Sinatra, Navalny, My Way
La notizia battuta il primo marzo scorso dalle agenzie di stampa internazionali, rimbalzata su tutti i media possibili e immaginabili, non avrebbe potuto essere più stringata, laconica e lapidaria: «La bara di Alexey Navalny è stata inumata nel cimitero di Borisovskoye sulle note di My Way, di Frank Sinatra». Praticamente l’ultimo, seppur impotente, ceffone tirato, in forma di colonna sonora, dall’eretico recidivo Navalny al suo aguzzino, Vladimir Putin [VP d’ora in avanti], personificazione aggiornata della “Banalità del Male”.
L’ironia – se di ironia si può parlare – è che c’è stato un tempo in cui VP aveva tentato di fare suo il mito di My Way, non tanto perché stesse, per dirla con le parole della canzone, “affrontando l’ultimo sipario” (anzi), ma perché aveva capito che, grazie all’inettitudine sonnolenta dell’occidente, avrebbe potuto fare tutto ciò che gli sconfinferava a modo suo: da minacciare e invadere gli antipatici vicini di confine, a liberarsi di oppositori molesti senza neanche dover applicare la dottrina stalinista della piccozza da ghiaccio, come quella mediaticamente disdicevole che aveva aperto il cranio al “dissidente” Lev Trotsky. Avrebbe potuto, infatti, usare mezzi più understated e puliti come le sostanze nervine. E comunque, se avesse fallito – come era accaduto al primo tentativo di avvelenamento di Navalny con il novichock – avrebbe potuto sempre ricorrere alle buone vecchie tecniche manuali del KGB: un pugno ben assestato al cuore. E addio Alexey.
“And I salute him”
Dunque, era accaduto che, nel 2011, per autoelogiarsi, VP aveva invitato a Mosca Paul Anka. Paul Anka? Sì, l’autore del testo inglese di My Way, quel Paul che da ragazzino, era diventato famoso e milionario in dollari con il ritornello che invitava Diana [Daiana] a stare con lui (“Please stay with me Diana”), l’autore di You are my destiny, altra hit degli anni cinquanta le cui parole, oggi, sembrano profeticamente malauguranti per Navalny, visto che il suo destino sarebbe stato quello di incrociare VP, il “banale”.
E per quel concerto moscovita Paul Anka ce l’aveva messa tutta, non solo arrangiando il pezzo con variazioni in stile neomelodico, ma interrompendolo e integrandolo, a metà, con un’imbarazzante sviolinata a VP per “tutte le belle cose fatte”, e concludendo l’intermezzo di lusinghe in libertà con un alquanto disdicevole: “and I salute him” (e io gli rendo onore).
Cosa che non aveva potuto fare due anni prima a un concerto tenuto al Barvikha Luxury Village, nel quartiere residenziale Rublyovka, il cuore immobiliare della nomenklatura russa, nonostante, in un’intervista rilasciata al Pervyj kanal, il primo canale della televisione di stato, avesse informato l’inquilino del Cremlino che se fosse stato presente gli avrebbe dedicato My Way. Quella volta, però, a VP probabilmente “giravano”, e scelse di andare a vedere una partita di calcio. Anka dovette accontentarsi di esibirsi davanti a un parterre di soli oligarchi.
Un inno alla carriera
My way è la canzone che dà il titolo all’album omonimo di Frank Sinatra, uscito nel 1969, che contiene, fra l’altro, alcuni gioielli sonori e interpretativi, come Yesterday, l’unico brano del duo beatlesiano Lennon-McCartney interpretato da Sinatra nel corso della sua carriera, ma anche Mrs. Robinson di Paul Simon (tema dal film Il laureato), oppure ancora If You Go Away, adattata dalla celebre Ne me quitte pas di Jacques Brel.
«Ma il brano destinato a caratterizzare e intitolare l’album, e a divenire una sorta di emblema di tutta la carriera di Frank Sinatra, quasi un suo inno personale, è un’altra canzone francese», ricorda il musicologo Luca Cerchiari nel suo recente ricco e denso volume Frank Sinatra: “The Voice” tra musica e cinema (Feltrinelli, 2024). «Si tratta di Comme d’habitude di Jacques Revaux e Claude François, con testo di Gilles Thibaut, del 1967. Paul Anka la ascolta alla radio durante una vacanza e ne acquisisce i diritti editoriali per una cifra irrisoria, scrivendo un testo inglese di tono e contenuto diverso rispetto all’originale, che non lo aveva convinto». Lo sottopone a Sinatra che lo approva e lo registra per la sua etichetta, la Reprise, in un 45 giri che poi include nell’LP omonimo ottenendo un successo stellare, al di là e al di qua dell’Atlantico.
