Missili sovietici a Cuba

28 Dicembre 2024

«In un sistema di governo parlamentare sarei io che dovrei andarmene, ma nel nostro sistema sei tu che te ne devi andare». Con queste parole il Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy licenziò, su due piedi, il direttore della CIA Allen Dulles, responsabile e capro espiatorio del disastro dell’Operazione Pluto,  il fallito tentativo di rovesciare il governo di Fidel Castro a Cuba a seguito dell’invio di una manciata di esuli cubani fatti sbarcati sulle spiagge della Baia dei Porci il 17 aprile 1961, decimati in tre giorni di combattimenti dai Barbudos del Lider Maximo, facendo fare all’amministrazione statunitense la figura di una banda di incapaci.

Il piano era stato concepito da Dulles, spia di lungo corso, durante la precedente amministrazione Eisenhower, e lanciato neanche tre mesi dopo l’insediamento alla Casa Bianca di Kennedy, al quale fu in pratica forzata la mano. Un piano militarmente balordo e politicamente suicida di cui mezzo mondo sembrava essere al corrente: dal New York Times che ne parlò apertamente giorni prima dell’operazione in un articolo dell’inviato Tad Szulc, al servizio di spionaggio sovietico, il buon vecchio KGB, che era stato informato nei dettagli dai numerosi agenti doppiogiochisti che infestavano indisturbati le fila dell’MI-6, il servizio di spionaggio britannico, a Radio Mosca che ragguagliava i propri ascoltatori con la notizia di un prossimo attacco all’isola caraibica.

Risulterà poi chiaro che Castro era stato ben ragguagliato in anticipo dell’impresa, mentre alla CIA nessuno aveva capito che l’operazione era bruciata: erano ormai in troppi a sapere che un contingente di cubani in esilio si stava addestrando in una fattoria di proprietà del compiacente Presidente del Guatemala, e che un gran numero di aerei non registrati faceva la spola tra quel Paese e gli Stati Uniti.

Due giorni prima dello sbarco, il 15 aprile, un gran numero di miliziani furono dislocati nei pressi di Playa Giron, l’area a sud ovest della Bahia de Cochinos (la Baia dei Porci). Non solo, Fidel, costretto a spostare dalla capitale le sue migliori truppe, ben conscio di non poter contare sull’appoggio incondizionato della popolazione (nonostante le roboanti affermazioni della propaganda), ordinò l’arresto preventivo di chiunque potesse essere sospettato di provocare incidenti o sabotaggi. L’ambasciata svizzera, che rappresentava gli interessi americani a Cuba, calcolò che, in tre giorni, in tutta l’isola, furono arrestate decine di migliaia di persone in via precauzionale.

«Un’enorme prigione circondata dall’acqua»

Nonostante il fallimento e la figuraccia fatta con l’Operazione Pluto (poi ribattezzata Operazione Zapata), l’ossessione dell’amministrazione americana, del Dipartimento di Stato, del Pentagono, della CIA verso Cuba e verso Castro (ossessione reciproca, a dire il vero) non sembrava diminuire. Anzi.

Il fatto poi che a causa di tutta quella cagnara qualsiasi tipo di comunicazione con l’isola si fosse interrotto non aiutava a raffreddare i bollenti umori bellici dei capi di Stato Maggiore delle forze armate statunitensi che insistevano nel raccomandare, all’unanimità, al Presidente il bombardamento di Cuba, l’invasione e l’occupazione militare dell’isola.

Per cercare di ristabilire un minimo flusso d’informazione, Allen Dulles prima di essere licenziato, si rivolse ai francesi, nello specifico a Philippe Thyraud de Vosjoli – accreditato come vice console francese a Washington che, in realtà, fungeva da ufficiale di collegamento fra la CIA e lo SDECE (Service de Documentation Exterieure et de Contre-Espionnage) – al quale chiese di andare a L’Avana ed essere gli occhi e gli orecchi dei servizi americani. Il Generale De Gaulle dette la sua magnanima benedizione. Non solo, l’ambasciatore francese a Cuba, Roger du Gardier, andato a prendere de Vosjoli all’aeroporto (la Pan Am aveva ripreso i voli navetta da Miami a L’Avana), lo portò direttamente a un pranzo dove aveva riunito tutti i rappresentanti diplomatici occidentali presenti sull’isola per permettere all’agente di riportare a Washington e Parigi gli umori delle varie cancellerie.

