Giovani si diventa

10 Luglio 2015

Giovani si diventa è un film sul tempo. Sul tempo come simultaneità e sul tempo come successione di esperienze. Un film sull’orizzontalità e sulla verticalità, e sulla distanza fra queste divergenti impostazioni della vita. Ovviamente, è anche un film sulla giovinezza, sull’età adulta e sulla diversa percezione del tempo vissuta da ogni generazione. Giovani si diventa, forse, è soprattutto un film sulla percezione del tempo: su cosa resta di un mondo che si credeva solido, forte, anche giusto, in qualche modo concluso, quando ci si accorge che in realtà quell’idea di mondo è stata soppiantata da un’altra – e per di più in silenzio, senza che nessuno se ne accorgesse, grazie al semplice, inesorabile passare delle stagioni. Giovani si diventa è, prima di tutto, un film di sguardi: di come due quarantenni intellettuali, benestanti, senza figli, mediamente soddisfatti delle loro vite – lui, Josh, regista e insegnante di cinema, lei, Cornelia, produttrice cinematografica e figlia di un celebre regista militante degli anni ’60 – si accorgano di essere invecchiati semplicemente guardando il mondo e il loro tempo: all’inizio di fronte agli occhi interrogativi di una neonata; più avanti di fronte a una coppia di sposi venticinquenni conosciuti una sera: Jamie e Darby, aspirante regista lui, gelataia domestica lei.

 


Di mestiere Josh e Cornelia realizzano documentari, di conseguenza sono abituati a guardare il reale e a scovare al suo interno un ordine, una struttura e una verticalità: ma lo scacco che dà avvio al film e mette in crisi il loro sistema di valori sta proprio lì, nel fallimento dello sguardo. Di fronte alla lingua incomprensibile di una bambina appena arrivata, come di fronte alla inedite visioni sul mondo delle nuove generazioni newyorchesi (già, perché il film è ovviamente girato a Brooklyn, in una comunità di intellettuali e hypster che è semplicemente la versione anni Duemila dell’Upper West Side di professori e autori televisivi di Hannah e le sue sorelle), entrambi, Josh e Cornelia, rimangono senza argomenti: sono affascinati, sedotti, forse ingannati.

 

C’è un momento, in Giovani si diventa, significativo della riflessione sulla cultura di massa e sul gigantesco processo di appropriazione di modelli, luoghi e reminiscenze di cui tutti siamo testimoni. Poco dopo essere entrati in relazione con Jamie e Darby, Josh e Cornelia sono invitati a una festa: è estate, fa caldo e un gruppo di giovani ha occupato una strada per fare i propri comodi, per mangiare, bere, ascoltare musica e ballare come se quello spazio non fosse pubblico. Sembra un’immagine della Downtown anni ’80, un rimasuglio di cultura underground tra il Lower East Side di Lou Reed e la Brooklyn nera di Spike Lee, fra idranti e mattoni a vista: la città è la stessa, l’atteggiamento pure, ma i modelli passati sono semplicemente riutilizzati, riprodotti in quanto immagini, patrimonio comune messo a disposizione di tutti e liberamente scaricabile. Jamie e Darby stanno dentro la cornice, la vivono, la attraversano con noncuranza; mentre Josh e Cornelia hanno bisogno di essere scortati al suo interno, osservano un’immagine, ne sono inevitabilmente esclusi, spiazzati dalla leggerezza con cui la storia si trasforma in abitudine, la spazzatura in arte, con cui un iPhone coesiste con un LP in vinile, i Goonies con i fratelli Maysles, il modello di vita matrimoniale con l’amore per il gelato alla papaya.

 

 

Nello sguardo di Josh e Cornelia, quarantenni verso i 50 come lo stesso Baumbach, c’è come un senso di attesa, di distanza, di rispetto per il reale e le sue gerarchie; non a caso, Josh lavora da anni a un documentario sul sistema di produzione e sfruttamento dell’economia americana: un’opera monumentale rifinita e ampliata un’infinità di volte e destinata a rimanere incompiuta. Al contrario, per l’aspirante filmmaker Jamie non c’è attesa, oggettività o giusta distanza che tengano di fronte al primato dell’esperienza e della soggettività, non c’è storia che non possa essere condivisa (o forse rubata, come sostiene Josh) e trasformata in qualcosa di diverso, di personale.

 

Baumbach è inevitabilmente didascalico, forse anche scolastico nell’opporre due modi di raccontare il reale: ma il suo discorso è così limpido e per una volta necessario da diventare esemplare. Quando Josh aiuta il giovane amico a girare il suo film, è l’immagine stessa a sfuggire di mano al maturo regista: Josh vorrebbe tenere ferma la macchina da presa, vorrebbe l’oggettività della rappresentazione, un campo e controcampo senza fronzoli, ma Jamie con un telecomando guida l’obiettivo verso di sé, invoca il proprio punto di vista, sfrutta le esperienze di vita altrui per costruire un modello di realtà che è una sorta di upgrade, di aggiornamento, una sua versione più sintetica e vera.

 

 

Lo scontro fra l’approccio rigoroso di Josh e quello inventivo di Jamie non serve però a Baumbach per riflettere sull’oggettività del documentario o sulla fine del cinema militante e di sinistra (cinema, tra l’altro, che perdura e a continua imperterrito a lottare insieme a noi). A Baumbach interessa la risultante del confronto fra Josh e Jamie, il nervo sempre scoperto dell’onestà o del grado di compromissione di ogni forma di racconto o informazione nell’industria dello spettacolo. Giovani si diventa sta allora a fianco dei discorsi – liberal quanto si vuole, ma necessari – di The Newsroom sulla credibilità delle fonti e sulla serietà dei notiziari; nasce idealmente dal dibattito attorno al destino di un giornalista come Johan Lehrer, reo di aver costruito la sua fama sull’invenzione delle citazioni e vittima di una furia moralista vendicativa. Baumbach mette sì uno di fronte all’altro il vecchio e il nuovo, l’oggettivo e il soggettivo, laddove invece il mondo della comunicazione ha dimostrato di poter accettare entrambe le forme di racconto: ma a interessare è soprattutto il discorso generazionale, la crisi di un modello vecchio di decenni e l’emergere di una forma inconsapevole di rappresentazione. Nel fallimento artistico di Josh, infatti, Baumbach vede il rimasuglio di una cultura americana superata dal tempo e dai cambiamenti di una cultura, la cultura massimalista che a fine anni ’90 portò, per dire, alle grandiosi costruzioni temporali del Roth di Pastorale americana e del De Lillo di Underworld, che cercava nella Storia la traccia di una struttura, di un divenire, l’origine del male. Il film incompiuto di Josh, ancora, ricorda il gigantesco romanzo-mondo che il protagonista di Wonder Boys di Chabon non riesce a portare a termine e finisce per disperdere significativamente in una pioggia di fogli non rilegati.

 

In quel caso come in questo, nonostante da allora siano passati quasi due decenni, l’incompiutezza è il segno di una sconfitta mai del tutto digerita: la sconfitta di ogni tentativo di ricondurre la totalità del mondo a uno schema, a una struttura verticale, laddove oggi prevale un approccio più libero e spensierato. L’approccio di chi il mondo non lo osserva e non lo vuole nemmeno capire, ma se ne serve in quanto frammento per raccontare la storia semplice e immediata dell’io che tutto invoca e tutto fagocita.

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