Speciale

Borgosesia / Paesi e città

12 Aprile 2012

Sarebbe fin troppo ovvio candidare Varallo a rappresentante della Valsesia, ché la città è la gemma di cui la valle è il portagioie, col centro storico gremito di cose belle, i musei, le piazze, le vie così piccole che pare ci possa trascorrere solo un’aria leggera. Qui c’è il Sacro Monte e il fiore delle opere di Gaudenzio Ferrari e di Tanzio da Varallo, la Pinacoteca, il Museo di Storia Naturale, chiese punteggiate di affreschi fulgidi, e…

 

E quindi parlerò meglio di Borgosesia, dove son nato, città che fa il doppio di abitanti rispetto a Varallo (che ne ha 7000), e che, coi comuni limitrofi, compone un centro industriale un poco grigio e un poco anonimo. E anche ibrido: sta infatti a mezza via tra due distretti dalla fisionomia più nitida, quello biellese della lana, e quello delle valvole e delle rubinetterie che ha il suo centro d’attrazione nel Cusio; così Borgosesia ha un po’ dell’uno e un po’ dell’altro.

 

Sembrerebbe che la città ami scaricarsi delle proprie memorie, anche quando sono gloriose. Per dirne qualcuna, senza avere la pretesa di farne una gerarchia, ricordo che grazie a un borgosesiano, Alessandro Antongini, fondatore assieme ai fratelli della Manifatture Lane, i garibaldini poterono partire coi loro bei vapori a noleggio: l’industriale firmò infatti il 29 aprile 1861una cambiale da 510 mila lire a favore di Rubattino. A Borgosesia non lo sanno in troppi.

 

Una memoria un poco più resistente è quella legata alla guerra partigiana. Ma forse non così tanto. Ad ogni modo questa città è stata il centro delle attività di Cino Moscatelli, commissario politico e prima anima del movimento partigiano in Valsesia. A quattro mani con Pietro Secchia, nel 1958 scrisse un volumone per Einaudi, Il Monte Rosa è sceso a Milano, la Bibbia insomma della Resistenza di qui, il libro da cui parte e a cui tutto torna quando si parla di guerriglia contro i fascisti nella valle che corre al Monte Rosa, un documento, tra l’altro, fresco come un de bellocesariano. Non è perché alle elementari avessi per maestra la figlia di questo comandante (ha un rigore tutto preso dal padre; a volte, nel cortile, ci insegnava a cantare Fischia il vento) che do per impossibile non farsi affascinare dalle storie legate a quest’uomo: c’è chi gli attribuiva doti di ubiquità, chi sosteneva di vederlo sfrecciare su auto da corsa e farsi beffe dei fascisti; chi che si travestisse da prete; chi, lo dicevano i fascisti medesimi, che fosse giunto in Valsesia da Mosca, direttamente in aeroplano! Quel che è certo è che aveva una fantasia fragorosa ed era un fine conoscitore dell’animo umano, soprattutto quand’esso era semplice. Capì, lui che aveva fatto le scuole del partito in Unione Sovietica, che la religione avrebbe legato i suoi uomini; ne venne fuori un santino con la Preghiera dei garibaldini, o l’altare portatile per far la messa sui monti ribelli.

 

Ma non divago. Dirò dunque che Borgosesia è una città modesta, che fa poco conto delle proprie virtù. Dico che è colpa della ricchezza diffusa. C’è gente che sta bene; lavoro ce n’è abbastanza. Le industrie, tutto sommato, nonostante la crisi, hanno resistito.

Scorrendo l’intero calendario, la manifestazione più importante che si fa qui è quella del carnevale. Ha pure una caratteristica d’eccezione (risalente al 1854), che lo fa diverso da tutti gli altri carnevali: dura un giorno in più, abbracciando anche il mercoledì delle ceneri. Si chiama, quel giorno, Mercu Scûrot (cioè mercoledì in scuro). Migliaia di persone, vestite con frac, galla bianca gigante, mantella e cilindro – i cilindrati appunto – invadono il borgo fin dalla mattina, muniti di un allegro lutto e del cassû, un mestolo di legno col quale rovesciano in bocca litri di vino rosso. Formano un corteo funebre, fino a sera, che si mette per tutti i vicoli a piangere la morte del Carnevale, impersonato dalla maschera del borgo, ovvero il Peru Magunella.

 

Non dico che Borgosesia sia una città che dimentica, ma forse ha altro da fare. Ho l’impressione, a volte, che qui non si sia mai veramente persuasi di quello che si ha, a partire dal mal gusto con cui si ricevono le stagioni: quand’è autunno si vuole l’inverno, quand’è gennaio si brama la primavera, quand’è la primavera si cerca l’estate per andarsene via, al mare. Chi abita a Borgosesia generalmente la snobba: d’altronde del vecchio borgo poco è rimasto (per farci un parcheggio, da ultimo è venuto giù senza troppi clamori lo storico Teatro Sociale, dove, tra gli stucchi, fece le sue prime apparizioni la grande Dea Garbaccio) e quelle briciole son ben nascoste. Solo a volte si ha la sensazione, voltando un angolo, beneficiando di una certa luce, di scorgere qualcosa di bello e di imprevisto; ma subito, come dice Calvino del Giardino incantato, siamo presi dalla “sensazione che soltanto per una distrazione del destino ci sia concesso di stare in quel posto bellissimo”. Succede ogni tanto quando nevica, o quando il Parco Magni è tutto felice di colori autunnali, o quando si perdono i grandi minuti a fissare il Monfenera, la sua sagoma a panettone, le sue murate di roccia erta. Ma se ne va via subito.

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