L’amore di Frédéric Pajak
La carta e noi: una lunga storia d’amore. Il mondo è pieno di plastica, lo sappiamo. Plastica di cui ci siamo follemente innamorati durante il secolo scorso. E da cui adesso facciamo fatica a divorziare, per quanto spazio ha preso nelle nostre vite e come sia difficile farla sparire. Viceversa la storia d’amore con la carta è molto più lunga e apparentemente meno controversa.
Intanto perché la carta si distrugge più facilmente. Poi perché crea oggetti (libri, giornali, manifesti, lettere) che svolgono compiti di solito più nobili rispetto a quelli servili demandati alla plastica. Senza però sfuggire al gigantesco senso di colpa dei nostri tempi, relativo allo sfruttamento dissennato delle risorse: se dietro ogni libro s’intravede ormai una foresta distrutta, la pena per l’agonia della terra non può che rendere anacronistica la difesa della polvere delle biblioteche. Il progressivo e inarrestabile processo di smaterializzazione di ciò che una volta era fatto di carta genera forti angosce culturali da una parte e grandi entusiasmi tecnoecologici dall’altra. Divide, come ogni storia d’amore collettiva che si rispetti. Soprattutto quando s’intravede il tempo della sua fine.
Nell’editoriale del primo numero della rivista semestrale da lui diretta, che s’intitola «L’amour», Frédéric Pajak scriveva che, certo, la rivista sarebbe stata di carta. Sennò non sarebbe stata una rivista di Pajak, potremmo aggiungere. Il sorprendente titolo scelto per denominare i due grossi volumi di 30 cm per 24 finora usciti sembra discendere da una certa ironia d’antan o ingenuità forzata. Forzata apposta per provocarci, oppure per suscitare una tenerezza infantile che avevamo dimenticato.
D’altra parte tutto qui è d’antan: tutto sembra fondarsi su un primordiale senso militante dell’arte, la quale s’impegna a combattere il dilagare della tecnocrazia postmoderna e ultracapitalista, in un’apocalittica battaglia senza speranza che potrebbe ambientarsi in una qualsiasi, decrepita e fascinosa casa del popolo nel cuore della vecchia Europa. Da cui una certa cupezza regressiva da pieno Novecento, seducente nella misura in cui ancora riesce a inquietarci agitando i fantasmi più oscuri della nostra storia. Fantasmi pesanti e molto maschili, impregnati di uno spirito che potremmo definire anarchico e internazionalista.
Tutto sembra anche estremamente moderno, però, sia pure in una declinazione che vira piuttosto al classico. Qualcosa, per dirla altrimenti, che rema contro il maggiore totem dei nostri tempi, nonché demone principale di quasi tutti gli intellettuali engagés: l'intrattenimento. Ma lo fa con la stessa arma tanto temuta e disprezzata dai più accaniti avversari della società dei consumi, vale a dire le immagini. Questi volumi, infatti, sono dei magnifici esempi di come la scrittura non possa fare a meno dell’amore per le immagini.
Immagini che inquietano, affascinano, intrattengono, in un favoloso controcanto e minuetto con le parole. D’altra parte Frédéric Pajak è il maestro fuori tempo e fuori moda di tale malinconica mistura, capace di toccare le difficili corde di un poetico perturbante, come da decenni si è sforzato di dimostrarci attraverso la memorabile serie di volumi intitolati Manifeste incertain. Incertezza sull’opera da fare? Incertezza sulle interpretazioni della storia da dare? Incertezza sul crinale che divide o viceversa avvicina l’atto del guardare le immagini a quello di leggere le parole? Incertezza, infine, tra l’idea di un libro, che esce una sola volta, e quella di una rivista, che ci accompagna nel corso del tempo?
Pensare a una rivista di carta è senza dubbio un’operazione vintage. Non si sa neanche più dove bisognerebbe comprarle, e quindi venderle, queste riviste cartacee. Un’operazione profondamente inattuale. E infatti come s’intitola il secondo numero della nuova rivista di Pajak, che nel corso della sua vita ne ha progettate e fatte un gran numero? Contre l’actualité. L’amore, parola ironico-scottante che costituisce il titolo principale della rivista, si coniuga alla parola “contro”, che va nella direzione del pugno alzato nella casa del popolo di cui sopra, e alla parola “attualità”.
