Montale fantascientifico

22 Settembre 2024

Chi glielo dice a Chat GPT? Già, chi lo dice a quell’avanzato modello di intelligenza artificiale che si autodefinisce, se glielo chiedi: “in grado di rispondere a domande, fornire informazioni, assistere con attività di scrittura, offrire consigli e molto altro, interagendo in modo conversazionale e contestuale” che il poeta e premio Nobel Eugenio Montale scriveva (anche) di fantascienza? 

È andata così: ricevo il libro Destini incrociati: Montale e la fantascienza (Medusa, 2024) di Renato Giovannoli – originale, raffinato e prolifico saggista, autore di opere che vanno da Indagini filosofiche su Lewis Carroll a I vortici di Van Gogh; da Jolly Roger: le bandiere dei pirati a Il caso Manzoni-Dracula; e ancora: da Come costruire la biblioteca di Babele a dispetto degli errori di Borges, a La scienza della fantascienza – e non resisto all’impulso di chiedere a Chat GPT, con cui stavo battagliando a proposito di una sua serie di errori nel valutare date e episodi relativi alla Seconda guerra mondiale, informazioni generiche su “Montale e la fantascienza”, appunto, tema sul quale, in rete, si possono trovare diverse fonti, materiali che dovrebbero essere pane per gli algoritmi del Chat-bot in questione, che però mi risponde: «Eugenio Montale, uno dei più importanti poeti italiani del XX secolo, blah blah … noto soprattutto per la sua poesia lirica e la sua esplorazione di temi come l’alienazione, la condizione umana e la complessità dell’esperienza esistenziale, blah, blah … non è mai stato direttamente associato alla fantascienza, un genere letterario che si focalizza su futuri ipotetici, tecnologia avanzata e scenari speculativi. Montale era più orientato verso una poesia che esplorava la condizione umana in modo introspettivo e filosofico, blah blah … in conclusione, la sua opera resta, pertanto, un monumento della poesia del Novecento, mentre la fantascienza rimane un terreno inesplorato per questo grande poeta italiano». 

E ora, tutto questo, chi lo dice a Giovannoli? Lui non si scompone e fa notare che già in una poesia del 1968 Montale «esprimeva un concetto che si sarebbe sviluppato in una vera teoria degli universi paralleli», sullo sfondo dell’influenza di Borges e del suo Giardino dei sentieri che si biforcano che, in parallelo alla fantascienza anglosassone, stava suggestionando e contagiando fior di autori come Italo Calvino, Dino Buzzati, Tommaso Landolfi, Primo Levi, Andrea Zanzotto, Umberto Eco, Sergio Solmi, tutti scrittori che, nelle pagine del suo libro, «si rincorrono, incrociando i propri destini con quello di Montale e tra di loro, attorno ai temi fantascientifici della poesia montaliana». 

E continua Giovannoli, dal risvolto di copertina: «Nell’ultima fase della produzione poetica di Montale, da Satura in poi, di fantascienza ce n’è molta, e a ben vedere la si poteva trovare già nelle raccolte precedenti, così come nelle sue prose scritte tra gli anni Quaranta e Cinquanta, le quali, benché ignorate dagli storici della fantascienza italiana, non hanno nulla da invidiare alla science fiction del tempo».

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Il mondo simulato: Montale come Matrix

Tracce di science fiction nell’opera di Montale appaiono già in Poesie disperse, versi scritti dal poeta, ventiduenne, nel 1918: «È come una gran bolla di cristallo / sottile / stasera il mondo […] E tutta questa finta realtà / scoppierà / forse».

L’idea che il mondo in cui viviamo sia simile a una palla di vetro con neve – come quella che, in Quarto potere, Orson Welles, nelle vesti di Charles Foster Kane, lascia cadere prima di esalare l’ultimo respiro, e pronunciare la celebre, misteriosa battuta: “Rosebud” –  è poi ripresa, nel 1953, da Philip K. Dick in The Troubles with Bubbles (“Il mondo in una bolla”), in cui narra di un futuro in cui l’umanità si diletta a creare mondi simulati in miniatura all’interno di speciali bolle di vetro  (note come Worldcraft, il cui slogan del venditore recita: Own Your Own World!, “Fatti il tuo mondo!”) che i giocatori più bravi sono capaci di far evolvere biologicamente fino a far sorgere civiltà umane. E sarà sempre Dick a chiedersi, nel primo romanzo della Trilogia di Valis (1981), se magari, anche noi, non stiamo vivendo in “un mondo contraffatto, come una specie di bolla”.

