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Döblin. Alexanderplatz centro del mondo

12 Marzo 2025

Il 14 agosto del 1943, a Santa Monica, insieme a numerosi esuli tedeschi che si erano per lo più avventurosamente salvati negli USA, Döblin volle festeggiare il suo 65° compleanno. Alla fine del ricevimento prese la parola per ricordare la sua peripezia con la fuga da Parigi dopo “le désastre” della drammatica disfatta di Dunkerque del 4 giugno 1940. Menzionò l’internamento nel campo di La Vernède e l’illuminazione interiore che ebbe nel vicino duomo di Mende, che significò per lui un autentico risveglio spirituale, un’esperienza mistica (come avvenne a un altro esule: Franz Werfel a Lourdes). Successivamente si convertì al cattolicesimo, come raccontò agli invitati alla festa, tra cui Bertolt Brecht che restò inorridito al punto da scriverne una delle sue graffianti poesie dal titolo Accadimento penoso che termina con acuminata ironia: «Cadde oscenamente in ginocchio e intonò/ senza vergogna un sfrontato inno ecclesiastico, offendendo i sentimenti irreligiosi dei suoi ascoltatori, tra cui / c’erano dei minori./ Da tre giorni/ non ho osato, presentarmi ai miei amici e discepoli, tanto/ mi vergogno». Non fu il solo a risultare scandalizzato dalla conversione comunicata pubblicamente. In Germania, un altro scrittore che aveva venerato la prosa di Döblin, Gottfried Benn, commentò con pari ironia: «Döblin, un grande avanguardista e Franz Biberkopf di Alexanderplatz, è diventato rigorosamente cattolico e annuncia Ora et Labora». Lo sferzante sarcasmo tradisce un amore deluso, ché Döblin fu considerato con ammirazione, già con le sue prime prove espressioniste, l’innovatore per eccellenza della scrittura tedesca. E finalmente il cambiamento partiva da Berlino, che si promuoveva così a capitale della letteratura tedesca. Non più la Monaco di Mann e di Wedekind, né la Vienna dei Hofmannsthal e Schnitzler – della Praga di Kafka non si sapeva ancora nulla. Dunque la Berlino dell’espressionismo, con la sua rivista «Der Sturm» di Herwath Walden e di Else Lasker-Schüler. Nel 1913 Döblin raggruppò vari racconti in una raccolta emblematica per la prosa espressionista: L’assassinio di un ranuncolo

Non si era mai scritto in un tedesco così intenso, in uno stile radicalmente rinnovatore. Era il tempo della frequentazione di Marinetti nel suo soggiorno berlinese. Alla giovanile adesione al credo futurista seguì presto la presa di distanza. Così Döblin scrive a Marinetti: «Curate il vostro futurismo. Io curo il mio döblinismo». Nella polemica s’inserì Guillaume Apollinaire che prese chiaramente partito: «Viva il döblinismo». Ma era uno scontro tra due concezioni dell’avanguardia. Döblin era uno scrittore moderno anche nel senso che partecipò attivamente al processo critico di chiarificazione dello statuto della nuova letteratura con saggi che riflettevano il suo impegno creativo. Al romanzo di Marinetti, Mafarka il futurista. Romanzo africano, replicò nel 1915 con I tre salti di Wang-Lun, tracciando un’audace prospettiva distopica, assai critica dell’individualismo, con in aggiunta una preziosa apertura alla cultura cinese, che già rivelava l’estrosa inquietezza della sua ricerca. Döblin dimostrava che si poteva essere universali anche scrivendo dal tavolino del Café des Westens a Kürfürstendamm 18. La guerra segnò per tutti una svolta. Döblin era nato da una famiglia ebraica assimilata nel 1878, impoveritasi con l’abbandono del padre scappato in America con una giovane collaboratrice della sartoria. La madre, ridotta in miseria, dovette abbandonare coi figli Stettino – l’attuale Szczecin alla foce polacca dell’Oder – per trasferirsi nel 1888 a Berlino, che divenne per sempre la città di Alfred, anche negli anni dell’esilio. Il giovane riuscì a riprendere gli studi, a laurearsi in psichiatria e a lavorare in diverse case di cura per malati di mente – tra cui quella di Berlin-Buch – e infine ad aprire uno studio medico a Berlino. 

