Il momento di Jenny Erpenbeck

19 Dicembre 2024

Un centro sociale dell’Arci romana al Pigneto, è intitolato a Sparwasser, quel calciatore, eroe nazionale, icona del socialismo realizzato, che al 77° della partita Germania Democratica (DDR) – Germania Federale (BRD) del 22 giugno 1974 segnò il gol della vittoria per la DDR, scatenando un’ondata di entusiasmo al di là del Muro. Non credo che Jenny Erpenbeck (1967) sappia nulla del circolo romano e forse neppure del mitico gol eppure nella sua opera quella società tedesco-orientale rivive, risuscita continuamente come confermano i suoi romanzi, tra cui l’ultimo, Kairos (Sellerio), che è al tempo stesso la sintesi e il superamento della sua scrittura. Il romanzo è anche la sua storia ed è una storia esemplarmente tedesca. Il nonno, Fritz Erpenbeck (1897-1975), militante comunista, attore e scrittore, abbandona la Germania nazista e si rifugia con la moglie Hedda Zinner (1905-1994), anche lei comunista, attrice e scrittrice, a Mosca, nella patria del socialismo. 

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Non devono essere stati anni facili – tutte queste notizie trapelano dai vari romanzi di Erpenbeck, che sono pervasi di elementi autobiografici. Negli anni del conflitto la coppia è a Ufa nella Baschiria, appartenente al distretto del Volga, nella regione degli Urali, ricca di fiumi e con migliaia di laghi, un po’ come la Marca del Brandenburgo, che torna di continuo nei suoi racconti e romanzi. A Ufa nel 1942 nacque John, il padre di Jenny, che è uno scienziato e un filosofo della scienza e infine si è affermato anche come poeta, scrittore, proprio come i genitori, così come Jenny, mentre la madre Doris Galuhn originaria della Prussia Orientale è stata una rinomata arabista, traduttrice soprattutto della letteratura egiziana contemporanea. Insomma una famiglia con notevoli interessi intellettuali, letterari e politici. Fritz il 30 aprile 1945 era già a Berlino (pochi giorni prima della fine del Terzo Reich) con il famoso “Gruppo Ulbricht”, formato da convinti comunisti (stalinisti), che costituirono i quadri dirigenti del nuovo stato, la DDR (fondata nel 1949). Oltre la vocazione artistica e scientifica, vi era una robusta radice socialista, che non temeva il confronto con l’Occidente come si sa capitalistico, imperialistico. E nelle opere di Jenny Erpenbeck la polemica verso quella società non tende a esaurirsi come conferma il suo primo successo, Voci del verbo andare del 2015 (Sellerio 2016 – tradotto come le altre opere di Jenny da Ada Vigliani, grandiosa traduttrice) sulla crisi degli emigranti, arrivati (si parla di due milioni in pochi mesi) improvvisamente in Germania in virtù delle ardite aperture della Merkel, che trovarono una società impreparata (e quando lo è preparata, una società?). Il protagonista Richard, è un professore emerito di orientalistica, alquanto intristito, che non ci si raccapezza con il nuovo sistema politico-sociale. Il libro divenne immediatamente un successo, celebrato come «romanzo d’attualità», «romanzo del momento». 

La tematica è chiaramente politica, ma anche una sorta di “romanzo di formazione”, ma che avviene questa volta in vecchiaia: il protagonista si apre lentamente ai nuovi arrivati, in maggioranza africani, che devono combattere con la solita burocrazia, che sa creare solo circoli viziosi, che anche noi ben conosciamo. Ma al di là della scottante problematica scorre un filo rosso, che unisce le varie situazioni, i diversi incontri, nonché i ritorni continui del professore alla sua casa nel Brandenburgo, pochi chilometri da Berlino, che è anche a un’infinità di lontananze mentali dalla capitale inquieta ed ‘eccentrica’, senza centro o con una pluralità di centri gravitazionali a oriente e occidente. Del 2008 è un precedente romanzo di Erpenbeck, questa volta tutto nella ‘Marca’: infatti si svolge in riva a uno dei laghi, di origine morenica, così numerosi nel Brandenburgo. Il titolo tedesco Heimsuchung è già una pietra d’inciampo: il termine indica calamità, infestazione, ma anche la visitazione evangelica: infatti la visita di Maria a Elisabetta è la Heimsuchung , nel senso della drammatica e accettata consapevolezza della prossima nascita di Giovanni e del Messia, ovvero la coscienza di due tragedie necessarie per la realizzazione dell’annuncio, con la decapitazione di Giovanni e la croce di Gesù. Quindi i traduttori hanno avuto i loro problemi; Ada Vigliani li risolve con una felice metafora che mantiene quella tensione espressa da Heim, casa, e suchen cercare, con Di passaggio (Sellerio 2019). 

