Martin Scorsese, “Silence” / Nient'altro che un'immagine

20 Gennaio 2017

Ogni discorso su Dio, al cinema, non ha senso se non riguarda prima di tutto il cinema stesso e la sua pretesa di replicare il reale, di interrogarne la vastità.


Silence è l’unico film che Scorsese poteva e doveva fare dopo Al di là della vita, l’ultimo suo lavoro veramente personale, l’ultima prova inconfutabile della tenuta del suo cinema (un cinema espressionista, estremo nei sentimenti e nella violenza, carico di religiosità, blasfemia, allucinazione, rigore, passione), prima che il ’900 finisse, prima che il digitale stravolgesse tutto, prima che Scorsese stesso  fosse canonizzato in  “maestro” ed entrasse nella fase meno fervida, meno spontanea, più compromessa e non sempre lucida della sua filmografia.

 

Martin Scorsese (al centro) sul set del film. 

 

Silence è il film inseguito per trent’anni, figlio di riscritture, ripensamenti, difficoltà produttive, tentennamenti e, una volta girato, di ritardi nella distribuzione e cambi nella durata: per una volta, però, l’opera di una vita intera, il progetto inseguito, vezzeggiato, trovato e poi ritardato (una vera sottocategoria della storia del cinema, che conta grandi registi e grandi progetti molto spesso mai realizzati) non ha dato vita a un film “malato” o meravigliosamente sbagliato, ma a un film di pura precisione, di ragionato, inevitabile controllo. Non un esempio di ascetismo dell’immagine da opporre alla violenza ossessiva dell’Ultima tentazione di Cristo (quella crocefissione in apertura, con i chiodi che spaccavano le mani del Messia…), quanto, piuttosto, il risultato di un lungo lavoro di analisi e separazione della propria estetica; il precipitato che mostra l’essenza del cinema di Scorsese, ciò che ne resta dopo anni di riflessioni più o meno esplicite sulla fede, la predestinazione, il legame fra umano e divino, l’appartenenza a un mondo e il dubbio sulla propria sopravvivenza al suo interno.

A quanto pare, Silence è un film girato il più possibile in continuità, cioè facendo coincidere l’ordine delle riprese con l’ordine delle sequenze: questo potrebbe spiegarne la compattezza visiva e soprattutto emotiva, una voce uniforme che comprende senza soffocarli o annientarli anche i picchi drammatici del racconto. Almeno nella prima parte, è anche un film che nasce dalla parola scritta, in cui le immagini sono generate dalle lettere di padre Ferreira, il gesuita che forse ha abiurato la fede durante le persecuzioni ai cristiani nel Giappone del XVII secolo, e di Padre Rodrigues, che insieme al confratello padre Garupe viene inviato a scoprire la verità sul missionario scomparso. La voce over, che ancora in Wolf of Wall Street era l’origine del racconto, il primo passo di un assalto visivo e narrativo alla realtà e alla Storia, qui aiuta le immagini ad ancorarsi alla materia di cui è fatto il film, a cogliere il senso imperscrutabile e misterioso di una storia di fede e violazione, rinuncia e paura.

Il tono piano e sconsolato delle voci degli interpreti fa pensare alle invocazioni tipiche del cinema di Malick: ma in Silence la parola non è preghiera; è testimonianza, a volte semplice resoconto. Padre Rodrigues e padre Garupe, che approdano clandestinamente in Giappone nel 1637 e sbarcano in alcuni villaggi cristiani dell’arcipelago di Goto, sono sì accolti come guide e salvatori, ma in realtà sono i semplici testimoni di una fede che essi stessi faticano a comprendere. La morte, soprattutto per padre Rodrigues, costretto a un certo punto a osservare da lontano il martirio del compagno (figura monolitica di sacerdote sicuro della propria fede e del proprio destino), è vissuta come spettacolo che condanna all’impotenza, evento inevitabile che costringe il protagonista a realizzare il clamoroso ribaltamento messo in atto dal film: non la passione di una divinità che paga per i peccati degli uomini, ma il martirio mancato di un uomo che crede di vivere a immagine e somiglianza di Dio e così facendo fa scontare agli altri il proprio peccato di superbia.

Se il Cristo dell’Ultima tentazione era un uomo che cercava di sfuggire alla predestinazione, il sacerdote di Silence, come Frank Pierce, il paramedico di Al di là della vita, è un uomo che vive inconsapevolmente la propria passione cristologica, salvo essere abbandonato al silenzio del reale. L’esperienza di Frank era ricondotta a un universo iconografico e religioso comprensibile, a un’immagine finale ispirata alla Pietà di Michelangelo; Padre Rodrigues, invece, costretto per la sua figura ad affrontare di petto ciò che gli altri personaggi scorsesiani sublimavano con l’autodistruzione, è vittima di un doloroso ma inevitabile cammino di accettazione del mistero del reale. E il film non fa altro che accompagnarlo in tale cammino, assumendone in qualche modo l’enormità.

 


Come in altri film di Scorsese, anche in Silence due personaggi entrano in un mondo “straniero” e provano a modificarne la struttura. Rodrigues e Garupe non sono troppo diversi da Sam Rothstein e Nicki Santoro di Casinò; lo conferma indirettamente Padre Valignano, il loro superiore, quando prima di salutarli dice: «Voi sarete gli ultimi due missionari ad andare. Un esercito di due persone», e ricorda le parole di Nicky sull’esperienza dei “bravi ragazzi” a Las Vegas: «Poteva essere una pacchia. Invece fu l’ultima volta che a dei criminali da strada come noi fu affidato qualcosa di tanto valore...». Di queste due figure, Rodrigues e Garupe, una dubita e l’altra no, una è incompleta (come i mafiosi mezzo o pienamente ebrei di Quei bravi ragazzi e, ancora, di Casinò, o come la Madame Olenska, americana europeizzata, de L’età dell’innocenza) e l’altra è granitica, perde lo status di protagonista e viene vista morire da lontano per poi trasformarsi in semplice corpo annegato e muto.

