L’Anticristo di Joseph Roth

8 Ottobre 2024

«Viva l’Anticroce! Heil das Antikreuz!» esclama paradossalmente Joseph Roth (1894-1939), l’estremo, disperato aedo della Mitteleuropa, ebreo di lingua tedesca, ribelle, ma anche di sentimenti asburgici, straordinario rievocatore della Finis Austriae con un capolavoro assoluto, La Marcia di Radetzky del 1932. Già nel gennaio 1933, immediatamente a ridosso dell’ascesa al potere dei nazisti, Roth, benché cittadino austriaco, lascia la Germania per la repulsione che prova per i nuovi sadici dominatori, brutali antisemiti e antidemocratici. Anni brevi dell’emigrazione, fino alla precoce morte, per alcolismo, a Parigi il 27 maggio 1939, ricoverato per un collasso nell’ospedale sbagliato, dopo aver appreso, con sgomento, che Ernst Toller si era suicidato a New York il 22 maggio. Nel 1934 pubblica il suo libro più strano, L’Anticristo, ora edito da Castelvecchi, con la prefazione di Claudio Magris, l’introduzione di Flavia Arzeni, perfettamente tradotto da Cristina Guarnieri.

È uno autentico zibaldone di visioni apocalittiche; più che un racconto una summa di allucinazioni profetiche, evocate con una lingua potente, arcaica, quella originata dalla bibbia luterana, che aveva già animato lo Zarathustra nietzschiano. Sono quadri spettrali, che raggiungono la massima condensazione espressiva nel capitolo Il dio di ferro. Roth comprende che la tragedia tedesca non si poteva interpretare solo con i parametri della crisi economica. La “Grande depressione” del 1929 con i sei milioni di disoccupati in Germania, che provocò l’aumento impressionante e rapido del partito nazista, era sicuramente una delle componenti del successo di Hitler, che aveva però ben altre profondità. Nemmeno la crisi politica del sistema parlamentare della Repubblica di Weimar, né il diffuso risentimento popolare – non ingiustificato – per le dure clausole del Trattato di Versailles spiegavano l’ascesa di Hitler al potere. D’altronde la vecchia élite militarista e i grandi commis dello stato guglielmino erano restati alle leve del comando dell’esercito e della dirigenza statale senza un’autentica adesione alla repubblica.

Il rogo del 10 maggio, dove si bruciarono anche i libri di Roth, per lo scrittore rappresentava un ulteriore, decisivo simbolo che confermava il demonismo di Hitler, della sua propaganda, con i suoi riti di massa e le sue notturne liturgie. Lo scrittore non solo comprende gli avvenimenti politici, ma ha una visione interiore della forza magica, infernale del Terzo Reich, quello dominato, sostenuto dal Dio di ferro, come annuncia un personaggio del suo libro sull’Anticristo che dà voce alla nuova Germania in una visionaria estasi fideistica: «Il nostro Dio è forte. È il Dio del potere. Egli ha fatto crescere il ferro. È un Dio di ferro. […] Noi non preghiamo – disse lui – combattiamo, questa è la nostra preghiera». È la scoperta di una dimensione spirituale, ancorché demonica, dell’irresistibile forza sprigionata dal nazismo con le sue cerimonie di massa, le sue bandiere, gagliardetti, cortei, bande, inni, fiaccolate, roghi notturni e svastiche, croci uncinate. Lo scrittore descrive, in un crescendo allucinato, l’immagine apparentemente stravagante, grottesca, in fondo ridicola, eppure sacrilega e demoniaca, della croce nazista coi suoi ‘uncini’, che rimanda a un inquietante significato dissacrante, allusivo a una contro-spiritualità demoniaca, a una satanica contro-iniziazione misterica. Roth è uno dei primi a scoprire, a percepire il carattere irreligioso, anti-religioso, assolutamente sacrilego della svastica nazista, trafugata alla tradizione solare indiana (e universale): 

«Vidi un uomo davanti alla sua porta che portava sul copricapo, sulla fronte e sul braccio destro il segno della croce. Ma non era la solita croce, bensì una croce che era spezzata e piegata, a destra e a sinistra, all’estremità superiore e inferiore. Era come se l’uomo avesse intenzionalmente dapprima spezzato il santo segno della croce e poi dimenticato come ricomporlo correttamente. Sembrava anche che la croce stessa soffrisse, dal momento che era così incurvata e flessa. E dato che avevo compassione dell’uomo e anche della croce, dissi “Caro Signore, Lei non ha la croce nel modo giusto. Mi permette di mostrarLe come è fatta una croce?”.

“No” disse lui “la mia croce è quella giusta. In questo segno vinceremo e non in quello che intende Lei”.

“Si sbaglia” replicai. 

Allora l’uomo mi colpì sulla testa, sicché mi accasciai e per un po’ giacqui a terra come morto». 

