1930-2019 / Harold Bloom: influenza, canone e risentimento

18 Ottobre 2019

A chi suscita grandi odi e grandi amori non si può che riservare tutta la nostra considerazione: Harold Bloom appartiene a questa schiera, insieme a pochi altri intellettuali del Novecento. Chi lo ritiene il più grande critico apparso sulla faccia della terra, punto e basta. Chi un trombone, che adorava giganteschi feticci, rigorosamente maschi e bianchi, per farne un monumento a se stesso. Esisterà una via di mezzo? No. Altrimenti Harold Bloom non sarebbe stato quello che è stato.

 

Le mezze misure non si applicano neppure alle ragioni dell'apocalissi accademica e culturale che sta travolgendo tutti coloro che si occupano di letteratura, essendo lo studio di quest'ultima diventato una specie di oggetto desueto che galleggia dentro il ventre di una balena, dove il buio dilaga. Possiamo attribuire la colpa all'invasione di ultracorpi (decostruzionismo, studi culturali, coloniali, queer e compagnia bella) che avrebbero fatto implodere il concetto stesso di letteratura. Oppure a un canone che si perpetuerebbe da secoli come un morto che cammina, ammorbandoci con il suo cattivo odore. Vie di mezzo, anche in questo caso, non ce ne sono.

 

Harold Bloom sapeva sempre da che parte stare: contro l'invasione degli ultracorpi, schierato a difesa del morto che cammina. Che per lui invece era vivo, vivissimo. Non sentiva il suo cattivo odore, Bloom. Anzi, per lui era simile ai cadaveri dei santi, che rimangono profumati per l'eternità. Non percepiva neanche la cattiva coscienza che quel morto eccellente si portava dietro, riscattata dal sacro fuoco dell’Arte. Contro la logica consumistica dell’effimero. “C’è poco tempo: perché sprecarlo con questa spazzatura invece di rileggere la Divina Commedia?”: un argomento irresistibile, che chiude la bocca a tutti. Prima di morire vuoi ascoltare Bach, oppure il suono sgangherato di un organetto di strada? Mozart o la sigla di una pubblicità? Qualche rappresentante della genia degli eccentrici, tra avanguardia e postmodernismo, avrebbe probabilmente risposto plaudendo il trash. Ma solo per il gusto meccanico di una retorica alla rovescia: sul letto di morte, quella vera, sarebbero tornati anche loro a chiedere consolazione alla maestosa evidenza del Sublime. 

 

Dell’insieme dell’opera di Harold Bloom, che ha conservato la corona del regno della critica letteraria per più di mezzo secolo, pubblicando decine di libri, rimarranno almeno tre parole emblematiche: influenza, canone e risentimento. Nel 1973 in un piccolo libro di 150 pagine destinato a diventare una delle bibbie degli intellettuali del Novecento, The Anxiety of Influence. A Theory of Poetry, entravano in scena le marionette giganti di Bloom, tenendosi per mano; venti anni dopo, nel 1994, usciva un imponente volume di 600 pagine, The Western Canon. The Books and School of the Ages, in cui le stesse marionette si mettevano in fila dentro un nuovo allestimento museale del Pantheon; infine, grazie alla fortunata formula di “scuola del risentimento” coniata da Bloom, gli eroici giganti tornavano a rifulgere nella battaglia contro un nemico tanto meschino quanto insidioso, il risentimento. Partiamo da quest'ultimo: gli adepti del risentimento sono quelli che rosicano, come direbbe qualche politico dei nostri giorni. E che rosicando, accrescono la gloria di chi invece rimane imperturbabile. Un misto di vittimismo e piagnisteo circonda questa parola. Un sentore, anche, di maestrine moralistiche che bacchettano e rimproverano i geni irriverenti. Come mosche fastidiose che punzecchiano i purosangue pronti alla corsa. 

 

 

Poi c’è l’influenza. Parola magnifica, che con l’ansia forma una coppia formidabilmente riuscita. L’ansia siamo noi. Tutto il Novecento è figlio dell’ansia. Tutti siamo, senza eccezione, ansiosi: psicologicamente, culturalmente, politicamente, ecologicamente. 