Da quel momento Philippe Thyraud de Vosjoli diviene la più importante fonte d’informazione per la CIA. Ad ogni viaggio, nella valigia diplomatica, trasporta documenti, fotografie, persino lettere (pericolose se scoperte) affidategli da Juanita Castro, la sorella di Fidel che, in totale dissidio con il fratello, era stata reclutata dai servizi americani e che, anni più tardi, emigrerà prima in Messico, poi negli Stati Uniti che le offriranno asilo politico. Dirà: «Lui e Raúl hanno trasformato il mio paese in un’enorme prigione circondata dall’acqua».

Razzi nelle grotte

Nel luglio del 1962 gli informatori di de Vosjoli segnalano che al piccolo e insignificante porto di Mariel, il più vicino alla costa americana, hanno preso ad attraccare sempre più spesso navi sovietiche che sbarcano a terra un gran numero di personale e materiale. Il sospetto che qualcosa stesse accadendo si fece più forte quando il porto di Mariel fu interdetto alle maestranze e alla popolazione civile, e che a scaricare le navi fossero rigorosamente militari sovietici.

Tutte queste informazioni venivano ora passate da de Vosjoli a John McCone che aveva preso il posto di Dulles a capo dei servizi segreti.

In un ennesimo viaggio a L’Avana l’agente francese viene a sapere, da fonti diverse, che i sovietici avrebbero istallato missili a Cuba, ma prende la notizia con le molle. Era una voce che girava da un po’, rubricata più che altro come un pio desiderio dei più bellicosi rivoluzionari castristi. Scriverà de Vosjoli nel suo dimenticato libro di memorie Lamia, titolo che si riferisce al suo nome in codice (Les Éditions de l’Homme, 1970): «Per anni i cubani avevano inondato tutti i servizi segreti, le ambasciate e i giornali di mezzo mondo con storie poco plausibili sui cohetes, come chiamavano i razzi, che sostenevano fossero nascosti nelle numerose grotte lungo la costa. Avevo fatto verificare molti di questi rapporti, ma senza alcun risultato, ed ero sicuro che anche altri diplomatici lo avessero fatto, con lo stesso insuccesso. Fin quando uno di questi rapporti mi incuriosì molto».

Un informatore segnalava l’insolita presenza di soldati di guardia intorno a una caverna davanti a cui era stato praticato un foro che aveva l’aspetto di un grande tubo, abbastanza largo da contenere un razzo. De Vosjoli chiese lumi ai suoi, e da Parigi gli confermarono che anche l’esercito francese stava valutando la possibilità di utilizzare alcune grotte del Massiccio del Giura per nascondere razzi che potevano essere lanciati attraverso aperture direzionali. «La caverna cubana era stata scavata per lo stesso scopo? Non potevo esserne certo, ma trasmisi l’informazione agli americani».

Il punto di svolta arrivò con la segnalazione fornita da un ex sottufficiale dell’esercito francese di stanza in Germania che stava trascorrendo una vacanza con la famiglia all’Avana. Informò de Vosjoli di aver visto un missile trasportato su un semovente “dedicato”, come quelli che gli americani usavano in Germania, appunto, ma il missile era «più grande, molto più grande». Adesso non c’erano più dubbi: i sovietici stavano istallando missili balistici a Cuba.

Tre uomini straordinari

È da questo punto in poi che prende le mosse Abisso, il libro del giornalista, storico e divulgatore Max Hastings (sottotitolo “Cuba 1962. Il mondo a un passo dal conflitto nucleare”, traduzione di Karel Plessini, Neri Pozza, 2024), che racconta – alla luce dei più recenti documenti declassificati, depositati presso tutti i più importanti archivi americani, inclusi quelli dei servizi segreti, e a qualche minima brezza di glasnost soffiata per il tempo di un battito di ciglia dagli archivi di Mosca – non solo gli eventi dei tredici giorni (14-28 ottobre 1962) che portarono il mondo sull’orlo di una guerra nucleare, ma soprattutto inserisce i fatti di quell’ottobre in una cornice più ampia: il contesto della realtà americana dell’epoca, di quella dell’Unione Sovietica e di quella di Cuba.

«Come si potrebbe altrimenti interpretare la logica del comportamento degli attori in gioco, portabandiera delle rispettive società e prodotti di così diverse esperienze storiche?», scrive Hastings. «Vi sono storici secondo i quali le grandi personalità giocano soltanto un ruolo secondario nel determinare il corso della storia. Dopo aver studiato gli eventi che portarono alla crisi dei missili, è difficile essere d’accordo con tale interpretazione. Furono piuttosto tre uomini straordinari – Kennedy, Kruscev e Castro – a prendere le decisioni che, nel corso degli eventi, ne determinarono l’esito».