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Il carattere neopagano e aggressivo della Weltanschauung (termine amato dai nazisti) viene accentuato dal simbolo della croce uncinata, che è il segno del movimento, ma ancor di più l’icona sacrilega che connota, nell’empito visionario di Roth, la discesa dell’Anticristo che avviene nel momento dell’oblio del sacro, della smemoratezza che investe per lo scrittore austriaco tutta la società contemporanea, dall’America capitalista all’Urss sovietica, come pure dal giornalismo alla cinematografia. Si possono nutrire fondati dubbi sul carattere diabolico della settima arte, ma non sulla condanna e sull’analisi del Terzo Reich con i suoi empi e lugubri simboli dell’Anticristo, la figura anti-messianica, che per Roth, indica il tramonto del senso del sacro. A proposito del saggio paradossale, allucinato, apocalittico e sublime di Roth, Magris osserva, nella prefazione, che per lo scrittore il sacro è: «la semplicità della vita, del vino e del pane che egli – nella sua azzardata, talora mistificatrice ma geniale simbiosi fra ebraismo e cattolicesimo – trova a pari titolo in una piccola amata chiesa e in una piccola e ancor più amata osteria». Di fronte alla semplice devozione ebraico-cristiana, quella del neopaganesimo nazista per Roth è segnatamente contro Cristo, secondo la sua penetrante analisi del complesso atteggiamento nazista, connotato non da mancanza di fede, dall’indifferentismo come nella società capitalistica, bensì da un sacrilego fanatismo religioso. L’anti-illuminismo di matrice romantica si è involgarito in una rozza demagogia che inneggia a presunte ataviche memorie ancestrali, a un supposto inconscio collettivo, a un preteso culto degli istinti tribali, a una improbabile purità razziale: «Non avevo mai visto un Paese in cui la gente nello stesso istante prega Dio e lo insulta. E in cui non solo non seguono il Figlio di Dio, ma lo odiano anche. E non solo lo odiano, ma finanche lo disprezzano […]. Dove Dio viene confuso o misconosciuto, può ancora rivelarsi. Ma dove con un unico respiro Lo si impreca e Lo si prega, si rivela solo l’Anticristo».

Roth è sempre quel raffinato narratore che aveva saputo scavare nelle pieghe più riposte del piccolo borghese mitteleuropeo, raffigurandone la modestia spirituale, l’ipocrisia sociale, l’altezzosa arroganza verso i subalterni, la sadica crudeltà verso i deboli e i diversi. Ed è proprio nella figura del piccolo borghese che Roth, nel suo saggio visionario, scopre le sembianze dell’Anticristo che sono quelle dei tanti mediocri capi nazisti, come quelli raffigurati da Klaus Mann in Mephisto. Gerarchi di seguaci invasati da una mania fanatica, come mostrava l’energia sprigionata dai discorsi del nuovo Führer, fino a pochi anni prima l’‘imbianchino” di Braunau, il modesto “caporale austriaco”. Ciò che solo Roth aveva compreso era la natura veramente diabolica dell’accecamento delle masse di fronte al Führer, una figura dell’Anticristo. Quella straordinaria influenza demonica emanata da Hitler, sgorgava da abissi misteriosi. Solo nel trionfo dell’irrazionale che aveva travolto e offuscato le menti della maggioranza dei tedeschi si comprende il successo così repentino, altrimenti inspiegabile a ogni ragionamento, del Führer e dei gerarchi. Se si leggono le loro biografie si rimane sconcertati e sgomenti della pochezza umana, dell’alterigia e dell’albagia dei capi nazisti. La loro affermazione si spiega solo con l’ottenebramento delle coscienze dell’élite e del popolo. Tramontata era la Germania quale nazione dei “Dichter und Denker”, dei poeti, scrittori, pensatori e scienziati. Un abbaglio collettivo aveva oscurato la capacità di giudizio e di valutazione dei ceti dirigenti, dei quadri direttivi dei partiti e dei sindacati, dei responsabili dell’amministrazione e delle forze armate, una demonica fascinazione (quasi) collettiva che fece sottovalutare il pericolo con un disorientamento generalizzato. L’ascesa al potere di Hitler, delle camicie brune e nere fu vissuto dai più come un destino irreversibile, che si apriva a un Reich millenario. Per Roth solo una possente presenza demoniaca poteva porre in atto un tale stravolgimento delle coscienze: «La nostra cecità è una cecità da cui si può essere colpiti solo per mano dell’Anticristo e di cui all’inizio abbiamo detto che ci è stata predestinata prima della fine dei tempi. È cecità infernale dacché, anche se siamo accecati, crediamo di vedere. Siamo in effetti più “accecati” che “ciechi”».

Il Reich millenario si rivelò sì infernale, ma di una durata limitata a dodici anni tremendi, tragici, che segnarono per sempre (o almeno molto a lungo) il destino della Germania e il tramonto dell’Occidente. Per Roth nella sua visione apocalittica l’intero mondo appariva travolto dalle forze diaboliche dell’Anticristo. La lettura di questo stranissimo testo, inquietante, spropositato nelle analisi, resta un immane, michelangelesco torso solitario nella letteratura del Primo Novecento. Un documento che come un detrito morenico permane quale prova di trasmutazioni spaventose con le tremende anticipazioni di spettrali catastrofi. Pochi nel 1934 – nel suo anno di pubblicazione – avevano previsto l’enorme tragedia che sarebbe avvenuta con la guerra mondiale, le rovinose distruzioni, la morte violenta di milioni di esseri umani, i lager, le camere a gas, i bombardamenti a tappeto, le macerie materiali e spirituali. Da questa prospettiva l’Anticristo di Roth acquista il significato cui rimanda l’esergo del saggio: «Ho scritto questo libro come un monito e un ammonimento, affinché l’Anticristo venga riconosciuto, in tutte le forme in cui si mostra». In questo senso il libro fa parte di un genere a sé come letteratura profetica, come una visione che trascende persino il suo autore – si è accennato ingenerosamente ai deliri dell’alcol –, ma il fatto è che Roth fu tra i pochi che ebbero l’intuizione tremenda dell’apocalisse nazista con tutti i suoi furori infuocati inumani e distruttivi. In quel dodicennio la Germania aveva bruciato se stessa. Ed è ancora alla ricerca di sé stessa. E sappiamo quanto ciò sia difficile e ora più che mai incerto di fronte a minacciosi, rumorosi revival, sempre più estesi, come aveva previsto Thomas Bernhard (1931-1989) in Piazza degli Eroi nel 1988. 

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