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Memoria e immaginazione / I tanti 25 aprile di Italo Calvino, partigiano

25 Aprile 2020

Ettore si reca insieme ai suoi compagni Bianco e Palmo a Valdivilla dove quel giorno scoprono un cippo dedicato ai partigiani caduti nello scontro nella località delle Langhe. In quel luogo hanno combattuto tutti e tre. Adesso, rientrati nella vita quotidiana dopo i venti mesi sulle colline a sparare a fascisti e tedeschi, non si sono trovati un lavoro normale come tutti gli altri; si sono messi invece a campare di traffici e estorsioni a ex fascisti. Bianco e Palmo appaiono emozionati e si muovono con scatti infantili, puntano il dito dappertutto e hanno “gli occhi piccoli e lustri”. Nei loro sguardi Ettore legge “il barbaro sentimento che quelli erano stati tempi felici e che il destino sarebbe stato ingiusto se non gliene riservava un altro pezzo prima di morire”.  Così comincia l’ottavo capitolo di La paga del sabato, il romanzo breve di Beppe Fenoglio pubblicato postumo nel 1969, scritto negli anni Cinquanta, dove si racconta il difficile dopoguerra di un ex partigiano, Ettore. Vent’anni dopo Italo Calvino racconterà un episodio simile, non più però nella finzione romanzesca ma nella realtà quotidiana. L’articolo dello scrittore ligure appare su “il Corriere della Sera” il 25 aprile del 1977, nel pieno di una crisi provocata dalle rivolte studentesche di quell’anno cominciate a Roma con gli indiani metropolitani, e proseguite a Bologna in marzo, culminate con l’uccisione da parte delle forze dell’ordine di uno studente universitario nella città emiliana, cui sono seguiti disordini, arresti e la chiusura di Radio Alice. L’articolo non parla di tutto questo. Ha un titolo redazionale, Miracolo che ritarda, che tuttavia dice bene il clima di quel momento, che lo scrittore ligure registra con la sua consueta asciuttezza e laconicità. Calvino riflette su quanto era accaduto nel 1945 e negli anni successivi dopo i venti anni di regime fascista e la durissima occupazione tedesca. Il tema che solleva nell’articolo è quello di un patto costituzionale che gli pare in quel momento possa modificare l’assetto del paese, così come la lotta di liberazione aveva portato alla Costituzione repubblicana. Nell’ultima parte dell’articolo racconta della sua partecipazione a una cerimonia simile a quella narrata da Fenoglio, anche lui partigiano, nel suo romanzo. Spiega di non essere mai stato un amante delle cerimonie commemorative, eppure di essere particolarmente contento d’aver partecipato a una manifestazione “in un paesino di montagna dove si metteva una lapide per due partigiani caduti che non l’avevano ancora avuta”. La descrive come un rito senza musica né bandiere con pochi compagni, quasi tutti dello stesso reparto, che s’erano avvisati a vicenda; uno di loro, scrive, “che ora insegna in un istituto tecnico aveva portato la sua classe”. Riassumendo il senso della cerimonia Calvino parla del pudore della retorica che caratterizza i veri partigiani, del fatto di come fosse ancora difficile far capire a chi non era stato partecipe della guerra partigiana il senso che aveva avuto per loro senza con questo apparire noiosi, e poi che i morti che loro ricordavano in quel paesino erano stati dei ragazzi pieni di allegria. Le stesse storie che avevano ricordato durante l’incontro riguardavano quei tempi terribili e angosciosi ed erano piene di allegria. 

 
 

