Anniversari / Calvino, Rigoni Stern, Meneghello. Cari centenari

24 Gennaio 2021

Il 2019 è stato il centenario della nascita di Primo Levi. Quest’anno, 2021, è la volta innanzi tutto di Sciascia (nato l’8 gennaio) e di Rigoni Stern (1° novembre). Il 2022 toccherà a Fenoglio, Meneghello, Manganelli, Pasolini; l’anno seguente, a Calvino. L’elenco non pretende di essere completo. L’appena concluso 2020 ha visto volgere la cadenza secolare per Gesualdo Bufalino, Franco Lucentini, Gianni Rodari; il ’22 sarà anche il centenario della nascita di Luciano Bianciardi; il ’23, di Giovanni Testori; il ’24, di Giuseppe Bonaviri e di Paolo Volponi. Quello che si sta consumando, a cavallo fra il secondo e il terzo decennio del secolo XXI, è il centenario di una generazione. La generazione dei genitori di molti di noi baby-boomers: la generazione di chi ha compiuto vent’anni durante la guerra. Dunque, di chi ha vissuto da protagonista la fondazione della Repubblica: gli anni della ricostruzione, gli entusiasmi e le delusioni, l’ingresso in una società del benessere fragile e contraddittoria ma, per i più, prospera quanto nessuna prima. 

 


Storicamente, sono soprattutto le guerre a definire le generazioni. Anche in maniera indiretta: chi ha vissuto l’esperienza di un conflitto, comunque l’abbia vissuta – come trauma, lutto, lacerazione, occasione, avventura – di solito ne parla, poi, a lungo: trasmette i ricordi ai familiari, ai discendenti, agli amici più giovani. Per chi è nato durante il boom economico i discorsi sul «tempo di guerra» – i confronti fra il prima e il dopo, fra la penuria e i pericoli di allora e la sicurezza e la prosperità presenti – sono parte non piccola delle memorie dell’infanzia. Le esperienze che hanno segnato la vita dei genitori (e dei nonni, in qualche caso, se età salute circostanze lo consentono), ripetutamente rievocate nei conversari domestici, vengono assimilate con una intensità particolare: benché non vissute in prima persona, s’imprimono nella memoria e nella coscienza, quasi come forme a priori che condizionano la percezione degli avvenimenti successivi. 

 

Inevitabile è domandarsi che cosa è successo in seguito. I nipoti della generazione degli anni Venti, che oggi sono (o potrebbero essere) genitori a loro volta, non hanno sentito parlare in casa di nulla di così urgente, di così importante, e diciamo pure di così interessante, come quello che è successo fra il ’40 e il ’45, o fra il ’38 e il ’46. «Dopo», infatti, i confini tra le generazioni si sono alquanto sfumati. Settantacinque anni di pace – una fortuna senza precedenti, in questa parte del mondo – hanno affievolito il senso della storia, che tanto più saldamente si radica nelle coscienze di una popolazione quanto più aspre sono state le prove inflitte, a tutti e a ciascuno, dagli eventi collettivi. E infatti chi si proponga di ragionare sul rapporto fra destino individuale e vicende storiche è tuttora portato, quasi inevitabilmente, a privilegiare la prima metà del secolo XX: l’epoca in cui si è consumato il declino della supremazia globale dell’Europa, lungo i due tragici atti della nuova, rovinosa Guerra dei Trent’Anni combattuta fra il 1914 e il 1945. 

