner con il naso ma a distanza, col nobile senso della vista. 

Verbeek accantona in parte questa storia (oggi d’altronde smentita), come pure il suo corollario altrettanto noto, quel naso simbolicamente equiparato alla potenza dell’organo sessuale maschile di cui, come ci ha insegnato Bachtin, si nutre tanta cultura irriverente: Rabelais, la popolare danza carnevalesca dei nasi allungati di Hans Sachs, il marameo di sberleffo con la mano sul naso, fino ai surreali trompe-nez di Dalì o Magritte passando per le rime nonsense di Edward Lear e del suo innamorato con il naso luminoso (The Dong With a Luminous Nose’, 1877). C’è poco di ‘grottesco’ in questo libro e molto invece su Leonardo profumiere, sulle sostanze aromatiche che solleticavano il naso della Compagnia olandese delle Indie Orientali o, a ritroso, sulle antiche pratiche olfattive. Il soffio vitale passa dopotutto dal naso, da lì respiriamo. Dal naso passava dunque un tempo anche lo scambio con gli dèi, invisibili e immateriali come gli aromi che si sprigionavano dalle sostanze bruciate in loro onore: “mute preghiere per-fumum” le chiamavano i Romani, per i quali il nostro ‘profumo’ – che da lì prende il nome – non serviva ad avere un buon odore ma semmai a guadagnarsi un ‘odore di santità’. Anche le statue possedevano perciò “una sorta di forza vitale divina grazie al loro naso”, tanto che i ladri di tombe dovevano ucciderle con la denastatio, il taglio del naso, per agire indisturbati. Da storica dell’arte e dell’olfatto, Verbeek rimette insomma il naso nella storia per chiedersi quali fossero gli smellscapes del passato, i paesaggi culturali tracciati fiutando il mondo. E soprattutto si chiede: è possibile ricostruire gli “odori perduti”? 

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Sul finire degli anni 1990 la Oxford University Press lanciava sul mercato la serie Smelly Old History (‘vecchia storia puzzolente’). Questi fortunatissimi libri illustrati realizzati da Mary J. Dobson, dedicati non a caso ai bambini, contenevano al loro interno dei cartoncini gratta-e–annusa da cui si sprigionava l’odore di una data epoca, per esempio gli aromi dei Romani (Roman Aromas, 1997) o i miasmi dei Vittoriani (Victorian Vapours, 1997). Nel 2017, a mettere il naso in cartine impregnate di odore sono stati gli adulti visitatori del Rijksmuseum di Amsterdam davanti al quadro di Jan Willem Pieneman La battaglia di Waterloo (1824). L’odore della battaglia – battezzato “Eau de Waterloo’ – è stato ricreato chimicamente da un’azienda produttrice di profumi a partire dalle ricerche della stessa Caro Verbeek nei diari dei combattenti a Waterloo. Sentiva di cavallo, di sangue, polvere da sparo, terra umida, muffa e gocce di Aqua Mirabilis, l’acqua di Colonia amata da Napoleone. E dopo averlo annusato, “una visitatrice ha detto di aver visto improvvisamente muoversi i cavalli del quadro di Pieneman. Altri hanno riferito di aver avuto l’impressione di non trovarsi davanti a un quadro, ma dentro la rappresentazione stessa”; ai non vedenti, l’odore ha “aperto un mondo”. Per odorare il passato occorre insomma “guardare con il naso”. E di “sguardi olfattivi” questo libro appassionante ne racconta parecchi. C’è chi riattraversa le immagini della storia dell’arte col fiuto o seguendo i nasi. Ci sono gli annusatori di libri che affondano letteralmente il naso nella carta per suscitare memorie olfattive. E le biblioteche degli odori raccontano le peripezie dei libri antichi dal loro sentore, magari di fumo o di polvere da sparo. Di certo Verbeek sa che anche fra i letterati è esplosa l’odoromania, e i testi si leggono ormai anche per vedere quali effluvi sono rimasti intrappolati fra le parole, sempre in cerca di metafore quando si tratta di descrivere l’odore, ineffabile per eccellenza. Il critico inglese John Sutherland ha iniziato nel 2012 quando, avendo perso l’olfatto, si è messo a seguire gli indizi olfattivi nell’opera omnia di George Orwell, scrivendo col naso una biografia ‘patologica’ dell’autore (Orwell’s Nose: a pathological biography 2016). Oggi queste ricerche degli odori perduti hanno assunto i contorni di un serissimo programma di ricerca. Si chiama Odeuropa, un progetto finanziato con oltre due milioni di euro dall’Unione Europea nel 2020 per documentare attraverso testi e immagini – e possibilmente ricreare – il patrimonio olfattivo dell’intera Europa. 