Se c’è una cosa che unisce i due narratori, Fenoglio e Calvino, è proprio il pudore e la ritrosia, una forma di asciuttezza e austerità che si palesa nelle loro opere e che probabilmente ha che fare con la loro stessa origine regionale. Se qualcuno non ha ancora letto il gruppo di racconti che Fenoglio aveva radunato nel 1949 sotto l’intestazione di Racconti della guerra civile, mai usciti con quel titolo, non deve far altro che prendersi il volume curato da Luca Bufano, Tutti i racconti (Einaudi) e leggerli. Capirà cos’è la guerra combattuta da quegli allegri ragazzi, e per avere un altro punto di vista prendere in mano le storie partigiane di Calvino radunate in Ultimo viene il corvo (Oscar Mondadori) e anche il più noto romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno (Oscar Mondadori). Tutte opere narrative che di retorico hanno ben poco. Purtroppo Fenoglio è morto molto giovane nel 1963 a 41 anni e non ci ha lasciato, oltre alle pagine dei suoi romanzi di guerra e ai racconti partigiani, altri ricordi di quel periodo fuori dalla narrazione. Calvino invece ha avuto modo di ritornare su quel passato in alcuni testi pubblicati sui quotidiani in occasione della ricorrenza del 25 aprile. Chi non li conosce li trova ora nei volumi dei Meridiani delle sue opere curati da Claudio Milanini, Bruno Falcetto e Mario Barenghi, in particolare nel doppio volume dei Saggi. Oltre a Miracolo che ritarda (1977) c’è Il mio 25 aprile 1945 (1975) e Tante storie che abbiamo dimenticato (1985), e poi un racconto, il primo ad apparire nel 1974, Ricordo di una battaglia, che si legge in La strada di San Giovanni (Oscar Mondadori). Se Miracolo che ritarda è di taglio saggistico ed è insieme un pezzo di attualità politica nel modo proprio di Calvino, ovvero ragionato e riflessivo, Il mio 25 aprile è invece un piccolo atto di memoria, una ricostruzione della discesa con il suo gruppo partigiano, la brigata garibaldina cui apparteneva, dalle montagne e dalle colline alle spalle di Sanremo alla città liberata. Comincia con un incendio scoppiato in un bosco, poi ricorda le attese sulla fine imminente della guerra, subito dopo la liberazione della Francia, le delusioni seguite, e quindi l’ultimo accampamento prima della calata, il bombardamento della marina alleata su Sanremo, e infine le ragazze, i fiori e l’avvicinamento a casa con il pensiero dei suoi genitori.

 

La chiusa è molto indicativa. Vi spiega che nella sua memoria sono rimaste le cose del “prima” e non quelle del “dopo”, poiché, scrive, in quel momento “eravamo tutti presi da quello che avevamo vissuto, mentre il futuro non aveva ancora un volto, e non avremmo mai immaginato un futuro che avrebbe fatto sbiadire lentamente questi ricordi come è avvenuto in questi trent’anni”. Il finale contiene qualcosa di personale e insieme di collettivo, una riflessione che riguarda l’atto stesso del ricordare. Dieci anni dopo, in un clima sociale e politico totalmente diverso – nel 1975 è morto Pasolini e nel 1978 Aldo Moro, entrambi barbaramente uccisi – Calvino riprende in Tante storie che abbiamo dimenticato, il filo della propria memoria. L’articolo che appare su “La Repubblica”, ha un attacco narrativo: “Era una primavera piuttosto fredda”. Ruota ancora intorno alla questione del ricordo e della memoria. Fa un confronto tra ieri e oggi, tra il 1945 e quel 1985. Le prime cose che vengono in mente a Calvino in questo parallelo sono proprio quelle che a suo parere sono state dimenticate: l’importanza che aveva allora la famiglia in una situazione di lacerazioni feroci, poiché l’evento storico chiamato Resistenza fa parte prima di tutto di una storia privata, prima ancora che pubblica. Vista a distanza di quattro decenni quella lotta gli appare come “una somma di storie individuali” senza la quale la storia collettiva non esisterebbe, poiché quella che chiamiamo “storia collettiva” è composta di tante storie locali, separate, incomunicabili, diverse”. Un’osservazione che permette di capire come la narrativa di Calvino e quella di Fenoglio, non sono un’epopea retorica della Resistenza, bensì il racconto di storie individuali, strane, bizzarre e umane, come nel caso dello scrittore di Alba, fiabesche e immaginifiche nelle pagine del sanremese. L’epopea politica e collettiva è tale solo se vista da “grandi centri e a livello dei comandi militari e politici”, i soli, scrive Calvino, che potevano avere “una storia d’insieme”. Aggiunge poi due annotazioni. La prima riguarda le “tante morti silenziose non meno esemplari di altre e di cui nessuno si è più ricordato”; la seconda le “tante vite altrettanto silenziose di persone che durante la Resistenza avevano fatto magari cose importanti e all’indomani della Liberazione hanno ripreso la loro vita di prima, senza rivendicare alcun ruolo speciale, senza far parte della ufficialità commemorativa, senza più parlarne con nessuno”. Se lui fosse capace vorrebbe poter spiegare come questi casi “pochi o tanti che siano, sono i più rappresentativi dello spirito della Resistenza”.

