Emmanuel Carrère vs Werner Herzog

17 Aprile 2013

Chissà se Emmanuel Carrère conosce Grizzly Man. Probabilmente sì, visto che all’inizio degli anni ’80, quando ancora non era scrittore ma critico cinematografico e a sentir lui non sapeva bene cosa fare della propria vita, a Herzog dedicò una monografia, e di quella monografia parla nel suo ultimo e a questo punto, almeno qui da noi, dopo l’intervista di Fazio e l’incoronazione del «Corriere della sera» quale miglior libro del 2012, più famoso libro, cioè Limonov, edito da Adelphi e tradotto da Francesco Bergamasco.

 

Carrère, si diceva, scrive di Herzog, e a dire il vero non ne dice grandi cose, perché racconta di uno spiacevole episodio ai tempi della presentazione a Cannes di Fitzcarraldo, quando il regista tedesco lo ricevette in albergo per un’intervista e lo trattò con maleducazione e fredda professionalità, definendo il suo libro una stronzata nonostante non l’avesse nemmeno letto. La grandezza di Limonov, però, visto che Carrère tratta il suo protagonista allo stesso modo di Herzog, cioè con sguardo severo e oggettivo, in virtù dell’ammirata fascinazione che prova per entrambi, sta nell’assoluta onestà intellettuale della scrittura, nella mancanza di rivendicazione soggettiva da parte dell’autore. Per cui Carrère non se la prende mai, non scrive per rivendicare ragioni o lamentare torti. Carrère scrive, racconta, commenta, giudica, proietta sì su di sé ogni evento di cui parla, cerca anche inutili spiegazioni a comportamenti inspiegabili, ma non lo fa mai da un punto di vista particolare, soggettivo, non mette mai se stesso davanti agli altri. Se definisce, come definisce, Herzog un «fascista», o meglio, se vede nell’egoismo superomista di Herzog il nocciolo del fascismo, ammettendo di non capire quali ragioni avesse per trattare in modo sgarbato un ragazzo magari valleitario ma pur sempre appassionato, Carrère usa la vita di un suo simile – di un suo simile che ammira e non capisce – come uno strumento per scandagliare se stesso. E soprattutto, in seconda battuta, usa se stesso come modello per cogliere la finetezza dell’individuo di fronte all’inesplicabile complessità del reale.

 

 

Il suo documentarismo d’inchiesta non cerca la realtà nel suo farsi, non va alla caccia di una verità pronta a dischiudersi come potrebbe succedere con il cinema; prende invece la Storia passata, già successa, commentata e fatta a pezzi, e la usa per trarne un senso universale. A livello superficiale la vita di Eduard Limonov, il piccolo criminale, il poeta, il dissidente, il barbone, il guerriero, il politico, il nazi-bolscevico, il puro e semplice figlio di puttana, interessa per l’assurdo avventurismo, per tutti gli elementi novecenteschi e detestabili che contiene, per ciò che allo stesso tempo ha di ridicolo e di patetico. Ciò che però interessa in particolare a Carrère – ed è qui il legame con Herzog e Grizzly Man – non è solamente la natura romanzesca del personaggio, ma il grado d’investimento individuale che la biografia di Limonov chiama in causa, la finitezza dell’individuo comune – cioè Carrère stesso, e con lui ogni lettore più o meno normale del suo libro – posta di fronte a una vita unica e irripetibile. Come Herzog di fronte a Timothy Treadwell, l’uomo che era convinto di poter vivere con gli orsi dell’Alaska ed è finito sbranato, Carrère ha nei confronti del suo personaggio un rapporto di distanza e ammirazione, di invidia e insieme di disprezzo, e lo dice apertamente, non si nasconde, si butta dentro il suo lavoro con il peso ingombrante delle annotazioni sulla sua vita, e fa capire più di ogni altra cosa, dietro le agili e appassionanti rievocazioni storiche e biografiche, di scrivere soprattutto per se stesso, di scrivere e raccontare, così come per Herzog deve essere stato filmare o commentare immagini create da altri, per capire cosa unisce un essere umano moderato, intelligente e onesto come lo stesso Carrère, o come l’Herzog ormai invecchiato alle prese con la follia di Tradwell, davanti all’esempio di una persona evidentemente fuori dal comune, un superuomo, come Carrère a un certo punto definisce sia Limonov sia Herzog, che di eroico e romantico non ha nulla, che anzi scivola spesso nel povero stronzo invidioso e convinto della propria superiorità, ma che sembra essere venuto al mondo per ricordare agli altri il peso delle loro scelte, i limiti delle regole sociali e dei contesti storici che condizionano ogni vita comune.

 

 

Carrère scrive a un certo punto che se oggi Herzog si ricordasse del comportamento poco educato avuto nei suoi confronti, probabilmente si scuserebbe: e in effetti, a giudicare dal tono delle parole che usa alla fine di Grizzly Man, riflettendo sul valore della vita ridicola di Treadwell («E mentre guardiamo gli animali nella loro scelta di vivere, nella loro grazia e ferocia, un’idea si fa sempre più strada: queste immagini non sono tanto uno sguardo sulla natura quanto piuttosto su noi stessi, sulla nostra natura. Ed è questo che secondo me, al di là della sua missione, dà significato alla sua vita e alla sua morte»), viene da pensare, che sì, oggi Herzog si scuserebbe, perché nel dubbio spaventato con cui ammette di giudicare il suo personaggio si coglie la stessa onestà intellettuale che rende autentiche le pagine di Limonov. Quella stessa onestà intellettuale che permette a Carrère di definire il suo eroe un figlio di puttana, o Herzog un fascista, senza temere smentite o controgiudizi (dei diretti interessati e di chiunque altro) forte com’è di un pensiero oggettivo che non fa mai riferimento alla finitezza di ogni vita, alla quotidianità meschina delle delusioni e dei rimpianti, ma alla «realtà della realtà» che egli stesso, probabilmente da credente, riconduce al cristianesimo e a una massima del buddismo («L’uomo che si ritiene superiore, inferiore o anche uguale a un altro non capisce la realtà»), ma che non si fa alcuna fatica ad attribuire anche all’arte e ai suoi universi assoluti.

 

Carrère fa della frase buddista citata, del vicolo cieco che quelle parole pongono di fronte a ogni tentativo di espugnare il reale dandogli un valore, l’obiettivo della sua stessa arte e della stessa sua vita. Le parole chiare e insieme impotenti del detto si intravedono dietro le celebri cronache di «vite che non sono la sua» che l’hanno reso famoso, dietro l’inattaccabile limpidezza dei suoi giudizi su Eduard Limonov, e pure dietro la cazziata ad Herzog, sicuro com’è, forse proprio perché ha visto anche Grizzly Man, che pure nel cinema del regista tedesco l’idea di una realtà che non va misurata, bensì abbracciata e inalata, informa ogni immagine e commento: come apertura al mistero, «come vertice della saggezza», scrive ancora in Limonov.

 

E in questo, a nostro parere, si intravede uno dei segreti per cui ha pur sempre senso scrivere, filmare e raccontare il reale. Non per capirlo, ma per sentirlo meno alieno e meno distante.

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