Erano anni di riflessione e cambiamenti quelli in cui Sinatra, al giro di boa dei cinquant’anni, comincia a tirare le somme di una carriera e di una vita, anni che coincidevano anche con quelli di grandi cambiamenti sociali: la pandemia sessantottina stava per dilagare, la musica, dopo gli anni della beatlesmania, non era più quella dei crooner “alla Sinatra”, e lui stesso sentiva il bisogno di cambiare, di esplorare nuovi generi musicali. Così ecco che nel 1967, nel tentativo di inseguire un pubblico più giovanile esce l’album della metamorfosi: Francis Albert Sinatra & Antonio Carlos Jobim, un trionfo di bossa nova e samba canção. Commenta Cerchiari: «In questo album, “The Voice” accarezza letteralmente le vocali e le consonanti dei testi e indirizza il suo canto al sussurro più che al grido, con un’eleganza che supera ogni rischio di affettazione per declinarsi in pura, sottile, toccante poesia musicale».
A cena con Sinatra
My Way nacque una sera a cena, a Miami. Sinatra era in città per girare un film e Anka per un concerto. I due si conoscevano dai tempi d’oro del Sands di Las Vegas, di quando “The Voice” faceva il bello e cattivo tempo a capo del Rat Pack, quel manipolo di artisti, attori e cantanti, di cui Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis Junior, erano l’autentico fulcro in un mondo fatto di feste, concerti, amicizie eccellenti che andavano dall’inquilino della Casa Bianca – John “Jack” Kennedy e il suo “Jack Pack” – al sottobosco mafioso abitato da mobster come Meyer Lansky, Frank Costello, Sam Giancana, boss di Chicago. Frequentazioni, queste ultime, che attireranno l’attenzione delle autorità di regolamentazione del gioco d’azzardo del Nevada, e Sinatra, messo sotto inchiesta, sarà costretto di malavoglia a cedere la sua quota di proprietà del 9 per cento del Sands. Ricorda Cerchiari: «Sinatra deve testimoniare in più occasioni davanti alle commissioni di indagine, come fa con la consueta abilità, ora ammettendo ora non ricordando fatti e personaggi scomodi, e cercando di salvaguardarsi, con l’aiuto dell’amico avvocato Mickey Rudin, dal concomitante clamore sollevato dagli organi di stampa». Stampa e paparazzi che Sinatra detestava cordialmente e con cui, spesso, era venuto alle mani.
Il Sands era anche il locale dove Paul Anka aveva debuttato, sedicenne, nel 1957, grazie al successo mondiale di Diana, la canzone scritta a 14 anni e dedicata a tale Diana Ayoub, la baby sitter di famiglia, appena più grande di lui. Ricordate l’incipit? “I’m so young and you’re so old, so Diana I’ve been told...”.
Quando, anni più tardi, quella sera a Miami, Sinatra lo invita a cena, Anka mai si sarebbe aspettato cosa gli avrebbe riservato il destino professionale. “The Voice” gli annuncia il ritiro dalle scene. Era stanco. I tempi dei crooner e del Rat Pack erano finiti. Il matrimonio con la diciannovenne Mia Farrow era fallito. I federali gli stavano col fiato sul collo. Era ora di tirare i remi in barca. Ma prima di abbandonare la scena avrebbe voluto registrare un ultimo album, e avrebbe voluto che Anka scrivesse per lui quella fantomatica canzone di cui – un po’ scherzando, un po’ sul serio – avevano sempre parlato, e che, “the Kid”, aveva promesso, prima o poi, di scrivergli.
Anka decide, dunque, di rielaborare “alla Sinatra” la canzone francese, Comme d’habitude, di cui aveva acquistato i diritti. Il testo, scrive Cerchiari, «allude retrospettivamente a una vita di lavoro ormai trascorso; come possa diventare l’occasione, prima che “cali il sipario”, di fare il bilancio su una vita ricca di avvenimenti e di successi, ottenuti però esclusivamente grazie a un impegno personale, a una visione individuale delle cose. È quasi il ritratto del self-made man Sinatra, dell’americano arrivato al successo costruendolo sulle proprie forze, sull’ottimismo, su una visione liberal della vita sociale e professionale».
Il successo supererà le più rosee aspettative e la canzone entrerà nell’olimpo dei classici senza tempo, anche se, poi, Sinatra, forse soprafatto dal suo stesso successo, finirà, come fanno spesso gli artisti, per disconoscerla (la chiamerà: A pain in the you-know-where, “una spina nel voi-sapete-dove”). Proprio come Arthur Conan Doyle non sopportava il successo di Sherlock Holmes, Agatha Christie era stufa di Poirot, e Anthony Burgess rinnegò Arancia Meccanica.
