In mostra a Basilea / Louise Bourgeois: la donna che portava il suo pene sottobraccio

31 Maggio 2022

All’inizio degli anni Ottanta Robert Mapplethorpe scatta una formidabile foto a Louise Bourgeois, in cui quest’ultima guarda dentro l’obiettivo con un sorrisetto da fare invidia alla Gioconda e il volto pieno di rughe come una tartaruga. Una simpatica vecchietta, apparentemente innocua, vestita di una pelliccia di piume nere. Se non fosse che sotto il braccio porta, con molta nonchalance, un oggetto che potrebbe essere una borsetta. Ma non lo è: si tratta di un enorme membro maschile. Sì, un pene scolpito molto realisticamente, il cui glande la donna tiene con la mano destra come fosse la parte anteriore della borsa. Quando l’occhio, dunque, scivola dal sorriso della vecchietta al grande pene che si porta sottobraccio, quel sorriso prende tutta un’altra strada. E forza. Diventa derisorio, sarcastico. Oppure soddisfatto? Senza saper dire esattamente di cosa: di sé, del sesso o della sua rappresentazione? In ogni caso di quello che l’artista si porta dietro come la feroce satira di una borsetta.

 

Al centro della mostra che il Kunstmuseum di Basilea ha recentemente dedicato a Louise Bourgeois, ci sono due donne artiste: una è Bourgeois, l’altra Jenny Holzer, che cura la mostra intitolata The violence of handwriting across a page. Louise Bourgeois x Jenny Holzer. Quarant’anni fa Mapplethorpe aveva visto in Bourgeois già settantenne la dissacrante artista che, con la penosa lentezza tipica delle carriere femminili, si era infine imposta nel mondo dell’arte. Oggi Holzer cosa vede in lei? E cosa ci fa vedere? Qualcosa di più complesso, forse, e soprattutto qualcosa che non possiamo più definire come davvero dissacrante. Per il semplice fatto che quel sacro non esiste più. E quindi il gesto che un tempo veniva interpretato come dissacratorio può finalmente rivelarsi per quello che è: un fondamentale nucleo di violenza psichica, che rappresenta un dato costitutivo della nostra vita individuale e collettiva. E quindi non va più inquadrato nella sfera del dissacrante, ma piuttosto in quella del quotidiano. Com’era, in fondo, la paradossale borsetta-pene nella foto di Mapplethorpe.

 

 

Jenny Holzer è un’artista americana famosa per le sue istallazioni in grande scala che utilizzano le parole, i testi scritti per creare opere d’arte con un messaggio politico. Affidare a lei una mostra su Bourgeois è una sfida interessante: Holzer legge l’opera Bourgeois come fosse un palinsesto e la espone mettendo in rilievo le sue multiple sovrapposizioni tra scrittura e immagine. Nel titolo della mostra campeggiano due parole: “pagina” e “scrittura”. Insieme a una terza che le introduce, quasi giustificandole: “violenza”. Non c’è scrittura che attraversi (“across”) una pagina senza violenza. La violenza che si fa alla pagina bianca, ma anche il moto di violenza che spinge a scrivere. Oppure a dipingere e scolpire. Jenny Holzer ci invita a attraversare l’opera di Bourgeois, a tratti monumentale a tratti ironicamente sommessa, tirando il filo primigenio della scrittura. Un filo rosso, come vedremo, molto simile a un cordone ombelicale che ci porterà dritti dentro il corpo di qualcuno. Qualcuno che non c’è, ma insieme è onnipresente.

 

Il corpo della madre, si potrebbe ipotizzare, che Bourgeois ha rappresentato in una delle sue opere più celebri come un gigantesco ragno. Oppure il pene del padre, senza il quale la vecchietta con le rughe di una tartaruga (che avrà la ventura di vivere un secolo intero, tra la Francia e gli Stati Uniti: oggi è l’anniversario della sua morte, avvenuta 12 anni fa) non sarebbe mai nata. Tutti possiamo dire di avere un pene sottobraccio. E una vagina in testa. Freud ci ha fatto questo regalo avvelenato più di un secolo fa e da allora ce lo portiamo dietro, in parti più o meno nascoste di noi.

 

Non che prima non fosse così, in epoca pre-psicoanalitica. Ma dopo sarà come se uno scultore dissennato avesse fatto una mastodontica copia degli organi genitali, per consegnarla a ciascuno di noi: copia quanto mai dettagliata e realistica, ma insieme talmente sproporzionata da trasformarli in oggetti squisitamente mentali. In questo senso Louise Bourgeois è la geniale artista di un Novecento pieno di correnti psichiche, esplose come lampi in un cielo buio, che abbiamo attraversato sul dorso di quell’unicorno che era la psicanalisi. E ricordarlo oggi, in un’epoca che potremmo definire post-psicanalitica, ha un senso non solo storico ma soprattutto artistico. Facendo pace con quel sorrisetto della foto di Mapplethorpe che sembra dire: “avete ragione a volervi dimenticare del pene del padre”. E nello stesso momento: “Ma se pensate di poterlo fare, siete più sciocchi di quanto crediate”.

 

La psicanalisi, del resto, è stata quello che è stata e ha avuto l’influenza che ha avuto, soprattutto perché utilizzava uno strumento di cura inedito e incredibilmente ambiguo: la parola. La stessa parola che viene messa al centro di questa mostra, nella quale Holzer sceglie di farci vedere una Louise Bourgeois che dipinge e scolpisce nel momento stesso in cui scrive. O per dire meglio, dipinge e scolpisce perché non smette mai di scrivere. Riempiendo di parole non soltanto i suoi quadri, ma compulsivamente pagine e pagine di diari, di block notes, di fogli sparsi. Come se l’arte non esistesse senza questo flusso continuo di scrittura, che con la sua potenza riflessiva e talvolta delirante la trascina con sé, forzandoci a sporgerci sul baratro dei nostri traumi e dei buchi neri di cui siamo fatti, nell’unica forma in cui forse possiamo farli esistere: quella linguistica.