«Ich bin ein Berliner»

Per il Presidente John F. Kennedy, quel 1962 era cominciato alla grande. Gli Stati Uniti avevano pareggiato i conti con l’Unione Sovietica, nella corsa allo spazio, mandando in orbita terrestre, con un missile Mercury-Atlas 6, la navicella spaziale Friendship 7 con a bordo il tenente colonnello dei Marines John Glenn. In giro si respirava aria di giovinezza, il mondo stava per essere investito dalla Beatlesmania, Bob Dylan faceva uscire il suo primo album, e il 19 maggio, al Madison Square Garden di New York, Marilyn Monroe avrebbe cantato “Happy Birthday Mr. President” in occasione del 45esimo compleanno dell’altrettanto giovane e fotogenico presidente che il 12 settembre, alla Rice University, avrebbe annunciato che l’America sarebbe andata sulla Luna entro la fine del decennio («We choose to go to the Moon in this decade and do the other things, not because they are easy, but because they are hard»), mandando in visibilio sia gli studenti che il corpo docente.

Fra gli storici la figura del presidente americano rimane divisiva: dietro al fascino eroico del personaggio si celano ampie zone d’ombra, annota Hastings. «E tuttavia, nel corso dei suoi mille giorni alla Casa Bianca, egli giocò un ruolo di spicco e fu fonte di ispirazione nel contesto della Guerra Fredda. In Europa rimane indimenticabile la sua apparizione, nel giugno del 1963, nella Berlino Ovest sotto assedio, dove ricevette l’applauso isterico di un milione di persone per aver affermato: “Ich bin ein Berliner”».

Defcon 2

Con meno entusiasmo sarà ricevuto il discorso televisivo alla nazione tenuto il 22 ottobre 1962, alle sette del pomeriggio, dopo la messa in onda di una serie di vecchie repliche dell’Ed Sullivan Show e di I love Lucy, in cui avrebbe annunciato agli americani – salutati con un: Good evening my fellow citizens – e al mondo, che nove giorni prima «si sono avute le prove inoppugnabili che una serie di rampe per missili offensivi è in corso di allestimento nell’isola di Cuba. Lo scopo di queste basi non può essere altro che quello di creare una forza d’urto nucleare diretta contro l’emisfero occidentale».

Le prove definitive le aveva fornite il 14 ottobre 1962 un ricognitore ad alta quota Lockheed U-2, equipaggiato con apparecchiature video e fotocamere ad altissima sensibilità che, sorvolando Cuba, aveva scattato immagini che mostravano chiaramente la presenza di rampe di lancio per missili balistici armati di testate nucleari in grado di raggiungere il territorio degli Stati Uniti.

I sovietici avevano in effetti spedito a Cuba (“Operzaione Anadyr”) missili balistici di diverse gittate, reggimenti motorizzati di fucilieri, battaglioni corazzati, unità di missili terra-aria e batterie convenzionali di artiglieria antiaerea, il tutto accompagnato da cinquantamila e passa militari, oltre a due incrociatori, quattro cacciatorpediniere, dodici motocannoniere missilistiche e undici sottomarini diesel-elettrici tecnicamente inadatti e non equipaggiati per operare in acque tropicali.

Una forza troppo massiccia per non dare nell’occhio, ma comunque sempre insufficiente per resistere a un possibile assalto americano. «Il corpo di spedizione poteva ambire, al massimo, a compiere un sacrificio simbolico», scrive Hastings. «A meno che i sovietici non fossero ricorsi alle armi nucleari tattiche».

Il succo del lungo discorso di Kennedy era che gli Stati Uniti avrebbero considerato qualsiasi lancio di ordigni nucleari da Cuba alla stregua di un attacco «che esigerà un’azione di rappresaglia completa contro l’Unione Sovietica stessa». Annunciò altresì che l’isola sarebbe stata messa in quarantena da un blocco navale che, comunque, avrebbe riguardato esclusivamente gli armamenti e non – come avevano fatto i sovietici a Berlino nel 1948 – il flusso di beni di prima necessità destinati al popolo cubano. Il blocco navale sarebbe stato un primo passo per permettere ai sovietici, come ebbe a dire il Segretario di Stato Dean Rusk, «una breve pausa per pensarci bene prima di far precipitare il mondo in una crisi devastante».

