Selge: finalmente ci hai trovati!

14 Luglio 2024

Per i tedeschi Edgar Selge è noto come il Commissario Tauber della serie televisiva “Polizeiruf 110” (il nostro “112 Polizia”), così come Luca Zingaretti e il Commissario Montalbano. Poi a un certo punto della vita, il grande attore ‘caratterista’ ha avvertito la necessità di raccontare di sé e della sua famiglia, scrivendo un memoir, Finalmente ci hai trovato (tr. di Angela Ricci, Carbonio editore). Il racconto si legge d’un fiato per la straordinaria capacità di Selge di rievocare l’atmosfera, ancora abbastanza soffocante, della società tedesca dei primi anni Sessanta. Il testo costituisce un documento eloquente per comprendere la realtà quotidiana della Germania di quel tempo che si riverbera fino ad oggi.

Il racconto conferma l’osservazione che opere cosiddette minori illuminano al meglio la trama storica, quella impalpabile della quotidianità. Selge è nato nel 1948 a Herford in Vestfalia, una cittadina della Germania Occidentale, ma la famiglia proviene da Königsberg, la nonna paterna, che si era rifiutata di abbandonare la capitale della Prussia Orientale (oggi la russa Kaliningrad), morì bruciata in un bombardamento britannico. Il trasferimento a Ovest della famiglia è una tessera dell’esodo di proporzioni bibliche di milioni di tedeschi dell’Est. Il padre, pure lui Edgar, un Doktor Juris, riesce dopo varie peripezie a diventare direttore di un carcere minorile della cittadina. Edgar – l’autore – racconta dei familiari, tutti appassionati di musica. Il padre suona il piano, la madre il violino (male), dei due fratelli maggiori, Werner diventa un talentuoso violoncellista, l’altro Martin un medievista, un altro fratello era morto da piccolo giocando con una granata inesplosa.

Il memoir è anche una sorta di “lettera al padre”: Edgar senior occupa la scena con il suo carattere autoritario fino alla brutalità. Dietro l’idilliaca immagine di famiglia da Mulino Bianco, impreziosita dalla quotidiana pratica musicale, padre e madre «vogliono dimostrare che la guerra e i cosiddetti ‘brutti tempi’ sono ormai alle spalle. Qui tutto deve brillare. I volti di tutti devono sprizzare ottimismo. È un vero e proprio lavoro, e ha a che fare più con la fatica che con il piacere. La musica è sforzo, duro allenamento, a volte persino umiliazione». I genitori nascondono il passato, i ‘brutti tempi’ quando la Germania era un’immensa rovina materiale e ancor più morale e spirituale. Ma dall’osservatorio del piccolo Edgar – il narratore ha per gran parte del racconto 13 anni – la prospettiva è assai critica: già si percepiscono le tensioni sociali culminate nella contestazione giovanile, nel movimento studentesco, e poi nel terrorismo. 

Il padre non solo ha una personalità autoritaria, spesso ottusa, ma usa sistemi violenti nell’educazioni. Per il ragazzo «la paura era la mia seconda pelle», ma tutto è celato da una irreprensibile patina di buona educazione, cultura e sublimato dai concerti domenicali organizzati dal padre, cui invita, come premio, un’ottantina di detenuti nel miglior spirito del carcere come rieducazione, redenzione. Per i concerti a casa i giovani sono tenuti ad ascoltare una performance musicale cui viene invitato sempre un violinista professionista, ché la mamma non è all’altezza dell’abilità del padre pianista. I giovani della casa di correzione faticano alacremente per la famiglia del direttore: coltivano l’orto, provvedendo i Selge di frutta e verdura, inoltre hanno fabbricato i mobili di casa e per gli intrattenimenti musicali trasportano le numerose sedie e poi fanno ordine.

Questo mondo disciplinatissimo è dominato da un’estrema, sotterranea tensione, che a mo’ di fiume carsico affiora per sprofondare di nuovo lasciando una stria di inquietudine, come certi morbosi avvicinamenti del padre all’adolescente confuso, disorientato, che si confida coi due fratelli maggiori, che rivelano di essere stati anche loro oggetto di queste scabrose attenzioni. Il ragazzo vive con dolore il rapporto coi genitori, che sono le persone che ama di più. Ma non è facile scoprire e amare un padre ancora nazista. Nel flusso apparentemente quieto della quotidianità si spalancano improvvisamente squarci dell’orrore: affiora – per subito scomparire – il passato, dall’entusiastica adesione dei genitori al Terzo Reich al sogno della Grande Germania.

n
Edgar Selge.

Nel suo scavo della memoria il giovane si avvede che i genitori tacevano ostinatamente l’adesione al nazionalsocialismo. Eppure anche loro erano stati affascinati, inebriati dal fallace e sinistro mito della potenza tedesca, della germanica superiorità della razza ariana, del culto del Führer. In rari momenti conviviali, il padre e la madre svelano un risentimento contro gli ebrei, i quali con il loro mutuo soccorso si sarebbero accaparrati le migliori posizioni sociali. Durante una sofferta contrapposizione coi figli la madre afferma, con il più schietto antisemitismo, che prima dell’ascesa di Hitler: «Gli ebrei all’epoca erano penetrati ovunque. Nei teatri, all’opera, nelle sale da concerto, nelle università, nei ristoranti più raffinati, nei giornali in politica… Ah, ovunque ci si voltasse, gli ebrei erano già arrivati prima. Erano dappertutto».