La protagonista è una casa con la terra limitrofa fino al lago: una proprietà che passa di mano in mano, di famiglia in famiglia. Si tratta di una specola per contemplare, raffigurare, esplorare, soffrire la storia tedesca, ché quella storia è storia di dolore con il culmine insuperato dei destini della famiglia ebrea. Erpenbeck ha trovato documenti da tutte due le parti: l’inventario dei proprietari ebrei e la lista dei compratori ariani, quelli della razza nobile e pura che non disdegnarono di sfruttare e profittare ignobilmente sulla sciagura di persone costrette a svendere nell’illusione di poter ancora emigrare. Erpenbeck ha anche trovato lettere commoventi di Doris, la bambina ebrea, la nipotina dei proprietari: tutti finirono ammazzati in un Lager. Sia gli atti burocratici del Senato berlinesi a proposito degli emigranti sia questa altra documentazione, ricostruita con impegnative ricerche, gettano una luce sull’officina della Erpenbeck che lavora in archivio con precisione e puntualità germanica, in un paese dove – a quanto pare – gli archivi funzionano. E questa tecnica, che è risultanza mutuata dalle scritture della Nuova Oggettività (Anni Trenta), viene continuamente impiegata dalla scrittrice che mescola nella sua tavolozza ben altri elementi come le costanti, sotterranee risonanze dall’opera di Christa Wolf –della sua fase neoromantica di Trame d’infanzia e Nessun luogo. Da nessuna parte. In tutti i suoi romanzi si possono raccogliere echi e suggestioni da E.T.A. Hoffmann e da Stifter soprattutto in Di passaggio.

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I documenti – ad esempio alla fine del romanzo l’elenco dei prezzi per l’abbattimento della casa – temperano le languide atmosfere lacustri e boschive con quei tanti nomi di piante (ignote al cittadino). È che la casa sul lago era un luogo della memoria, era là che la nonna scriveva romanzi, nonché nella casa, nella rimessa della barca o in riva al lago avvengono le prime scoperte ed emozioni della giovane (che potrebbe essere la traccia dell’autrice), ma niente adagiarsi sull’idillio. Siamo in Germania, terra martoriata, in anni di dolore. Ecco come in un film: il destino degli ebrei, lo stupro da parte di un maggiore dell’Armata Rossa (ma con una descrizione quasi delicata) e poi l’entrata in scena dell’architetto che aveva acquistato dagli ebrei e che se ne fugge a Ovest per evitare l’esproprio e infine l’arrivo dei capitalisti, dell’agenzia immobiliare e della ditta demolizione. La giovane appena cresciuta lascia la casa sul lago per Berlino. E qui possiamo passare all’altro romanzo senza soluzione di continuità: Kairos. Katharina ha diciannove anni e vive con la madre a Berlino, ovviamente a Berlino Est, quella ben protetta dal Muro e dagli agenti della Stasi. E in autobus (i mezzi pubblici funzionano e le auto sono rare) incontra il suo Hans, un intellettuale – per giunta sposato con un figlio. Lui lavora alla radio, ha un programma culturale, e scrive: siamo nel 1986. Frequenta scrittori da Heiner Müller a Stephan Hermlin. Venera Brecht ed è un vero intellettuale organico della DDR, gode di privilegi – ovvero di una casa e ha il permesso di viaggiare a Ovest. È un uomo di cinquant’anni, ha ancora sperimentato da ragazzino il Terzo Reich, godendo di grandi privilegi: la requisizione di una bella casa a Poznan, nella Polonia germanizzata e brutalmente nazificata. Poi il crollo. Emblematica la scena del padre che gli strappa di dosso la camicia bruna della Hitlerjugend e la getta via. Ma il passato non si butta via così facilmente. 