Nel frattempo, la centrale di comando del SAC (Strategic Air Command), la struttura operativa a cui faceva capo la flotta di bombardieri B-52, le superfortezze volanti armate di ordigni atomici, e i missili balistici intercontinentali, alzò il livello di allarme nucleare a Defcon 2 (DEFense readiness CONdition, o “condizione di allerta difensiva”), il grado più alto, di cui si sappia, mai raggiunto a tutt’oggi (il livello 1 indica una guerra nucleare imminente o già in corso, il 5 il più basso).

Una pioggia di testate nucleari

Gli Stati Uniti erano ben consci della loro supremazia atomica nei confronti dei sovietici e contavano proprio su quel vantaggio per essere abbastanza convinti che Mosca non avrebbe provocato un conflitto nucleare su vasta scala. Il Single Integrated Operational Plan, elaborato dall’aviazione militare sotto l’amministrazine Eisenhower, prevedeva il lancio di 3200 testate nucleari contro obiettivi in Unione Sovietica, Cina e Paesi loro alleati: il tutto, come ricorda Hastings, entro pochissimi minuti dal momento in cui il Presidente avesse dato l’ordine di attacco. Difficilmente Kruscev avrebbe scatenato l’Armageddon solo per assecondare le mire e le fobie di un «piccolo, isterico e logorroico» dittatore caraibico.

Già, perché Kruscev si trovava a fronteggiare non solo gli Stati Uniti, ma anche lo “sregolato rivoluzionario latinoamericano”. «Castro», ebbe a dire il premier sovietico, «non ha la più pallida idea di cosa sia un conflitto termonucleare. Se fosse scoppiata una guerra, Cuba sarebbe stata la prima a scomparire dalla faccia della Terra. Solo chi, come Castro, è totalmente accecato dalla passione rivoluzionaria può parlare in quel modo».

Kruscev decise quindi di scendere a patti con gli americani. Avrebbe annunciato il ritiro di missili e truppe prima al mondo, e poi a Castro: non voleva perdere tempo a discutere con lui. «Bisognava agire in fretta», dirà Kruscev. «Per contattare Kennedy ricorremmo alle comunicazioni radio: altri metodi sarebbero stati troppo lenti. Siamo stati davvero a un passo dalla guerra». Si scoprirà in seguito che, in contropartita, Kennedy aveva promesso lo smantellamento di obsoleti missili Jupiter armati di testate termonucleari dalle basi turche e italiane di Gioia del Colle.

L’annuncio dell’accordo fu dato, sulle frequenze di Radio Mosca, dalla voce profonda di Juri Levitan, il portavoce prediletto da Stalin, ma non senza batticuori da comica finale alla Keystone Cops. La limousine partita dal Cremlino con a bordo Leonid Iličev, segretario responsabile per le questioni ideologiche del Comitato centrale, a cui Kruscev aveva affidato il messaggio, sbaglia dapprima strada, finisce imbottigliata nel traffico. Poi Iličev rimane bloccato in ascensore e cerca di far arrivare il documento allo speaker passandolo attraverso la fessura fra le porte, ma i sigilli di ceralacca lo impediscono. La busta si strappa. Poi, senza nessuna ragione apparente, l’ascensore si rimette in moto e finalmente lo storico annuncio è consegnato a Levitan e può andare in onda. Il mondo tira un sospiro di sollievo.

Intanto in Gran Bretagna

In tutto questo, anche gli alleati britannici erano sul piede di guerra. Il Primo ministro Harold Macmillan aveva approvato eventuali procedure di rappresaglia contro l’Unione Sovietica affidandole a una squadra di bombardieri nucleari della RAF. Ma come avrebbe potuto dare l’ordine di attacco se non si fosse trovato a portata di telefono? Fu così inventato un bizzarro apparato di comunicazione: se in caso di allerta di attacco imminente il Primo ministro si fosse trovato in auto, l’autista, avvertito dal sistema di soccorso radio stradale, il corrispettivo dell’ACI britannico, avrebbe dovuto cercare una cabina telefonica per permettere al Primo ministro di chiamare Downing Street. Così ciascun autista fu dotato dei 4 penny necessari per effettuare la chiamata in caso di bisogno.

A crisi atomica conclusa, a tutti gli autisti fu richiesto di restituire le monete all’ufficio competente di Downing Street.

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