Se progetti culturali di questo tipo ci sembrano un misto fra Proust e i surrealisti è perché lo sono. Certo, oggi con il virtuale abbiamo le tecnologie immersive per fingere di essere teletrasportati altrove ‘in presenza’. Ma le parole chiave sono esperienza, embodiment. Uno scambio diretto fra il nostro corpo e il corpo del mondo. E solo l’olfatto sembra poterlo garantire. Fisiologicamente, è l’unico senso ad avere accesso diretto al cervello e ai centri della memoria e dell’emozione. E viceversa, “il nostro cervello, attraverso il naso ha accesso diretto al mondo esterno”. L’odore non è insomma un oggetto vero e proprio ma è una di quelle materie sfuggenti (come il fumo, il calore) che Duchamp chiamava ‘infrasottili’, perché stanno nel mezzo fra i corpi e le cose operando fra loro dei passaggi: fra il dentro e il fuori, l’ora e l’allora. Adorno e Horkheimer riassumono questo processo in una battuta fulminante: “Nel vedere si resta chi si è. Nell’odore ci si perde”. Allora forse l’odore disturba e affascina perché non si lascia circoscrivere, catturare, registrare, oggettivare. Duchamp lo metteva ironicamente in bottiglia (Belle Haleine. Eau de Voilette, 1921) e Verbeek racconta che è con le fragranze di cedro o caffè sprigionate durante le mostre surrealiste (oppure di fumo in quelle futuriste) che ha preso corpo l’arte rivolta al naso, oggi in grande espansione fra musei, mostre e proiezioni cinematografiche accompagnate da effluvi odorosi. In chi ha letto il romanzo distopico di Aldous Huxley Brave New World (1931) affiora a questo punto una leggera inquietudine. In quel futuro da incubo, i film odorosi “con accompagnamento sincronizzato d’organo a profumi”, chiamati feelies, suggerivano che l’opera d’arte totale conduce alla mercificazione della sensorialità, alla presa definitiva dei media sul nostro corpo. Forse il rischio è inevitabile, ma il volume di Verbeek ci mostra il rovescio della medaglia, quanto il corpo possa essere liberato dal “rinascimento dell’olfatto”, anche solo rimettendoci a guardare i nasi. 

Sul naso lo fa, di nuovo, in maniera sorprendente. I nasi celebri ci sono tutti: quello maciullato di Michelangelo, quello di metallo di Tycho Brahe, il profilo di Cleopatra e di Barbara Streisand, il naso aquilino di Dante, quello che passeggia in Gogol, cresce in Pinocchio, pende da un lato in Pirandello, si allunga a dismisura nel Naso di Giacometti o si arriccia all’insù nella bambola Barbie. La fisiognomica da Aristotele a Lombroso fornisce un filo rosso. Ma il fatto è che in questo libro i nasi si muovono, migrano da un volto all’altro con accostamenti inediti, e con loro vediamo mutare anche le idee di bellezza e di conformità. Vediamo i nasi plasmati culturalmente da profili di genere e di etnia. Per esempio come prende forma il cliché della donna col piccolo “naso celestiale” da principessa, oggi ricercatissimo, ma che in realtà significa ‘leggero’, come si pensa debba essere il suo cervello. O il famigerato “naso ebraico”, “grosso, aquilino e con la punta rivolta verso il basso”, al quale si accompagna non a caso la stigmatizzazione dell’odore. “I nasi grossi o lunghi e i ponti nasali non dritti sono caduti in disgrazia intorno al Novecento”. È solo allora che la linea dritta ha iniziato a sostituire “ciò che era curvo, adunco o storto” e la chirurgia da plastica si è fatta estetica. Per apparire belli come da stereotipo. Oppure, vale per gli ebrei nell’America degli anni ‘50, per assimilarsi. C’è chi dice che la storia vada accarezzata contropelo, con il tatto. Qui serve del fiuto per ritrovare la varietà e diversità dei nasi che abbiamo perduto. 

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