Si fugge a Ovest e qui Hans ha il suo percorso di resipiscenza ed è uno dei pochi tedeschi (ce ne furono, tra cui Wolf Biermann e il padre di Angela Merkel) che emigra nella DDR, la patria del socialismo, quella che avrebbe dovuto essere la cellula germinale di un’altra Germania, umanistica, giusta, sociale. Il rapporto tra Hans e Katharina è una delle storie romantiche della letteratura tedesca, eppure a un certo punto avviene una crisi dolorosa e Hans rivela la sua natura sadica, con un intento pedagogico, possessivo, crudele, che assomiglia ai protocolli di rieducazione socialista, con interrogatori infiniti. L’uomo maturo incarna il potere, è la metafora vivente di quel soffocante dominio che Hans aveva ben assorbito in decenni di regime poliziesco e che inoltre affondava le radici nella famiglia nazista. Un passato che non passa, ma che si trasforma assumendo nuove forme di controllo e di possesso. Alla fine, quando Hans è ormai morto, dopo anni Katharina viene a sapere che lui, anche lui è stato un IM, un ‘collaboratore inufficiale’, con ‘Galilei’ come nome di copertura: colui che cercava la verità. Di nuovo lavoro in archivio, quelli della Stasi aperti al pubblico. Ma nulla ha più senso con il Muro crollato, la società socialista smontata pezzo per pezzo, con un’infinità di micro-tragedie pur nell’esplosione della libertà. Spesso quella era la libertà di mangiare arance e banane, di viaggiare in Toscana, di chiedere l’elemosina. Erpenbeck ha affermato che per lei: «La libertà non è stata di certo regalata. Ha avuto un prezzo e il prezzo è stata tutta la mia vita fino ad allora». 

Viene subito in mente Freiheit, “Libertà”, il memoir di Angela Merkel, pubblicato in questi giorni, che ha emblematicamente lo stesso titolo dell’autobiografia dell’ex presidente della repubblica Joachim Gauck del 2012. Entrambi cittadini della DDR che – come la scrittrice – percepiscono tutta la dolorosa e luminosa esperienza della libertà ritrovata, ma nella problematica versione tedesco-occidentale, modalità spesso spietata verso gli ‘Ossis’, i cittadini tedesco-orientali, anche se per Erpenbeck non si può usare l’evanescente ed abusata categoria di Ostalgie, ‘nostalgia dell’Est’, quella di Good bye Lenin. E questo intenso e sofferto rapporto con la DDR, con quel torso di socialismo irrealizzato significa anche avere qualcosa da dire, avere in sé la storia, essere storia, quella grande, immane che si abbatte, coinvolge i destini individuali. Per questo Kairos (2021) – sempre tradotto da Ada Vigliani per Sellerio nel 2024 – si è profilato su tutti gli altri romanzi tedeschi di questi anni, ricevendo la conferma con la assegnazione – per la prima volta per un’opera tedesca – dell’International Booker Prize; per la giuria il romanzo «inizia parlando di amore e passione, ma racconta in egual misura anche il potere, l’arte, la cultura». La sintesi proposta anticipava già il giudizio positivo: «La storia intima e sconvolgente di due amanti che attraversano le rovine della loro relazione, mentre sullo sfondo l’Europa vive uno dei periodi più difficili della sua storia». 

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Con Kairos Erpenbeck era entrato anche nella lista finale del Nobel, quello assegnato alla scrittrice sudcoreana Han Kang. Comunque di premi Jenny Erpenbeck ne ha vinti tanti a cominciare – simbolicamente – nel 2001 con il Premio Ingeborg Bachmann, mentre nel 2017 ha ricevuto il Premio Strega Europeo. È che Erpenbeck sa scrivere e ha la materia per scrivere ed è – e lo si sente – figlia d’arte con generazioni di scrittori e scrittrici in famiglia. Con Kairos – lo suggerisce il raffinato titolo – la scrittrice coglie l’attimo che è quello eterno dell’amore, che mai stanca quando si sente che è autentico come quello di Katharina per Hans e a modo suo – disperato e tossico – quello dell’uomo per la giovane che gli si apre con generosa, commovente dedizione. E il loro romanzo s’inchioda – tra il 1986 e il 1992 – nella croce della Germania, sfinita, disorientata, che è ancora alla ricerca dell’unità dopo una unificazione più apparente che effettiva. Proprio ora il rimosso ritorna con impetuosi venti di tragedia che potrebbero scuotere fino ad abbattere una società in crisi. Una crisi che al momento travolge le regioni della ex DDR. È significativo che siano donne spesso alla periferia dei centri politico-finanziari a scrivere come la rumeno-tedesca Herta Müller, l’ungherese di lingua tedesca Terézia Mora e Jenny Erpenbeck, con la loro drammatica sensibilità femminile, i loro destini movimentati e le loro esperienze in società ‘socialiste’. Aver captato che al fronte orientale c’è molto di nuovo ha suggerito, forse, di intitolare il centro sociale romano a Sparwasser, anche lui con il suo mitico gol aveva afferrato il kairos.

In copertina, Agentenaustausch auf der Glienicker Brücke, AlliiertenMuseum.

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