L’influenza non è razionale, appartiene da sempre alla sfera del magico naturale. Benefico o demoniaco, a seconda dei casi, riguarda l’azione di una cosa che opera su un’altra, in un effetto di risonanza universale, tanto misterioso quanto onnipresente, che tende a tenere tutto insieme. La lezione di Bloom non era nuova, ma riformulata in modo potente e moderno: non esistono testi, piuttosto una rete di relazioni testuali che forma quella che noi chiamiamo la tradizione. Fatta il più delle volte di malintesi e angoscianti ribellioni, ma non importa: l’importante è la solidarietà che instaura, anche nella lotta, tra una cerchia di eletti. Hanno sofferto, si sono battuti. Ma alla fine, in virtù della trasmissione di un genio condiviso, hanno vinto alla lotteria dell’immortalità. Questa è l’unica cosa che conta, mentre soggiacciamo all’ansia dell’influenza del testo di Bloom su tutti i testi critici che sono venuti dopo. 

 

Infine il canone. Anche quello non si può dire che se lo sia inventato Harold Bloom: ma lo ha rifunzionalizzato e rilanciato in un’epoca di crisi. Esponendosi a remare controcorrente, ad apparire quanto mai inattuale e polveroso. Ma anche esaltando se stesso, evidentemente: prima di tutto, nella lotta contro i tempi avversi. Poi nell’aureola eroica che dona l’ardimento di prendere una parte senza tentennamenti, l’audacia del gesto che separa il bene dal male, stabilendo una gerarchia di valori assoluti: dire sì o no, consegnare un giudizio netto al mondo, con lo sprezzo di chi se ne infischia se il mondo condividerà quel giudizio o meno. Poiché si tratta di un giudizio formulato secondo criteri talmente universalizzanti, che prima o poi dovrà per forza vincere sulle miserie del mondo. Dietro l’operazione di Bloom, coronata da tanto successo, sta il fascino intramontabile del manicheismo, che rifiuta di restare nella palude delle cose incerte. Schierandosi dalla parte dell’occhio cristallino di Dio. 

 

Qual è il nostro dovere di studiosi della letteratura? Bloom non ha dubbi: insegnare a leggere i capolavori che si sono succeduti nella storia dell’umanità. E come su Bach e Mozart in punto di morte, c’è poco da discutere. Se non fosse per qualche lamentevole dettaglio. Per esempio: si capisce qualcosa del nostro tempo pieno di porcherie studiando soltanto i classici? Senza sapere che intorno a quei classici c’è sempre stato, da che tempo è tempo, un mare di porcherie? E che essi stessi, i classici, sono stati considerati spesso delle porcherie prima di assurgere all'empireo del canone che li ha lavati come una bacchetta magica da ogni imperfezione? Bloom detestava la mescolanza dell’ideologia con l’Arte: da un certo punto di vista dobbiamo essergli grati, perché qualcuno doveva dirlo. Meglio è stato che a farlo sia stato qualcuno con la sua intelligenza e il suo talento. D’altra parte come ignorare che l’ossessione per la purezza dell’Arte provoca una violenza sull’immaginario altrettanto sanguinosa di quella dell’ideologia? E anche questo, qualcuno doveva dirlo, con buona pace di Harold. Altrimenti saremmo rimasti nell’Ottocento. 

 

Un altro dettaglio: c’è la scuola del risentimento, d’accordo, che con la furia della sua ignoranza avrebbe fatto piazza pulita dell’estetica. Ma dall’altra parte cosa c’è? Da lassù, dove Harold ci guarda insieme ai ventisei classici che ha scelto per rappresentare il canone occidentale, si vede qualcos’altro? Per caso si vede l’enorme, insopportabile narcisismo che ha fatto della critica letteraria un pollaio di maschi, giovani o vecchi, che scorrazzano in lungo e in largo come una banda di pavoni rampanti? E più grande, marmoreo è il monumento innalzato all’oggetto del loro studio, più loro stessi si levano sopra le nostre teste come palloni gonfiati da un paternalismo di bassa lega? Certo le donne, lesbiche, di colore, che arrivano con i forconi sotto quel monumento sono piagnucolose, ai loro occhi, e hanno distrutto i dipartimenti di letteratura in America e nel resto del mondo. Ma vivaddio che ne hanno avuto il coraggio: come Rosa Parks che non ha mollato il suo posto sul bus di Montgomery.

 

Infine, aggiungiamo una quarta parola alle tre di cui abbiamo appena parlato: misreading. Dislettura. The map of misreading è un libro del 1975, dove si legge: “La relazione d’influenza governa il leggere come governa lo scrivere, e leggere è perciò discrivere, giusto come scrivere è un disleggere”. Continuiamo furiosamente a disleggere tutto, comprese le opere di Harold Bloom. Con tutta l’ansia e il risentimento che saranno necessari. Anche a rendere onore ai personaggi controversi. Perché a loro dobbiamo quasi tutto quello che ci interessa. 

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