 

L’articolo è ampio e tocca altre questioni importanti, tuttavia la questione principale è indicata nel finale: “La Resistenza si presta male alle interpretazioni dottrinarie, la sua realtà era di gente semplice e umile e oscura come gli italiani di allora; e tutte le personalità d’eccezione che ne hanno preso la guida potevano farlo solo se sapevano riconoscere che il suo valore era lì, terra terra”. Fa poi una certa impressione leggere oggi queste frasi in uno scrittore reputato così intellettuale e mentale come Calvino, reputato a torto lontano dalla vita reale; per parlarne della Resistenza usa l’espressione “gente semplice e umile”.   

Ricordo di una battaglia appare sul “Corriere della sera” il 25 aprile del 1974 ed è un vero e proprio racconto che nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto comparire in seguito in un libro intitolato Passaggi obbligati, una sorta di “esercizi di memoria”, come li ha definiti Esther Calvino nel presentare con il titolo La strada di San Giovanni nel 1990 ciò che resta di quel libro mai terminato. Del racconto, come attestano le note al Meridiano di Romanzi e racconti (volume III) esistono parti cassate che non erano entrate negli spazi fissati dal quotidiano; eppure a rileggerlo oggi così come è apparso in volume sembra perfetto. Si tratta di un racconto importante perché fissa in forma narrativa il rapporto che Calvino intrattiene con i ricordi, lui che aveva affermato di essere interessato solo a una autobiografia senza Io. L’esordio del testo dedicato allo scontro di Baiardo, cui il partigiano Santiago – suo nome di battaglia – ha partecipato il 10 marzo del 1945, è eloquente: “Non è vero che non ricordo più nulla, i ricordi sono ancora là, nascosti nel grigio gomitolo del cervello, nell’umido letto di sabbia che si deposita nel fondo del torrente dei pensieri…”. Sono immagini che mobilitano riferimenti letterari e non solo, immagini e metafore della memoria, che si mescolano ai ricordi stessi di quel giorno, in cui i distaccamenti partigiani garibaldini erano andati alla conquista del paese abbarbicato su un rilievo montagnoso difeso da un reparto di bersaglieri repubblichini.

 

 

A ripercorrerlo tutto s’arriva alla conclusione che per Calvino l’aspetto narrativo s’intreccia continuamente con quello che possiamo chiamare metanarrativo: ricordare e insieme ragionare sull’atto stesso del ricordare. Un pensiero assilla lo scrittore: per anni ha tenuto nel fondo della sua memoria il ricordo di quella battaglia e ora, che deve richiamare a sé le immagini e le sensazioni di quel momento, s’accorge che “la rete bucata della memoria trattiene certe cose e non altre”. Di più: non sa bene se così facendo sta distruggendo o invece salvando il passato, “il passato nascosto in un paese assediato”. I ricordi di quel conflitto a fuoco, e della seguente fuga sembrano ricoperti dalla “crosta sedimentata dei discorsi del dopo, che mettono ordine e spiegano tutto secondo la logica della storia passata”. Affiorano i ricordi vivi del sentiero che gira in basso, e poi il momento in cui viene ordinato dai comandanti ai partigiani di togliersi le scarpe per non fare rumore sul sentiero mentre s’accostano al paese presidiato dai fascisti. La questione che si pone in questo testo del 1974 è del tutto analoga a quella che si porrà Primo Levi oltre vent’anni dopo nel capitolo iniziale del suo ultimo libro, I sommersi e i salvati. Scrive l’autore di Se questo è un uomo: “la memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace”; e poco più avanti: “I ricordi che giacciono in noi non sono incisi su pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei”. Trovo che sia straordinario che due dei più importanti scrittori della memoria della letteratura italiana del XX secolo, e non solo, si pongano il problema del ricordare a partire dalla propria esperienza di partigiano, l’uno, e di deportato, l’altro, in due diversi ma simili contesti che riguardano l’evento della Seconda guerra mondiale. Una riflessione convergente che non ho qui spazio per approfondire come vorrei, ma che mi appare decisiva nel momento in cui si tratta di restituire, come hanno fatto entrambi, episodi della propria esperienza passata.

