Il fascino perverso delle ideologie aliene
La mattina che il Presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, lesse l’articolo di Heywood Campbell Broun Jr., decise di averne abbastanza delle attività del German-American Bund, un’organizzazione apertamente filo-hitleriana che riceveva illimitato sostegno finanziario dal governo tedesco, impegnata a promuovere l’ideologia nazista negli Stati Uniti, e a sostenerne i gruppi isolazionisti e pseudo pacifisti al fine di evitare l’entrata degli americani nel conflitto in Europa contro la Germania. FDR voleva vederci chiaro e convocò il Segretario alla Guerra, Harry H. Woodring. In quell’articolo del marzo 1937, Broun, un giornalista pluripremiato, aveva scritto che le attività del Bund erano arrivate «al punto di fare un vero e proprio reclutamento, e che un considerevole corpo di truppe d’assalto, qui in America, è già pronto».
Il German-American Bund (Amerikadeutscher Volksbund) era un’organizzazione di “patrioti americani di stirpe tedesca, amici della nuova Germania”, nata a Chicago nel 1933, l’anno in cui Hitler era salito al potere, organizzata dall’immigrato tedesco Heinz Spanknöbel su richiesta del Reichsleiter Rudolf Hess. Organizzazione che tre anni più tardi si costituirà in una struttura capillare a perfetta imitazione di quella del partito nazista, al cui vertice sarà eletto, come Bundesführer, Fritz Julius Kuhn, un tedesco naturalizzato americano, veterano della Grande Guerra, che aveva lavorato, per un breve periodo, con l’industriale automobilistico Henry Ford con il quale condivideva forti sentimenti antisemiti.

Le attività condotte dal Bund comprendevano la pubblicazione di giornali e volantini, attività di addestramento paramilitare, supporto a quei candidati politici che vedevano di buon occhio un’alleanza con la Germania hitleriana, raduni, manifestazioni pubbliche, eventi volti a diffondere il pensiero nazista, attirare nuovi membri, senza mai perdere occasione per attaccare l’amministrazione Roosevelt accusata di essere a capo di un complotto bolscevico-ebraico a cui veniva imputato di voler trascinare gli Stati Uniti in una guerra contro la Germania, e portare il comunismo in stile sovietico “sulle sponde d’America”.
Questo è il retroterra da cui prende le mosse il saggio Prequel (“Quando l’America rischiò di diventare fascista”, Neri Pozza, 2024) dell’analista politica Rachel Maddow, che ripercorre la storia poco nota (e che le scuole americane, oggi più che mai, si guardano bene dall’insegnare) di un vasto complotto di estrema destra che, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, cercava di spingere gli Stati Uniti ad allearsi con i nazisti.
A sostenere i complottisti c’erano personaggi di primo piano come il pluridecorato generale George Van Horn Moseley, c’era quel William Randolph Hearst magnate della stampa che Orson Welles aveva ritratto nel capolavoro cinematografico Citizen Kane (“Quarto potere”), che dichiarava: «Se un qualsiasi americano viene chiamato fascista, potete essere sicuri che si tratta di un leale cittadino americano».
Ci sono, poi, raccontati in dettaglio dalla Maddow, il diplomatico Lawrence Dennis, orgoglioso di essere considerato «il padrino intellettuale del fascismo americano»; il suo pupillo e finanziatore l’architetto Philip Johnson, sempre celato dietro una patina di rispettabile intellettualità, sostenitore dei rappresentanti più brutali della causa fascista in America; William Dudley Pelley, ex giornalista, sceneggiatore, cultore di occultismo, spiritista, complottista, fondatore della Silver Legion of America, i cui aderenti erano conosciuti come Silver Shirts, le camicie d’argento, un gruppo paramilitare creato sul modello delle SA hitleriane, promotore di una violenta ideologia fascista e antisemita fermamente ancorata nel credo della superiorità della razza bianca, di un’America “purificata” dagli ebrei.