E comunque, ben prima di Dick, Montale si avvicinava all’idea della vita come “simulazione universale elettronica” con due racconti brevi – Sul limite (1946) e Il regista (1951), scritti per la terza pagina del Corriere della Sera e del Corriere d’Informazione, successivamente inclusi nella raccolta Farfalla di Dinard (Neri Pozza, 1956) – in cui il protagonista, giunto nell’Aldilà scopre che l’esistenza di ogni essere umano non è altro che un film già “inciso e completo”, e che la vita non ne è che la proiezione., tanto che il poeta, nel 1976, in Quaderno di quattro anni, scriverà, anticipando The Matrix: «proteggetemi da questa pellicola / da quattro soldi / che continua a svolgersi / davanti a me / e pretende di coinvolgermi / come attore e comparsa / non prevista dal copione».

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Quella scienza che gli sta in cagnesco

E dire che, allora, Montale non era consapevole di “fare fantascienza”. «Il termine», ricorda Giovannoli «fu infatti coniato da Giorgio Monicelli, curatore dei “Romanzi di Urania” nel 1952, qualche mese dopo la pubblicazione dell’ultimo racconto fantascientifico di Montale». Anzi, nei confronti della science fiction, il poeta aveva una decisa prevenzione. Recensendo l’antologia Le meraviglie del possibile, curata dal suo amico Sergio Solmi (elogiato da un ventiquattrenne Umberto Eco in un numero della rivista “Stagione. Lettere e Arti”) il poeta ne loda, sì, l’introduzione, ma parla della fantascienza come di una «letteratura romanzesca a sfondo pseudoscientifico e utopistico, alimentata dalle suggestioni “spaziali”, ultraterrene, che la divulgazione delle nuove scoperte della scienza offre a scrittori ormai a corto di argomenti nel consueto repertorio giallo o sensazionale». 

Un giudizio affrettato, in linea con il disinteresse (diciamo pure il disprezzo) dell’accademia verso la fantascienza, non pertinente ai racconti dell’antologia, perché, di fatto, erano lo stesso tipo di racconti, dal tono ironico e di tema distopico, che lui stesso aveva scritto sulla scia della fantascienza sociologica americana degli anni Cinquanta. A questo proposito, Giovannoli dubita che Montale abbia effettivamente mai letto il libro, visto che ne attribuisce l’editore a Lerici invece che a Einaudi.

Molto probabilmente il problema non era la fantascienza in sé, ma il fatto che, come ebbe a notare Primo Levi, i letterati italiani «storcono il naso davanti alla f.s. non in quanto “fanta”, ma in quanto “scienza”». Non a caso, sempre Montale, nel 1965, recensendo un’opera di Charles Percy Snow, fisico e scrittore, autore del celebre testo polemico Le due culture, si chiedeva, in tono retorico, se «la cultura scientifica può essere di giovamento a un poeta, a un narratore».

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Anche se, neanche due mesi più tardi, Montale scrivendo del nuovo libro di Calvino, Le cosmicomiche, appena uscite in volume, smentiva di fatto il suo giudizio negativo sulla fantascienza. Annota Giovannoli: «Non solo il poeta qualificava come “fantascientifico”, per quanto “alla rovescia”, il libro di Calvino, senza dare all’aggettivo connotazioni negative, ma dimostrava di apprezzarne la tematica cosmologica (…) È in questa recensione che l’atteggiamento di Montale verso la fantascienza ha il suo punto di svolta e fu, dunque, probabilmente la lettura di Le cosmicomiche a convincerlo che scienza e poesia potevano andare d’accordo».

Nell’opera di Montale non mancano riferimenti alla Relatività Generale einsteniana, ai buchi neri e al Big Bang che lui chiama il “grande crac”, anche se con quel termine intende più che altro la fine del mondo: «Un giorno non lontano / assisteremo alla collisione / dei pianeti e il diamantato cielo / finirà sommerso in avvalli». 