Sinatra Says Goodbye and Amen
L’annuncio del ritiro dalla vita professionale Sinatra lo dà a metà del 1971. La rivista Life, nel numero del 25 giugno, gli dedica la copertina con un’immagine scadente non all’altezza della grande tradizione fotografica della rivista, certamente poco lusinghiera. Il titolo lo è ancora meno: Sinatra Says Goodbye and Amen (Sinatra dice addio e amen).
Il ritiro, naturalmente, non durerà. Dopo soli 16 mesi di silenzio ecco la notizia che tutti i suoi fan aspettavano – Ol’ Blue Eyes Is Back – annunciata da uno speciale televisivo e un nuovo album dallo stesso titolo che questa volta non include My Way, ma pur sempre un brano di un autore francese (Laisse Moi Le Temps, di Michel Jourdan) riarrangiato, ancora una volta, da Paul Anka, col titolo Let Me Try Again. E, ancora una volta, il sottotesto sembra volersi riferire a tutt’altro, al tentativo di ritornare ai fasti del successo degli anni d’oro.
Gli riuscirà (e anche con un discreto successo) con l’incisione di una serie di duetti, la prima volta con, fra gli altri, Aretha Franklin, Barbra Streisand, Liza Minnelli, Julio Iglesias, Charles Aznavor; la seconda (Duets II) Sinatra con un Antônio Carlos Jobim purtroppo fuori forma, e Linda Ronstadt, e Neil Diamond, ma anche con Frank jr. il più defilato e riservato dei suoi figli che aveva tentato la carriera musicale pur tra le immaginabili difficoltà psicologiche derivanti dalla figura giganteggiante del padre.
Ma alcuni episodi segnalano, per Sinatra, l’inizio di un cedimento fisico. Poco prima di registrare il secondo album di duetti, nel marzo del 1994, a Richmond, Sinatra ha un collasso sul palcoscenico proprio mentre sta cantando My Way. E il mercato discografico “sente” che è giunto il tempo delle celebrazioni, di revival e festeggiamenti, di ristampe, antologie, cofanetti vari che comprendono un po’ di tutto, persino versioni alternative di brani a suo tempo scartati.
Francis Albert: da “My Way” a “Our Way”
In occasione del suo ottantesimo compleanno, esce Sinatra 80th: Live in Concert, un 33 giri che contiene una compilation di registrazioni dal vivo di suoi concerti tenuti tra il 1987 e il 1988 (il titolo fa riferimento all’età di Sinatra al momento della pubblicazione dell’album, non al momento delle esibizioni). Nella traccia finale, My Way – ripresa dalla versione italiana dell’album Duets II – si cimenta “in doppio” con Luciano Pavarotti al quale, poi, scriverà: «Mio caro Luciano, non appena ho ascoltato My Way ho alzato il bicchiere per ringraziarti. Il duetto, Maestro, mi ha riempito gli occhi di lacrime e mi ha scaldato il cuore. Per tanti anni questa canzone ha rappresentato tutta la mia carriera, eppure la tua presenza mi ha fatto sentire piccolo piccolo. Amico mio, My Way è ora, sicuramente, Our Way. Con amore e rispetto, Francis Albert».
Gli ottant’anni di Sinatra verranno celebrati anche con uno speciale programma alla Carnegie Hall di New York e con uno show televisivo intitolato Sinatra: 80 Years My Way, con ospiti celebri, tra i quali Ray Charles e Tony Bennett, ma anche divi del rock come Bob Dylan e Bruce Springsteen, e in cui erano inseriti rari filmati “archeologici”, fra cui uno straordinario, imperdibile duetto Sinatra-Presley. Non manca, neanche dirlo, quella che sarà una delle ultime interpretazioni di My Way, con il pubblico in delirio, in piedi ad applaudire mentre la regia televisiva sfuma l’immagine in una dissolvenza al nero, praticamente the final curtain [l’intera trasmissione è possibile rivederla qui].
«I riconoscimenti e le celebrazioni di Frank Sinatra ora non provengono solo dal mondo nel quale è maturato e si è espresso per decenni», scrive Cerchiari, «ma appunto anche da quell’ambiente della musica rock col quale egli ha avuto in passato, comprensibilmente, rapporti contrastanti e talora poco idilliaci; ma nei confronti del quale, musicalmente parlando, ha mostrato curiosità e un certo coinvolgimento».
Non a caso, era stato Bono, il frontman degli U-2, che aveva tessuto l’elogio di “The Voice” presentandolo al pubblico dei Grammy Awards nel 1994: «Gli appassionati del rock and roll amano Sinatra per il suo atteggiamento spavaldo. Il rock ambisce a essere una musica per duri, ma quest’uomo, accidenti, è un capo, il capo dei capi, è l’esplosione del pop».