 

Se soltanto intendiamo tutto come linguaggio. Idea, anche questa molto novecentesca, che non è sempre possibile sostenere, se non creando enormi tensioni psichiche e pagando prezzi talora esorbitanti. In primo luogo nel rapporto con il corpo, che abbiamo imparato a considerare come un grande enigma mentale e una complessa costruzione culturale: quindi sempre fondamentalmente inafferrabile, assente. Ma che, nello stesso tempo, non possiamo ostinarci a cancellare in quanto insieme di cellule, organi, malattie, ferite, vita e morte che sono quanto abbiamo di più vicino al presente. E quindi a quello che potremmo definire, con tutte le cautele e i dubbi del caso, “vero”. Mi pare che “la violenza della scrittura attraverso la pagina”, alla quale questa mostra s’intitola, stia tutta qui: nel nostro dilaniarci tra la presunta verità del corpo e quella altrettanto insondabile del linguaggio. Ma anche nel nostro necessario fortificarci, e quindi riscattarci, quasi sublimarci attraverso la presa in conto di questa violenza fondamentale. Presa in conto di cui Bourgeois è stata maestra assoluta, come l’esposizione al Kunstmuseum di Basilea documenta e l’incontro con l’universo artistico di Jenny Holzer enfatizza: per tale motivo la foto della donna che porta il pene sottobraccio, da cui siamo partiti, appare tanto intensa. E perfino commovente, nella sua profonda mescolanza di verità e irrisione, concretezza e irrealtà.

 

 

Così di fronte alle mutande che campeggiano sull’affiche della mostra, con sopra la scritta rossa “The day the bird was attracted, it fouled its nest” (“Il giorno in cui l’uccello è stato attratto, ha sporcato il suo nido”) cosa rimane da fare? Ridere o piangere? Come davanti alla serie di scritte ricamate, sospese a metà tra il ricordo antico degli ex voto e quello ultramoderno delle citazioni che si moltiplicano diventando frasi fatte sui social o sui gadgets turistici, dai bavaglioni per bambini ai grembiuli per cucinare. In ogni caso, nell’opera di Bourgeois ci troviamo sempre confrontati al misterioso combaciare di una profondità vertiginosa, caotica e densa, con la superficie rarefatta, quasi instupidita e incantata di un ritornello. Dove tutto è femminile, la profondità come la superficialità: ma un femminile sempre inteso come travestimento e tranello. Dalla scopa che come uno spaventapasseri tiene su un vestitino a quadretti bianchi e neri, alla torre di cuscinetti di velluto che sembrano appena usciti dal salotto polveroso della nonna. Fino all’annullamento del maschile e del femminile nel lugubre e tenero abbraccio di due pupazzi in aria, compenetrati per sempre in un atto amoroso o semplicemente sessuale che mescola la favola al tormento. 

 

La parola regna nelle diverse sale, ma lo fa nei modi più bizzarri e sorprendenti. Talvolta la scrittura sta da sola, prendendo la forma di un disegno come fosse una poesia visiva; talaltra è inquadrata, colorata, ripetuta, gridata, enumerata, cucita sulla stoffa. Oppure scritta sopra dei pentagrammi, come fosse musica. Spesso divide lo spazio della tela con l’immagine, in una prodigiosa proliferazione iconotestuale. Come nel quadro dove si intravedono due capezzoli, che sembrano due occhi racchiusi dentro una conchiglia fatta di linee concentriche, mentre sotto si legge: “Visto dal punto di vista di un bambino.

 

Un bambino di 12 o 14 anni, era in vacanza dalla scuola e si poteva vedere improvvisamente il cambiamento di espressione sul suo volto, l'espressione di terrore. Il terrore di percepire il caos, come io dissi”. Oppure nella straordinaria sala dedicata al corpo, incredibilmente palpitante nei vari suoi pezzi (intestino, braccia, crampi e altro), che le parole e i disegni consegnano alla pietà del nostro sguardo come dei bisturi. Per finire nella sala del sangue: non inizia e finisce tutto, infatti, in un lago di sangue? Una sala accecante di rosso vivo, come fosse dipinta dal sangue mestruale, piena di parti, falli, vagine, linee concentriche, forbici che tagliano il cordone ombelicale. Ci sono le viscere qui, certo. Esibite, anzi sbattute in faccia al pubblico. Ma c’è anche una irresistibile leggerezza dell’arte, che rovista nel dolore per attraversarlo. “Pain is the business I am in” (“Il dolore è l’attività che svolgo”), come si legge altrove cucito su una federa.

 

La donna che portava il suo pene sottobraccio ha attraversato un secolo della nostra storia. Lo ha fatto disseminando le sue opere di parole e trasformando una moltitudine di parole in opere. Quel possente e ridicolo fallo che si porta a spasso può rappresentare un’infinità di cose, e anche in verità nessuna. Ma perché non allora una metafora del pennello o dello scalpello dei grandi artisti, oppure della penna dei grandi scrittori? Tutti maschi che nei secoli dei secoli non hanno esitato a mettere in relazione la loro prestanza artistica con quella sessuale. Pennello, scalpello o penna che una fillette qualunque (così la foto di Mapplethorpe s’intitola), una little girl sbarcata da Parigi a New York alla fine degli anni Trenta può finalmente scegliere di prendere in mano. Decidendo, con mano ferma e un arcano sorriso tra le labbra, di farne ciò che vuole. 

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