Ma, nota Giovannoli, mentre Calvino e Levi prendono per buone le conclusioni della cosmologia contemporanea, per Montale quelle non sono credibili immagini del mondo, ma soltanto speculazioni. In un’intervista affermava: «Il mondo è nato da un’esplosione o da un’intenzione? Nessuna delle due ipotesi soddisfa». Eppure le conquiste della scienza lo attraggono. A commento della celebre foto Earthrise, in cui si vede la Terra sorgere da dietro la Luna (immagine scattata dall’astronauta William Anders a bordo della navicella Apollo 8 in orbita intorno al pianeta), scriverà la poesia Fine del ’68, pubblicata dal Corriere della Sera proprio al giro di boa di quell’anno fatidico. Nella prima delle due sestine il poeta scrive: «Ho contemplato dalla luna, o quasi, / il modesto pianeta che contiene / filosofia, teologia, politica, / pornografia, letteratura, scienze / palesi o arcane. Dentro c’è anche l’uomo, / ed io tra questi. E tutto è molto strano».

Racconti molto ravvicinati del terzo tipo

Nella seconda metà degli anni Quaranta, esattamente alla fine della Seconda guerra mondiale, e in neanche tanto strana concomitanza della prima esplosione atomica, in giro per il mondo iniziano i primi avvistamenti di UFO, quegli oggetti volanti non identificati che oggi, in un clima di rivalutazione spiritistica alla Arthur Conan Doyle, sono stati ribattezzati UAP (Unidentified Anomalous Phenomena, Fenomeni anomali non identificati). Anche l’Italia non ne fu indenne. E nemmeno Montale, che – sull’ideale scia di un testo satirico di Dino Buzzati Il disco si posò (1950) – scrisse, in un racconto dal titolo Il disco volante (1952): «Dalla conchiglia sono scesi strani esseri che sembrano avere una forma intermedia fra il polipo e il manichino di De Chirico, con molte teste, molti tubi, molti occhi, molte gambe. Parlano sternutendo, svolazzano intorno alla conchiglia (…) Se non sono uomini non capiranno nulla di noi, e noi niente di loro. Dovranno finire in un giardino zoologico. A meno che non si preferisca ucciderli o imbalsamarli. La loro presenza sarebbe pur sempre uno scandalo. L’uomo non può rinunciare al senso antropomorfico della vita. Il non-uomo è un anti-uomo: deve sparire o vincere la battaglia, annientare l’uomo». Proprio come in La guerra dei mondi di H.G.Wells.

L’uomo solo in un deserto di rumore

Se Calvino, con le sue Cosmicomiche aveva “convertito” Montale alla fantascienza, i destini dei due scrittori finiranno per divergere. Anticipando le attuali discussioni sulle correnti transumaniste e postumaniste, Calvino, in una lettera a Giovanni Mariotti, si dichiara decisamente amico delle macchine che lui vede come il prolungamento biologico dell’uomo «e forse le sue eredi assolute». Ed è sempre Calvino che, scrivendo a Franco Fortini, spiegherà: «Quello che io tento è uscire da ogni teleologia umanistica vedendo l’uomo come strumento o catalizzatore o anello non so di che cosa (…) e un mondo senza più esseri umani, un mondo di calcolatori elettronici e farfalle, non mi spaventa anzi mi rassicura». 

Una visione della fantascienza, dunque, molto diversa e netta da quella di Montale che, scrive Giovannoli, è restata, dagli inizi narrativi negli anni Quaranta fino alle sue ultime prove poetiche verso il 1980, una fantascienza fondamentalmente umanista e conservatrice, imparentata con quella americana degli anni Cinquanta-Sessanta. «Montale si ostina a difendere l’uomo dalle minacce del progresso tecnico e scientifico, tanto nelle sue distopiche visioni del futuro, quanto sulle teorie cosmologiche contemporanee, di cui lamenta la lontananza da tutto ciò che è umano».

Chissà cosa avrebbe pensato e, soprattutto, scritto il poeta, della nostra età affollata di Intelligenza Artificiale. E così, per restare in tema, ho chiesto a Chat GPT (i cui algoritmi, nel frattempo, devono essersi informati sull’argomento, oggetto di una momentanea défaillance) di scrivere una poesia “in stile Eugenio Montale” sul tema “fantascienza e IA”. Ecco il risultato ottenuto in poco più di un battito di ciglia, con tanto di titolo e analisi stilistica del testo stesso, condito dalla possibilità di varianti che risparmio al lettore. 

Titolo: Dialogo con un simulacro. Testo: Un’ombra che risponde, un’eco vuota, / un’intelligenza finta, fredda statua. / Chiedi e ti risponde, un servo muto, / ma in quel parlare non c’è alcuna vita./ Un labirinto di dati, un mare informe, / dove la parola perde il suo valore. / Un simulacro, un sogno che si sforma, / e l’uomo solo, in un deserto di rumore.

A proposito, chi glielo dice a Montale?

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