 

Ancora come in Al di là della vita e nell’Ultima tentazione, le immagini della colpa, della tentazione, della debolezza, in Silence assumono sembianze umane (e qui ci sarebbe da affrontare la questione della transustanziazione come figura chiave del cinema di Scorsese…), concentrate in una figura sfuggente e simbolica: il fantasma di Rose, la ragazza che Frank Pierce non aveva saputo salvare, o Noel, il tossico che chiede continuamente aiuto a Frank, o lo stesso diavolo che diventa bambina per ingannare Cristo, sono ripresi da Kichijiro, l’uomo che tradisce, abiura e si confessa di continuo, che a ogni apparizione mette Rodrigues di fronte alle proprie responsabilità, e poi finisce anch’egli per sfuggire alla logica del racconto e della comprensione del singolo.

Al di là di questi elementi tipicamente scorsesiani, però, in Silence c’è qualcosa che Scorsese non aveva mai affrontato in maniera così evidente e naturale: il rapporto fra il racconto, la sua origine e il suo andamento, e l’immagine di Cristo.

L’effige del figlio di Dio compare per la prima volta dopo alcuni minuti di film, quando Rodrigues è disteso e guarda in alto: a un primissimo piano di Andrew Garfield segue in modo netto il controcampo speculare dell'immagine pittorica di Gesù, che va a riempire lo schermo per diversi secondi; una soggettiva che mette a confronto l’uomo e la divinità e crea i termini speculari del confronto. La seconda apparizione, invece, coincide con la svolta narrativa e concettuale del film: al volto di Rodrigues riflessa nell’acqua si sovrappone quello di Gesù, unico momento in cui l’immagine di Scorsese perde la propria naturale, classica materialità e si fa trasparenza digitale. È il momento in cui il racconto si soggettivizza, in cui il destino umano di Rodrigues, che ripercorrerà le tappe già affrontate da Padre Ferreira, si separa dalla sua avventura spirituale, trasformando la voce over in un soliloquio camuffato da interrogazione a Dio.

 

 

Vedendo Cristo in sé stesso, Rodrigues ribalta il Cristo dell’Ultima tentazione, diventa l’uomo che vuole farsi Dio, che vive in una dimensione onirica, quasi isterica, ignorando la propria esistenza terrena. Scorsese non infierisce sul personaggio, non ne mette in scena l’umiliazione o il tormento: semplicemente, lo lascia solo di fronte al silenzio, non di Dio, ma del reale.

Alla terza apparizione, l’immagine di Cristo compare dipinta su delle assi di legno, ancora filtrata dalla soggettiva di Rodrigues, ma non più riflessa: è un’immagine immateriale diventata oggetto. E quando padre Ferreira cerca di convincere l’ex allievo dell’impossibilità di trapiantare il cristianesimo in Giappone, in quel momento l’immagine stessa di Gesù (non la sua natura imperscrutabile), viene annientata dal film stesso. Raccontando del missionario Padre Francis Xavier, Ferreira dice: «Xavier venne qui per parlare ai giapponesi del figlio di Dio. Prima, però, dovette chiedere come ci si riferiva a Dio. “Dainichi” gli risposero. Vuoi che ti mostri il loro Dainichi?». Ferreira allora punta il dito fuori campo e sullo schermo compare il primo piano gigantesco e frontale del sole. Esattamente come l’immagine di Cristo all'inizio del film. Campo e controcampo, due immagini semplice e purissime. Niente movimento, niente musica (non c’è quasi musica in Silence!), solo due immagini dal contenuto opposto a confronto. «Oltre… c’è il sole di Dio», dice ancora Ferreira. «Il sole creato da Dio. Ma Dio ha solamente generato il sole. Nelle scritture Gesù risorge nel terzo giorno. In Giappone, il sole sorge ogni giorno. I giapponesi non sanno pensare a un’esistenza oltre il regno della natura. Per loro nulla trascende l’umano».

Non c’è stile, non c’è immagine, oggi, che possa significare oltre sé stessa, oltre la natura, oltre l’umano (come invece potevano ancora fare, forse, le immagini di Kundun, che aprivano l’inquadratura alla vertigine desiderata della preghiera): questo è il precipitato del cinema di Scorsese, finalmente realizzato in Silence.

Non è una questione di credere ancora nell’immagine, o di realizzare un film personale con stile impersonale, “classico”,  inseguendo il trascendente. Non è nemmeno una questione di continui ribaltamenti di prospettiva, di elementi che contraddicono le convinzioni acquisite dai personaggi (come potrebbe sembrare dall’ultimo movimento di macchina del film, che in teoria va a sconfessare ogni cosa, dal momento che la macchina da presa “penetra” in una bara con un effetto speciale digitale, dopo che per tutto il film gli oggetti non hanno fatto altro che sovrapporsi ad altri oggetti o spaccarsi gli uni contro gli altri…). È una questione di far aderire il cinema, e i suoi elementi in contrapposizione e contraddizione, alla materialità del silenzio che ci circonda. E quindi trovare attraverso la naturalezza del cinema – di tutto il cinema, non solo il proprio – la cifra in grado di accoglierne il più possibile la vastità.

Forse il reale al suo interno contiene la verità, forse contiene Dio. Ma non potrà mai svelarla. Non sa di possederla. Se il cinema intende cercarla, quella verità, non può far altro che accettare il fatto che ogni immagine, come si sente ripetere infinite volte in Silence, è soltanto un’immagine, una formalità.

 

Articolo apparso su cineforumweb.

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