L’ingenuità affiora nello sguardo sconcertato della madre la cui difesa consiste nell’aver ignorato ciò che accadeva nei lager: «Non è possibile che tutto ciò con cui sono stata cresciuta fosse sbagliato. E ciò che ne è venuto fuori, Auschwitz, Stutthof, Dachau, Buchenwald… tutto questo non ha niente a che fare con me». Ben diversa la reazione del padre. Al culmine del contrasto generazionale, viene provocato dal figlio maggiore: «Sono nato nel 1942, se te lo sei dimenticato, proprio quando le fabbriche di morte cominciavano a lavorare a pieno ritmo». La replica, agghiacciante, rivela tutta la profondità della tragedia tedesca, che ancora brucia devastante, rabbiosa: «Davvero non so perché ti abbiamo fatto nascere». Il passato non è passato, è sufficiente allontanare un po’ la vernice di perbenismo e subito affiorano i demoni solo apparentemente rimossi.

Il ragazzino – la voce parlante del racconto – si sente partecipe del dramma che ancora coinvolge il padre. Ne intuisce l’intima tragicità, ancorché con crescente distacco: «Stranamente provo una certa compassione per mio padre. Capisco che si sente con le spalle al muro […]. Non vuole passare per nazista, ma le sue strutture di pensiero e lessicali si sono formate in quel periodo, e non è facile costruirsi delle alternative. Del movimento popolare che un tempo lo sosteneva non c’è più nulla. Gli sono rimasti addosso solo gli urrà, l’ebbrezza, l’esaltazione, la vuota passione per l’essere tedesco, le manie di grandezza, l’odio per gli ebrei e per i ‘deviati’, e soprattutto i lager». Sono le braci non ancora smorzate nella immensa provincia tedesca, nella Germania ‘segreta’ dei romantici Dörfer und Wälder, dei villaggi e boschi, dei paesi e delle cittadine, della musica, della poesia, della Kultur. Un mostro che si reputava esorcizzato, debellato ma che si sta risvegliando.

Tutto il romanticismo assai kitsch del teutonico Dorf, del paesino rispettoso, ordinato, si svela essere un intreccio di filisteismo, ancora intriso di comportamenti e mentalità radicati nel Terzo Reich. È che il distacco dal passato nazista cominciò solo con il famoso processo di Francoforte a ventidue SS del Lager di Auschwitz dal 1963 al 1965, che segnò una data di sperabile non ritorno nella storia recente tedesca. L’autore era allora un ragazzo, sprovveduto, mentre i fratelli maggiori già avvertivano il cambiamento ideologico e culturale, ma ciò che avvince è l’atmosfera musicale-provinciale di questa Germania apparentemente ancora immobile alla vigilia delle grandi trasformazioni sociali del Sessantotto. Inquietante è questo straordinario lavoro di rivisitazione attenta dell’infanzia e dell’adolescenza compiuto con eccezionale accuratezza da Selge ormai settantenne dopo una vita intensa di viaggi e di lavoro come attore affermato che a un certo punto avverte la necessità di fare i conti con il passato. È un’esperienza dolorosa per un tedesco (ma anche per un italiano): il lungo viaggio nell’inferno della memoria risuscita fantasmi, spettri, inconfessate colpe e inammissibili connivenze.

In un sogno Edgar rivede i propri genitori, ormai scomparsi; la madre lo apostrofa con quello che è il titolo del memoir: Che bello! Finalmente ci hai trovato. Ritrovamento che significa superamento. Nella sua vita Selge ha fondato “BASTA”, un’associazione a favore dei malati di mente, in particolare degli schizofrenici. Con questo impegno l’autore esprime la sua sensibilità di attore, che per mestiere, consapevolmente, cambia sempre personalità, percependo così il disagio dei malati. Il memoir è una variazione sul tema delle maschere che si portano nella vita alla ricerca del volto autentico, che probabilmente l’attore riesce a intuire proprio nella scrittura di questa memorabile ricerca del tempo perduto.

Da ragazzo una volta era entrato in libreria per rubare l’opera di Proust, quasi un simbolo di un percorso, che attraversava la selva oscura dell’infanzia fino ai bagliori di una coscienza ritrovata nella trama dolorosa dei ricordi. In questo senso il racconto si trasforma nel più tedesco dei generi letterari, il Bildungsroman, romanzo di formazione, che è la narrazione della vera nascita dell’io che si stacca – con dolore – dalla dimensione pre-personale, ancora attaccata al mondo ancestrale, da cui si emancipa nella consapevolezza che si lascia un mondo favoloso e maligno, che prima e poi si deve di nuovo accettare, attraversare e redimere con il racconto.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO
h
TAGGED: Edgar Selge

Bollo blu Dona (Mobile)