L’attualità dei miliardi di notizie che il King Kong mediatico che ha preso possesso delle nostre vite ingoia e sputa in cima a un grattacielo. Alla velocità della luce e della nausea. Se volessimo rimescolare tutti i termini della questione: l’attualità va dunque contro l’amore. O per dire altrimenti, se ti consegni ai grandi incantatori che ci tengono imprigionati dentro al “falso” amore per l’attualità – sostengono Pajak e la cinquantina di collaboratori che lo affiancano in quest’impresa epica – dovrai rinunciare al “vero” amore per la carta. All’amore per l’incertezza, per l’esitazione che vive i tempi lunghi e tragici del secolo scorso. All’amore soprattutto per la letteratura. Arte negli ultimi vent’anni divenuta vintage per eccellenza.
La colpa sarebbe, come ci spiega Jean-Noël Orengo nell’articolo intitolato L’Œuvre asociale. Notes sur la littérature à l’heure des siences sociales, soprattutto della sociologia e del suo attuale trionfo. “La stragrande maggioranza della produzione letteraria attuale è socializzata”: le opere letterarie “socializzate”, come per esempio quelle di Michel Houellebecq o di Annie Ernaux nella letteratura francese contemporanea, sarebbero quelle che “rispettano scrupolosamente le convenzioni linguistiche della società”.
Un tempo si sarebbe detto che prediligono la comunicazione all’espressione. Quindi una lingua uniforme e altamente leggibile, rispetto a quella abnorme e potenzialmente illeggibile delle grandi opere “desocializzanti” o “asociali” per esempio delle avanguardie del secolo scorso. L’argomento è interessante, anche se evita di prendere in conto il fatto che la lotta tra opere “sociali” e “asociali”, opere che vanno incontro al loro pubblico e opere che lo schiaffeggiano, è sempre esistita.
Non si tratta di una novità dei giorni nostri. Sta nella dinamica appunto della distanza sociale che non interessa soltanto le nostre vite, ma anche le nostre letture. Quale sia la distanza da mantenere rispetto agli altri non è forse una delle cose più difficili da apprendere fin da quando siamo piccoli? Perché allora dovrebbe essere facile conoscere la distanza che le opere devono avere rispetto a noi? O stabilire che le opere che non socializzano con noi siano per forza migliori delle altre?
Dietro questi presupposti si può dire che si nascondano ancora dei residui di una certa estetica romantica, che del resto bene si accordano al tema sentimentale del titolo della rivista di Pajak. Infatti quando l’autore di quest’articolo deve spiegarci cosa l’opera asociale abbia in più rispetto a quella sociale, si entra irrimediabilmente nella sfera del vago e perfino della confusa esaltazione. Tuttavia il problema toccato non resta meno ulcerante, perché tutti noi sappiamo essere vero che la letteratura è diventata un prodotto molto più uniforme di quanto non lo fosse in passato. E vintage come si diceva poco fa.
Sicuramente l’azione combinata di decenni d’intenso marketing editoriale, che sono andati a nozze con le idee ricevute su una comunicabilità sempre e ovunque condivisibile e con quelle di un’attualità onnipresente che liscia il mondo invece d’incresparlo ci hanno condotti fino a qui. A una svalutazione dell’aura letteraria, che è diventato un oggetto d’antiquariato. E a una sua lucidatura socializzante, che per esempio spinge a riempire le pagine dei romanzi contemporanei di dialoghi su dialoghi.
Tuttavia la grande e illeggibile opera asociale resta un monumento antiquato, perché non riconoscerlo? Lo vediamo in certe pesantezze ormai del tutto desuete dell’opera di Pasolini, letteraria e filmica, come di altri sperimentatori che per fortuna hanno sperimentato, ma che non per questo possiamo continuare a leggere come se nulla fosse. Senza cioè la delusione rispetto a qualcosa che è rimasto incollato alla loro epoca. E non alla nostra. Linguisticamente soprattutto, come un vestito che nessuno porterebbe più. Di fronte a questo possiamo reagire dicendo che la nostra epoca è una melma intrisa di buonismo e sociologia, nella misura in cui non riesce a sopportare tutto ciò che artisticamente esce da quei ristretti confini, oppure che la loro opera era così asociale da averci voltato le spalle, con una hybris che in fondo non è così eroica come ci piace raccontarci.
Ma tornando alla rivista, la bellissima nuova rivistona di carta che ci regala il genio di Pajak, insieme desueta e classicamente moderna, se ve la portate a casa fate attenzione. Non solo va contro l’attualità, ma anche contro ogni praticità: non si sa infatti dove metterla. Oggetto smisurato e per niente maneggevole, non entrerà in nessuno dei vostri scaffali. E per quello probabilmente vi sarà preziosa. Come l’amore, forse.