C’è poi James True, che ammira apertamente coloro che bruciano i libri nell’Austria nazista, e si augura che «presto ci siano simili roghi anche in America»; c’è l’attaccabrighe Joe McWilliams, che si propone di organizzare i giovani arrabbiati in cellule fasciste per le risse di strada, e chiede: «un’America libera da Roosevelt e dai giudei. Vogliamo in America gli stessi metodi e lo stesso sistema che Hitler ha inaugurato in Germania». Non manca un predicatore radiofonico antisemita come padre Charles Coughlin, sacerdote cattolico, uno dei primi a usare la potenza propagandistica della radio per supportare apertamente le politiche naziste e fasciste, auspicando la loro attuazione politica e economica negli Stati Uniti.
Scrive Rachel Maddow: «La lotta che si è svolta in America negli anni Trenta e Quaranta è la storia di una politica sull’orlo del precipizio. Un movimento autoritario violento di ultradestra, infatuato delle dittature straniere, con piani dettagliati per rovesciare il governo e perfino ex militari di primo piano pronti a guidarli. Il progetto più audace prevedeva la realizzazione di centinaia di attacchi armati simultanei contro obiettivi governativi all’indomani della probabile rielezione di Franklin Delano Roosevelt nel 1940. Speravano che gli attacchi, scatenando caos e panico, avrebbero galvanizzato e radicalizzato i cittadini contrari al presidente, culminando nella presa del potere armata e nell’instaurazione di qualcosa di molto simile a una dittatura fascista». Inquietanti Quinte Colonne avevano infatti messo radici sul territorio americano, agendo su istruzioni dei servizi segreti militari tedeschi.
Una storia rimossa dalla coscienza collettiva
Probabilmente, l’apice delle attività del German-American Bund fu il raduno tenutosi al Madison Square Garden di New York il 20 febbraio 1939, in occasione della ricorrenza del compleanno di George Washington, in cui una massa di oltre 22mila americani dall’insospettabile doppia vita – sicuramente amorevoli padri di famiglia, solerti cittadini e premurosi vicini di casa, e allo stesso tempo simpatizzanti dell’ideologia nazista – si erano assiepati per ascoltare il Bundesführer Fritz Julius Kuhn criticare il presidente Roosevelt, definire il suo New Deal un “Jew Deal” e denunciare, per l’ennesima volta, la leadership bolscevico-ebraica che governava il Paese.

Una fetta di storia imbarazzante, messa in sordina, che vede masse di americani amoreggiare col nazismo, tanto vergognosa da essere stata rimossa dalla memoria collettiva della nazione, sepolta negli archivi storici dove si muovono solo rari ricercatori, rigorosamente esclusa dai piani di studio.
«Avvenimenti spaventosi e imbarazzanti che preferiremmo dimenticare», dice il giovane documentarista premio Oscar Marshall Curry, autore di A Night at the Garden, un’opera che raccoglie una serie di filmati miracolosamente sopravvissuti, conservati presso gli Archivi Nazionali e l’Università di California, proprio del raduno nazista di New York del 1939 che, rivisto con gli occhi di oggi, potrebbe sembrare un improbabile episodio fantascientifico della vetusta serie televisiva Twilight Zone (“Ai confini della realtà”). «Ci piace pensare che allo spuntare del nazismo, tutti gli americani siano insorti come un sol uomo a combattere per la libertà, ma non è stato così». La visione di quei lontani documenti sepolti dal tempo racconta, in effetti, un’altra storia.

«Nel documentario si vedono dapprima ritratti di George Washington, bandiere americane, ma poi appaiono svastiche e persone che fanno il saluto nazista, ed è davvero inquietante». Un gelido tuffo nella storia come ammonimento per il futuro che già oggi si intravede fosco, e non solo negli Stati Uniti. «Nel filmato c’è la scena in cui un manifestante, Isadore Greenbaum, sale sul palco per protestare durante il discorso di Kuhn, e viene sopraffatto dal servizio d’ordine in uniforme da assaltatori tedeschi e da un’orda di poliziotti. Mentre viene portato via, si vede un ragazzino, in divisa della Hitler Jugend, che si sfrega le mani soddisfatto e accenna a dei passi di danza, eccitato di far parte di un branco assetato di violenza che “gliela fa vedere lui al nemico”. E quando il manifestante viene finalmente portato fuori dal palco, c’è una lunga e lenta panoramica tra la folla che ride, applaude, esulta, come durante un incontro di wrestling».
La più potente macchina di propaganda al mondo
Il capitano Fritz Wiedemann, aiutante di campo di Adolf Hitler, sbarcò a Los Angeles nel settembre del 1937 per una missione che aveva un duplice scopo: valutare l’effettivo peso che avevano i simpatizzanti nazisti nel sud della California e portare ordini “freschi” ai leader locali del Bund, e al console Georg Gyssling, figura centrale nel panorama diplomatico e propagandistico della Germania nazista negli Stati Uniti, che giocherà un ruolo cruciale nel tentativo tedesco di influenzare la percezione mediatica che gli americani avevano del Terzo Reich.
Los Angeles era infatti, per le potenze dell’Asse, un centro di crescente importanza strategica. Per il Ministro tedesco della Propaganda, Joseph Goebbels, nessuna città americana era più importante per la causa nazista di Los Angeles dove aveva (ha) radici la più potente macchina di propaganda al mondo: Hollywood. E se, nell’immaginario collettivo, New York era percepita come la capitale dell’ebraismo americano, (Jew York, la chiamavano i nazisti), Goebbels riteneva Hollywood un posto molto più “pericoloso” perché lì una vasta comunità di ebrei governava sull’industria cinematografica, tramite cui poteva trasmettere le proprie idee al mondo. Senza dimenticare che la California era il maggior centro di produzione di materiale bellico degli Stati Uniti.
Al suo ritorno in patria, il capitano Wiedemann rassicurò il Führer che aveva riscontrato forti simpatie per la Germania tra la comunità economico-finanziaria antisemita della città. Quello che, però, Wiedemann, Goebbels e i “bundisti” americani non immaginavano è che Los Angeles era anche il posto dove la locale comunità ebraica si sarebbe seriamente organizzata per ostacolare i loro piani, quali essi fossero.

