Speciale

Il raid partigiano

2 Ottobre 2011

 

La guerra di resistenza contiene tutti gli elementi canonici del raid. Il Johnny di Fenoglio polemizza con la conquista dello spazio, che hanno in mente i comandanti comunisti, affermando: “Dobbiamo inapparire, agire e risparire, mai fermi, sempre ubiquitous, e pochi e mai in divisa”. In effetti l’occupazione territoriale ampia, con creazione di repubbliche partigiane, ha rappresentato sempre un grande problema dato che si esponeva alla riconquista da parte di forze nemiche preponderanti. Le azioni, perlomeno in una fase iniziale, dovevano essere leggere, anche se talvolta combinate. Ancor più decisivo questo movimento a doppia freccia per i Gap, combattenti anonimi, il cui motto è “colpire e sparire”, come sostiene Giovanni Pesce, uscendo dalla folla metropolitana e risciogliendosi subito in essa. Infliggere danno senza subirne è prova di destrezza che crea frustrazione e paura tra i nemici, ammirazione ed emulazione tra i simpatizzanti, fino a generare un alone mitico di imprendibilità. Così Roberto Battaglia racconta, per esempio, delle gesta già leggendarie del capitano Melis nelle sue terre natie ancor prima di una strutturazione, anche coscienziale, della Resistenza. E ci vuole lo sguardo di perpetuo adolescente di Pavese per cogliere l’elemento puer di quella “leggenda” narrata che pervade le azioni partigiane (“soltanto un ragazzo che di tutto si stupisce poteva viverci in mezzo senza stupore”). Le azioni partigiane sono decise poi da comandi sempre più coordinati, ma è vero che rimangono spesso tendenze autonome. Fenoglio ancora una volta coglie con precisione la spinta impellente, liberatrice e selvaggia del raid iniziatico, privo di mandante e compiuto nel cuore del pericolo (“in casa della repubblica”); sono le parole del più giovane di tutti, Bimbo, a sottolinearlo con sfida nei confronti di chi resta a presidiare un territorio controllato:

 

All’uscita del paese, s’imbatterono nella sentinella del presidio di Neive. Era della loro stessa divisione badogliana e domandò: - Dove andate, voi cinque di Mango?

Rispose Colonnello: - Andiamo a farci fottere dalla repubblica di Alba. Dov’è che bisogna cominciare ad aprir bene gli occhi?

- Da Treiso in avanti. Fino a Treiso è ancora casa nostra.

Quando si furono lontanati d’un venti passi, Bimbo si voltò e rinculando gridò alla sentinella: - Ehi, partigiano delle balle! Guarda noi e impara come si fa il vero partigiano! A far la guardia a Neive ti credi d’essere un partigiano? Fai un po’ come noi, brutto vigliacco, che la repubblica andiamo a trovarla a casa sua! Da questa parte, da questa parte si va a casa della repubblica! – e indicava con gesti pazzi la strada verso Treiso ed Alba.

 

Lo spazio del raider resistente è comunque paradossale: parte del territorio nemico, ma nel contempo casa propria dove trova appoggi e complicità. Anzi proprio la simbiosi con il territorio è un carattere fondante di molti partigiani ancor prima di diventarlo; essi amavano la montagna perché vi intravedevano un valore anche simbolico; così Livio Bianco, che ci morirà più tardi da alpinista, scrive che sulle vette “nel beato riposo che segue alla bella arrampicata, e nella purezza dell’altezza, avevan dato corso alle umane fantasie, e più forti e vivi avevan sentito vibrare nel cuore gli ideali di giustizia e libertà […]”. Il luogo del lavoro per molti agricoltori e allevatori diviene forzatamente, a causa dei nazisti che occupano i paesi e requisiscono case ed animali, luogo del conflitto, al quale si adeguano sdoppiandosi come nella Garfagnana raccontata da Roberto Battaglia. Al modo del raider indigeno raccontato da Fenimore Cooper, del vandeano o del vietcong, il partigiano non ama i luoghi chiusi (“A me non m’importa proprio niente che abbiamo perso Alba. Io ci stavo male in Alba. Avevo sempre paura di fare la fine del topo. […] io mi sento meglio sulla punta d’un bricco che dentro qualunque cittadella”), ma vive d’imboscate spostandosi nel territorio che conosce palmo a palmo e che lo protegge. Ciò a fronte della reale inferiorità militare; Zanzotto in FAIER illustra bene la simmetria spaziale delle forze in campo, tra i pochi rinserrati per il colpo e i molti, padroni delle strade, corazzati e ipertecnologici, ma pure ispiranti un senso d’orrore primordiale che li fa regredire addirittura al regno animale:

 

C’è sempre chi guarda, trepidando, dall’alto, in difesa, c’è sempre in basso, l’interminabile armata, la peste di fumo e di scoppi; il catalogo comincia ma non finisce mai. Dagli anfratti neri del passato sbucano il ragno, il millepiedi, lo scarafaggio, lo scorpione; la storia è immobile come un anello di pietra che lascia trapelare i viventi veleni, inimmaginabili mostri. Escono i minotauri di ferro, contenti di snaturarsi nel ferro da ogni memoria umana. Zampe, rostri, acidi mortali, ieri deliranti pennacchi, oggi neutri automi.