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L’esperienza nei manicomi fu decisiva per comprendere la struttura precaria della mente, la provvisorietà della coscienza. Una instabilità che era anche quella della sua esistenza: una relazione con un primo figlio, poi un matrimonio con tre figli e altre storie. Disordine ed effervescenza attraversavano vita e opera: siamo nella Repubblica di Weimar. Nel 1914 Alfred parte volontario e come medico venne inserito nella sanità militare. I massacri gradualmente lo trasformano in un pacifista. Nel 1917 inneggia già alla Rivoluzione Russa. Si schiera per anni nel campo della sinistra, ma abbastanza presto il suo impegno politico si distanzia dal partito comunista in contrasto con la rigida osservanza stalinista: la ben nota tragedia che Benjamin chiamerà la “malinconia della sinistra”. Intanto lo scrittore conquista definitivamente la scena letteraria tedesca con Berlin Alexanderplatz, pubblicato nel 1929, un’opera-mondo: il romanzo di tutta Berlino. Döblin aveva letto, durante la scrittura, l’Ulysses di Joyce, assimilando quella nuova visione che rovesciava il romanzo ottocentesco. Quella sua invenzione si protrasse fino alla grandiosa versione filmica del romanzo da parte di Fassbinder, che recuperava magistralmente l’epopea sottoproletaria di Biberkopf. 

La vicenda è nota: Franz Biberkopf, dopo quattro anni di prigione, ne esce più che mai risoluto di filare dritto. Facile a dirsi. Lentamente viene inghiottito nella mala. Si dibatte per essere onesto, un uomo normale, un uomo qualunque, che per lui è già un ideale di palingenesi mistica. Non gli riesce e viene risucchiato nel vortice degli avvenimenti sempre più illegali, in una rapina perde un braccio; la sua donna, Mieze viene ammazzata dal suo socio malavitoso, il bel Reinhold. Ma è Franz a venir accusato dell’omicidio, almeno all’inizio. Finisce di nuovo in galera dove non voleva proprio tornare. E qui muore e risorge: «A quell’ora della notte muore Franz Biberkopf, ex trasportatore, ladro, pappone e omicida. C’è un altro sdraiato nel letto. L’altro ha gli stessi documenti di Franz, sembra Franz, ma in un altro mondo ha un nuovo nome. Questo, dunque, è stato il tramonto di Franz Biberkopf, che ho voluto descrivere dall’uscita di Franz dal penitenziario di Tegel fino alla sua fine nel manicomio di Buch, nell’inverno 1928-1929. Ora ci terrei ad aggiungere un resoconto delle prime ore e dei primi giorni di un uomo nuovo, che ha gli stessi documenti di Franz».

Uomo nuovo, ma non eroe, bensì un «aiuto-portiere in una fabbrica. Cos’è quindi il destino? […] Può piovere e grandinare e contro questo niente da fare, ma contro molte cose sì. Non griderò più come prima: il destino, il destino. Non bisogna venerarlo perché è destino, bisogna guardarlo in faccia, afferrarlo e annientarlo».

Lo scrittore accompagna – intervenendo e sollecitando la complicità del lettore – Franz nel suo inferno, prende congedo e poi lo fa rinascere con «gli stessi documenti». Il narratore è ancora il sovrano, il demiurgo, ma tutto sul filo dell’ironia, per cui si percepiscono gli ingredienti nel laboratorio della narrazione. Ma all’autore preme la materia prima: la lingua e usa la story per modellare una nuova comunicazione, quella della metropoli. In filigrana si può intravvedere un anelito mistico, appena appena accennato che subito scema in un sofferto, travolgente, gridato neorealismo. Franz è l’eroe, ovvero l’antieroe, un sottoproletario di una città violenta e insieme ipocrita. La grandiosità di Berlin Alexanderplatz, l’ombelico della metropoli prima della sua distruzione nella guerra, sta nella scrittura, incommensurabile, tutta espressionista, tutta al di là dell’espressionismo. Il romanzo va oltre, è l’invenzione della Neue Sachlichkeit, la “Nuova Oggettività”, insomma il neorealismo tedesco di quegli anni. La scrittura è imprendibile, sfuggente, dialetto e stile aulico, bollettini meteorologici, news – crollo a Praga, ventun cadaveri, il dirigibile Graf Zeppelin sorvola la Groenlandia –, nonché indicazioni di borsa, frammenti di giornale e dappertutto lo slang berlinese. Grande opera di traduzione di Giusi Drago con questa nuova versione, per cui la germanista si applica a inventarsi una lingua improbabile come era lo slang in fieri della Berlino degli anni Venti di un secolo fa. 