 

Un sintomo interessante. Nel 2019 la giuria del Premio Letterario Manzoni per il romanzo storico, che viene celebrato a Lecco dal 2005 (la prima edizione incoronò La masseria delle allodole di Antonia Arslan Veronese), ha assegnato un premio speciale a un graphic novel firmato da due quarantenni, Francesco Memo e Barbara Borlini, La vita che desideri (Tunué, Latina, 2019). Opera dotta e raffinata, intrisa di citazioni letterarie (lo stesso titolo è un verso da Kavafis) e dedicata alla figura del nonno della disegnatrice, racconta una storia dai molteplici risvolti tragici, in cui entrano anche i pregiudizi contro l’omosessualità. L’inizio è a Vienna, alla vigilia della Grande Guerra; la fine, all’epoca della Resistenza (fatto salvo un lieto epilogo datato 1962). Dunque, 1914-1945: quanto è accaduto in quei decenni basta, si direbbe, per esaurire il nostro bisogno di storia. Al paragone, gli eventi successivi appaiono piatti, quasi insignificanti. Del resto, come ha insegnato Yosef Hayim Yerushalmi in Zakhòr. La memoria ebraica (1982), può accadere che un popolo – una cultura – elevi a paradigma di interpretazione del reale una serie di avvenimenti, cioè un certo arco temporale, e deprezzi tutto quello che è accaduto dopo, considerandolo alla stregua di inessenziali contingenze: le quali, per quanto travagliate e dolorose, possono soltanto confermare cognizioni già acquisite. Forse qualcosa del genere è accaduto o rischia di accadere nella coscienza dell’Occidente europeo? Difficile rispondere; ma credo valga la pena di tenere aperta la domanda.     

 


Sta di fatto che gli scrittori che ho ricordato all’inizio appartengono all’ultima generazione che della fine di quel fatale mezzo secolo ha potuto aver piena esperienza. La generazione di chi è stato mandato al fronte in Africa, nei Balcani, in Russia; di chi ha patito persecuzioni e deportazioni; di chi ha preso parte alla Resistenza. E anche di chi si è schierato dalla parte opposta: tant’è vero che nel suo libro d’esordio, A cercar la bella morte, Carlo Mazzantini (classe 1925), volontario della Repubblica di Salò, dava voce non all’ostilità contro i coetanei antifascisti, quanto all’indignazione contro gli ex-fascisti della generazione precedente: contro i padri che si erano affrettati ad accantonare un intero mondo improvvisamente divenuto scomodo, noncuranti del fatto che per i figli quello era il mondo, il mondo che avevano loro consegnato, e che ora erano impazienti di archiviare. Peraltro: archiviare davvero? Questa sarebbe stata una delle questioni più spinose non solo per l’immediato dopoguerra, ma per parecchi decenni a venire.   

L’affollarsi dei centenari vedrà fiorire una quantità di iniziative, eventualmente promosse da comitati costituiti ad hoc (per inciso, il 2021 è anche il secondo centenario della nascita di Baudelaire, Flaubert e Dostoevskij, oltre che il settimo della scomparsa del padre Dante).

 

Sarà l’occasione di rivisitare e ripensare molti temi di rilievo: di aggiornare il bilancio di quella che è stata, dopo tutto, anche l’ultima generazione di narratori rispetto alla quale l’oscillazione del canone è contenuta in limiti ragionevoli. La poesia ha seguito altri ritmi; i narratori degli anni Trenta hanno fatto decisamente più fatica a definire la propria fisionomia (quasi come i politici nati negli anni Cinquanta, che hanno atteso con pazienza il loro turno per essere poi quasi subito scavalcati dai più giovani). Sui narratori e prosatori degli anni Venti, invece, i valori sono meglio definiti. Il che non significa che da loro non si abbia più nulla da imparare. Anzi, è vero proprio il contrario: da loro siamo certi che molto ancora è possibile apprendere, e ogni anniversario è una buona occasione di rilettura. Rileggendo l’elenco di nomi da cui siamo partiti vien da pensare che davvero non sia facile trovare, né prima né dopo, un drappello di quindici scrittori di quella levatura nell’arco di cinque o sei anni.    

Certo, il centenario della generazione dei genitori potrebbe anche sollecitare una riflessione sulla fisionomia della propria. Ma questa è di sicuro, come s’usa dire, un’altra storia; e non sono nemmeno troppo sicuro che metterà conto, un giorno, cercare di raccontarla. 

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