 

Le qualità del resistente rappresentano bene l’unione degli elementi mitici del raider. In primo luogo l’azione va pianificata: il luogo, le proprie forze e quelle del nemico sono oggetto di attenta valutazione, con ricerca di informazioni e verifica sul terreno. Alla preparazione appartiene anche l’armamento, specie per i Gap; la previsione della scena non confligge però con una certa creatività delle soluzioni. Si veda per esempio la costruzione artigianale, da parte di Pesce, della bomba che verrà trasportata da un finto soldato della Wermacht e lasciata in uno zaino su un convoglio militare:

 

Dalla bottiglia, con estrema cura, versiamo l’acido in una provetta di vetro; la provetta viene inguainata e chiusa da un involucro di gomma tanto teso da produrre, al tocco, una nota acuta. In posizione verticale, la provetta raccoglie nel fondo di vetro l’acido solforico; capovolta, il liquido corrosivo scende sulla gomma che si gonfia leggermente. Durante il primo esperimento, io controllo l’orologio e Spada cerca di tenere immobile la mano. Dobbiamo stabilire nel modo più esatto in quanto tempo l’acido solforico corroderà la gomma e provocherà l’esplosione. […] I nostri esperimenti, minuziosi e scrupolosi, accerteranno poi che la resistenza della gomma all’acido solforico è uniforme, se la qualità è buona. […] Gli incerti sono innumerevoli.

 

La preparazione lascia sempre dei margini all’incertezza, all’intuizione in corso d’opera che mobilita proprio la dinamica della guerra irregolare. Ciò nonostante non ci deve essere improvvisazione a priori; basti pensare che buona parte del romanzo di Tobino passa nella ricerca dei contatti con gli alleati per accogliere i lanci. Dopo molti giorni e un volo di ricognizione, la notte fatidica con meraviglia si vedono scendere dal cielo bidoni contenenti viveri, vestiario da montagna, tè e, finalmente, armi e munizioni. Vi è sempre una certa trepidazione nel possedere l’arma (“oh, la meraviglia del Parabello russo sottratto alla caserma del Secondo alpini! era il primo che noi borghesi vedevamo” Bianco, Guerra partigiana) e il linguaggio si fa immediatamente teso: “Poi c’erano dei pacchi schiacciati, triangolari, pesanti, i fucili mitragliatori, gli sten pieghevoli, che una volta addrizzati, messi in linea di sparo, assomigliavano a un disegno schematico, fatto di linee essenziali, per il resto composto di luce.”

L’abbigliamento è il primo segno distintivo all’occhio dell’eccezionalità del raider. Il carnevalesco che sovverte immediatamente l’ordine consueto poteva risultare intollerabile tanto per la mentalità dei militari professionisti che, più tardi, per quella del partito comunista (come nella presentazione dei partigiani in I ventitre giorni della città di Alba che scatenò la reprimenda di Togliatti). È corretto mettere insieme l’abbigliamento, il nome di battaglia e la riconoscibilità di campioni e gregari dello sport, perché sono accomunati dall’individualità post-iniziazione in contrasto alla massa anonima delle divise eterodirette in una guerra regolare (“L’abbigliamento dei partigiani, come ebbi poi agio di osservare a Domodossola, meriterebbe una descrizione accurata, se non altro per l’ingegnosità che ognuno impiegava a distinguersi”, F. Fortini, Sere in Valdossola). Ai segni esteriori, estrosi e narcisisti, corrisponde una serie di caratteri del raider lungo tale dominante antropologica. Per esempio le numerose e rocambolesche fughe dagli ospedali o dalle carceri dicono di un gusto per il travestimento, di una capacità di cogliere l’attimo e di farsi aiutare sul momento grazie alla spontaneità nel mettersi in relazione, che vanno di pari passo alla pianificazione di un tentativo che mobiliti le risorse dei compagni ancora liberi. Non c’è quasi narrazione partigiana che non riporti casi fortuiti, romanzeschi e pericolosi. Resta qualcosa del gioco e dell’avventura. Si può ricordare la giovanissima staffetta Binda del racconto di Calvino che, avvicinandosi al presidio partigiano, s’immagina i tedeschi in attesa stuzzicando i suoi stessi fantasmi, attore e pubblico della rappresentazione. Di nuovo insomma, insieme alla scelta morale, ancor prima che ideologica, così ben evidenziata nelle lettere dei condannati a morte, permane il valore iniziatico del raid a cui vanno incontro con passione, fantasia e paura i giovani della Resistenza.

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