Una vicenda questa, su cui la storiografia non si è mai soffermata abbastanza, fin quando le minuziose ricerche compiute da una nuova generazione di storici – come Steven J. Ross con il saggio Hitler in Los Angeles, e Laura B. Rosenzweig con Hollywood’s Spies: The Undercover Surveillance of Nazis in Los Angeles – hanno fatto luce su episodi colpevolmente (volutamente) dimenticati, di come, per esempio, l’avvocato Leon Lewis, che i nazisti chiamavano “l’ebreo più pericoloso di Los Angeles”, avesse autonomamente organizzato in città una personale rete di controspionaggio completamente autofinanziata. Fu grazie al coraggio e alla tenacia di Lewis e dei suoi agenti improvvisati che furono smascherati piani di sabotaggio di istallazioni militari, operazioni di terrorismo, progetti di attentati contro la comunità ebraica, e di assassinio di scomodi personaggi di primo piano dell’industria cinematografica, come l’attore Charlie Chaplin (colpevole di aver ridicolizzato Hitler nel film Il grande dittatore), e potenti produttori hollywoodiani come Louis B. Mayer e Samuel Goldwyn.
America First, isolazionismo e fascismo
Il sentimento isolazionista dell’America risaliva all’esperienza traumatica della Prima guerra mondiale in cui gli Stati Uniti avevano perso più di centomila uomini sui campi di battaglia europei, e la crisi economica degli anni Trenta che aveva portato gli americani a concentrarsi sui problemi interni piuttosto che sugli affari esteri. Nel 1935 un sentimento sempre più isolazionista attraversava il Paese: il 95 per cento degli americani non voleva essere coinvolto nei guai del mondo, e soprattutto vedeva le rivalità europee come complicate e pericolose, e preferiva restarne fuori.
Era chiaro che, da sempre, «agli americani, di quel che succedeva in Europa non poteva importargliene di meno. Altro che difendere la democrazia degli altri», scrive Siegmund Ginzberg in Sindrome 1933 (Feltrinelli, 2019). «Che si arrangiassero a cavarsela da soli con le loro guerre, la loro politica incomprensibile, i loro aspiranti dittatori. La parola d’ordine era: America First», lo stesso inquietante slogan (“inquietante” perché era quello adottato dai filo nazisti e filo fascisti americani) oggi ripreso, con ignorante arroganza, dal neo presidente degli Stati Uniti.

Campione di America First, e isolazionista agguerrito, era Charles Lindbergh, “Lucky Lindy”, Lindy il fortunato, come era stato soprannominato il primo trasvolatore atlantico che, tra il 20 e il 21 maggio 1927, aveva volato – in solitaria, senza scalo, senza radio di bordo, senza riposo – dal Roosevelt Field di New York al Le Bourget di Parigi, in 33 ore e 32 minuti: evento memorabile e audace per i tempi, che aveva catturato l’attenzione del mondo intero. Così, approfittando della fama, Lindbergh aveva preso a propagandare le sue idee, prima isolazioniste, poi sempre più antisemite, con interventi pubblici, scritti e violente campagne radio che catalizzavano il sostegno di molta parte delle masse popolari incantate dal carisma e dalla parlantina dell’oratore. Populismo da manuale.
“Hitler è sicuramente un grand’uomo”
Dopo un suo viaggio in Germania, nel giugno del 1936, scatterà in Lindbergh un innamoramento mai rinnegato per quel Paese di cui ammira la potenza militare, e vede nel Terzo Reich il vero baluardo contro il comunismo. Assiste alle Olimpiadi di Berlino, e di Hitler scrive: «È sicuramente un grand’uomo e credo che abbia fatto molto per il popolo tedesco». Nell’ottobre del 1938, nel corso di un ricevimento all’ambasciata americana a Berlino, il Reichsmarschall Hermann Göring, comandante in capo della Luftwaffe, lui stesso pilota da caccia durante la Prima guerra mondiale, desideroso di mettersi in mostra accanto al più famoso aviatore del mondo, consegna a Lindbergh, “per ordine del Führer”, la Croce dell’Ordine dell’Aquila concessa a personalità straniere considerate simpatizzanti del nazismo, e come tali meritevoli di onore.