 

Calvino riflette nella forma metanarrativa che gli è propria, libero di ricreare in un racconto l’annodarsi e lo snodarsi dei ricordi, sottoponendo il tutto al processo della riflessione a posteriori, mentre Levi decostruisce l’idea stessa della testimonianza delle vittime con una sottigliezza e un’onestà intellettuale straordinaria. Entrambi appoggiano il loro argomentare e raccontare su quell’incerto piede di ballerina di cui parla, forse non a caso, Freud nel suo studio L’uomo Mosè e la religione monoteistica, ovvero sul risibile, eppure importantissimo punto di contatto con la realtà stessa. Credo che queste riflessioni di Calvino fatte in occasione del 25 aprile siano significative proprio perché condotte attraverso l’immaginazione letteraria, il medesimo strumento che mette in campo il testimone Primo Levi, non solo nel suo ultimo libro pubblicato in vita, ma anche in opere come La tregua e Il sistema periodico. Nell’ultima parte del suo racconto della battaglia di Baiardo l’ex partigiano, che quel giorno era andato a combattere l’esercito repubblichino, arriva a toccare il punto importante della sua riflessione sul ricordo del passato. Parla espressamente della “memoria della immaginazione” che, afferma, è la medesima che aveva quel giorno del 1944, e tira fuori dal gomitolo del cervello “cose che aveva immaginato a quel tempo”. Tutto ruota intorno a uno dei morti nell’assalto al paese, il partigiano Cardù, nominato con il suo solo cognome. L’immaginazione-ricordo non riguarda quello che è accaduto nel momento in cui Cardù protegge la ritirata dei compagni, e neppur l’attimo della sua morte, ma dopo, quando i bersaglieri repubblichini lo riconoscono tra i caduti nello scontro. Quando Calvino insieme agli altri partigiani è già fuggito via. 

 

Cardù era un repubblichino che aveva disertato ed era passato tra i partigiani: “il migliore dei loro era stato il migliore dei nostri, Cardù che quando li aveva lasciati tornava nei loro discorsi e pensieri e paure e leggende, Cardù che molti di loro avrebbero voluto imitare se ne avessero avuto coraggio, Cardù col segreto della sua forza nel sorriso spavaldo e tranquillo”. La memoria dell’immaginazione è la forza stessa della letteratura, come ci ha insegnato Beppe Fenoglio con i suoi racconti della guerra civile e con Una questione privata. Ed è a questa che fa ricorso lo stesso Primo Levi nel ricostruire cosa è stato il Lager per il giovane chimico torinese. La memoria dell’immaginazione appartiene alla letteratura, ma non solo a lei, anche alla scienza ad esempio, alla matematica, alla fisica, alla chimica. La differenza non da poco consiste nel fatto che lo scrittore usa la lingua naturale, ovvero lo strumento che utilizziamo per comunicare, per capirci a vicenda, e questo semplice fatto diventa decisivo. Calvino, il più illuminista degli scrittori italiani del Novecento – più di Sciascia e più di Levi – è però anche lo scrittore dello scacco, della possibilità del fallimento che confina anche con il suo contrario: la potenzialità quasi infinita del reale. Lo dice alla chiusa del racconto: “Tutto quello che ho scritto fin qui mi serve a capire che di quella mattina non ricordo più quasi niente, e ancora più pagine mi resterebbero da scrivere per dire la sera, la notte. La notte del morto nel paese nemico vegliato dai vivi che non sanno più chi è vivo e chi è morto. La notte di me che cerco nella montagna i compagni che mi dicano se ho vinto o se ho perso. La distanza che separa quella notte di allora da questa notte in cui scrivo. Il senso di tutto che appare e scompare”. Un finale che ci fa capire quanta memoria e quanta immaginazione serve per rendere presente e vivo il 25 aprile. Non solo il suo, ma ogni 25 aprile.  

 

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