Era la Berlino delle enormi migrazioni da tutta la Germania e soprattutto dalla Slesia e dal distretto della ‘Grande Polonia’, tedesca fino al 1918 (polacchi erano nonni di Angela Merkel). Era la prima volta che la letteratura tedesca entrava dalla porta principale, e con forza, nella modernità. Nello stesso anno Thomas Mann riceveva il premio Nobel per I Buddenbrook e nel 1924 aveva pubblicato, con La montagna incantata, il meraviglioso epicedio del mondo dell’alta borghesia ottocentesca. Qui siamo in pieno traffico metropolitano, nel caos delle ore di punta, insomma in un’altra era geologica dal Berghof di Hans Castorp. E anche Musil, pur nella sua grandezza, era come l’Angelus Novus di Klee che guardava fisso il passato di quella straordinaria Vienna, segnata dalla morte di un impero, mentre ad Alex – come i berlinesi chiamano ancora oggi la piazza (stalinista-consumista, irriconoscibile da quella d’allora) – la vita pulsa nervosa, crudele, tragica, terribile, la nostra appunto. Romanzo quanto mai corale, Franz con la sua ragazza, la Mieze, e con la sua banda, è protagonista e insieme comparsa: «Terremoto, fulmini, tuoni, binari divelti, rimbombi, caligine, fumo, non si vede niente, tutto sparito, perduto, soffiato via, verso l’alto, di traverso». 

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Le voci sono gli urli di una società aggressiva, spietata, perché straripante di vitalità. Ancora le SA non sono prese sul serio. Ci vorrà la crisi del 1929, quando il romanzo era già pubblicato. E lui, il ribelle, il provocatore, diventa Accademico con Heinrich e Thomas Mann. Dura poco: nell’aprile del 1933 Döblin, capita l’antifona, fa una bella passeggiata tra boschi e campi nella Baviera meridionale e si trova in Svizzera, mentre il suo libro, odiatissimo dai nazisti, ha l’onore del rogo nella Opernplatz nella notte del 10 maggio 1933. Lunghi anni di esilio, ma con una sorprendente mutazione: Alfred diventa francese, e abbandona la Francia solo nel 1940 all’arrivo dei nazisti. Non smette di scrivere grandi opere: una trilogia sull’Amazzonia tra il 1935 e il 1937, in cui condanna, tracciando grandi scenari esotici (mai visitati), la colonizzazione, trovando un lettore d’eccezione, in Borges: «Cada libro suyo es un mundo aparte con su retórica y su vocabolario». Retorica e innovazione lessicale connotano anche la tetralogia Novembre 1918 in cui Döblin, da testimone e protagonista, racconta quel mese drammatico e fatale, interrogandosi perché non funzionò quella repubblica, più importata che voluta, avversata a morte dai potenti ambienti conservatori nell’amministrazione statale, nella scuola, nelle università e nell’esercito parzialmente ricostituito. Il romanzo era percorso da una memoria storica, nonché da quell’afflato palingenetico, mistico che costituiva anche la verità interiore dell’autore, che aveva perso nei moti del 1919 la sorella colpita a morte da una granata. 

Döblin torna in Germania nel 1945 come ufficiale francese, ma questo paese non gli piace più e sceglie la sua seconda patria, la Francia, dove scrive il suo ultimo romanzo, Amleto o la lunga nottata è passata, del 1956, che è un’interrogazione disperata sulla responsabilità della guerra, che i tedeschi non possono eludere. Ma elusero di leggerli, quei romanzi: il convertito aveva deluso la sinistra, «offendendo i suoi sentimenti irreligiosi», l’ufficiale francese aveva irritato la maggioranza. Nel 1957 muore in ospedale, a Emmendingen, al confine con la Francia, dove viene sepolto vicino al figlio Vincent, ucciso dai nazisti. La moglie si suiciderà poche settimane dopo la morte di lui. Il Gruppo 47 finalmente – a cominciare da Grass – lo ha riscoperto, considerandolo come l’unico maestro, scomodo sì, ma letterariamente geniale: colui che aveva saputo trasformare la Schundliteratur, la letteratura dei bassifondi, la letteratura poliziesca, criminale e triviale, in quella degli esperimenti e dei giochi linguistici: così si scrive la nuova letteratura tedesca.

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