Al suo rientro in patria tiene numerosi comizi. Al Madison Square Garden di New York, il 23 maggio 1941, Lindbergh è applaudito da trentamila simpatizzanti del movimento America First. Chi non era riuscito a entrare lo ascoltava dagli altoparlanti sistemati sulla strada. Al suo ingresso sul palco fu salutato da un’ovazione di sei minuti durante i quali, ricorderà in seguito un giornalista, «rimase in piedi, sorridente, mentre una folla scatenata sventolava bandiere, lanciava baci scambiandosi freneticamente il saluto nazista». Le sue prime parole furono: «Siamo qui riuniti stasera perché crediamo in un destino indipendente per l’America», e ci fu, come lo descrisse un partecipante al rally, «un ruggito profondo, ultraterreno, selvaggio, agghiacciante, spaventoso, sinistro e terrificante».
L’11 settembre dello stesso anno, a Des Moines, Iowa, Lindbergh terrà alla radio, quello che molti storici hanno definito “uno dei più vili discorsi di politica estera mai pronunciati da un eminente americano”, indicando gli appartenenti alla “razza ebraica” come coloro che tramavano per portare l’America – cristiano-nazionalista, pia e pacifista – alla guerra.
L’indomani, il discorso di Lindbergh era riportato dalla quasi totalità dei quotidiani, scatenando nel Paese una reazione inaspettata dei lettori che paragonavano il suo discorso a quello della propaganda tedesca. Lo scrittore Rex Stout, il creatore di Nero Wolfe, gli si rivolse con queste parole: «Vorrei poterti guardare negli occhi, colonnello Lindbergh, e spiegarti che non sai di cosa stai parlando. È pura imbecillità non unirsi alla Gran Bretagna e vincere».

Il 10 dicembre l’aviatore avrebbe dovuto tenere un nuovo discorso a Boston, ma tre giorni prima i giapponesi attaccarono Pearl Harbor e l’eroe pensò bene di soprassedere. A quel punto, a Lindbergh – ormai percepito come una Quinta Colonna dei nazisti, biasimato all’unisono da democratici e repubblicani, e la cui lealtà patriottica fu messa pubblicamente in dubbio da Roosevelt – non rimase che rimettere il suo grado di colonnello al ministro della Guerra, e una pietra tombale cadde sulla sua reputazione.
Resta il ricordo delle parole del pastore metodista Halford E. Luccock, professore di omiletica all’Università di Yale, che in un celebre sermone ammonì: «Quando e se il fascismo arriverà in America non sarà contrassegnato da una svastica; non si chiamerà nemmeno fascismo; si chiamerà, ovviamente, “americanismo”».
Epilogo
Alla fine di ottobre del 1946, a poco più di un anno dalla fine della guerra, all’assistente procuratore generale O. John Rogge venne assegnata l’inchiesta sul più grande caso di sedizione della storia degli Stati Uniti: dimostrare che, scrive Maddow, «un numero sorprendente di americani, compresi alcuni in posizioni sorprendentemente altolocate, erano stati collusi con i nazisti contro gli interessi nazionali». L’inchiesta portò Rogge a intervistare i membri dell’elite nazista sotto processo a Norimberga, acquisendo più di 30mila documenti recuperati dagli archivi del ministero degli esteri tedesco che rivelavano, con prove concrete, l’identità di numerosi insospettati americani che avevano aiutato e favorito Hitler nella sua campagna per tenere l’America fuori dalle “guerre straniere”, e quanto avevano ricevuto in cambio della loro collaborazione.
Al procuratore generale Clark non piacque molto quello che lesse nel rapporto preliminare di Rogge. Ancor meno piacque al presidente Truman che, per motivi di “opportunità politica”, licenziò Rogge su due piedi.
Quando l’ormai pensionato Rogge, nel 1961, dette alle stampe una parte, seppur minima e depurata, dei documenti della sua inchiesta (The Official German Report: Nazi Penetration 1924-1942), il paese aveva ormai voltato pagina e si stava occupando solo del “pericolo rosso”. Nessuno comprò il suo libro.
