Salò, la destra e il mito del tradimento
Non sono passate inosservate tra alcuni commentatori, nel breve discorso della vittoria di Giorgia Meloni, le frasi sulla propria parte che, come ha sempre fatto, non tradirà gli italiani. Il mito del tradimento, gemello a quello della patria che nella letteratura di Salò si dirama e prolifera in ogni direzione, merita però un approfondimento. Presiede infatti come una lama d'ombra disgregatrice alle date capitali del 25 luglio e dell'8 settembre, fornendo la motivazione etica al secondo fascismo. “Sentivo l'animo serrato in un incontenibile moto di rivolta contro una terribile iniquità che non potevo accettare, il tradimento”, scrive nel suo memoriale 1943-45 La fine di una stagione Roberto Vivarelli; e Vincenzo Costa, in L'ultimo federale, dopo l'8 settembre e con ripetizione dopo i fatti di Dongo, aggiunge addirittura che “gli uomini senza uniforme senza lealtà avevano vinto: aveva vinto Satana”.
Viene evocato dunque il Principe delle tenebre, traditore ed ispiratore di tradimenti, il Nemico che sovverte l'ordine dell'universo facendolo sprofondare nel caos. Nell'inferno dantesco in versione neofascista accanto a Lucifero, nella parte più profonda e gelida della terra, starebbero senz'altro confitti Vittorio Emanuele III e Badoglio, “artefici della rovina, del tradimento, dell'infamia” (Costa). Il primo, che si riveste ancora d'aura sacrale, seppure bruttata e virata al nero, viene sempre citato ma spesso con cautela; è Carlo Mazzantini, in C'eravamo tanto odiati, a darcene una rappresentazione particolarmente cruda e acrimoniosa, che ne sottolinea in primo luogo, come nella solita parodia antimonarchica, i difetti fisici: “Il piccolo impennacchiato sovrano, al quale, alla stazione Ostiense, nella compagnia d'onore dei balilla moschettieri della 780ª legione, avevo presentato le armi quando era andato ad accogliere Adolf Hitler nella sua visita a Roma nel 1938, che avevo acclamato sotto il balcone del Quirinale per l'incoronazione a imperatore d'Etiopia e poi a re d'Albania e poi per la dichiarazione di guerra da lui firmata, e poi, e poi...” Su Badoglio l'accanimento viene in effetti più facile e generalizzato.
A partire dalla contrapposizione con Graziani, preferito per il suo profilo da attore americano, dall'esteta Albertazzi nella sua autobiografia Un perdente di successo: “Mi ricordo la faccia da caratterista americano di secondo rango di Badoglio, figura ambigua e meschina: non mi piaceva. Mi piaceva Graziani (nel ruolo di Graziani Gregory Peck).” Lo stesso Graziani riferisce poi che l'ambasciatore tedesco Rahn aveva, a sua detta, ricevuto ampie rassicurazioni proprio l'8 settembre dal futuro Primo ministro, sulla volontà dell'Italia di continuare la guerra a fianco della Germania e “soggiungeva che questi, nell'atto di salutarlo e stringendogli le mani, commosso quasi alle lacrime, gli aveva detto: – Sono uno dei tre più vecchi Marescialli d'Europa: von Mackensen, Pétain, Badoglio. Potete pensare che manchi alla mia parola di soldato?”
Re Savoia, rimante con “troia”, e “marchese Badoglio” sono accomunati negli Stornelli legionari nell'invocazione della morte per mano dei “fascisti repubblicani”. Comunque traditori fattivi sotto la regìa régia sono i gerarchi nel Gran Consiglio firmatari dell'ordine Grandi; e infatti la rinascita del fascismo si fonderà sulla punizione, annunciata da Mussolini nel primo discorso radiofonico, di “vili e traditori”. Diversi tra i saloini più accesi avrebbero voluto un processo di Verona molto allargato a quei pezzi grossi del Regime in parata, che erano rientrati nei ranghi dopo il primo rovescio; come per esempio il federale di Milano Aghemo citato da Costa.
L'esempio esecrabile dato dai vertici politici genera a cascata la valanga del tradimento. Traditori sono i ricchi borghesi che si erano presumibilmente ingrassati con il fascismo e che Pino Romualdi osserva a Venezia l'8 settembre: “Poco dopo le diciannove, in compagnia di un collega, scendevo in vaporetto lungo il Canal Grande, allorché all'altezza dell'albergo «Regina» scorgemmo un rumoroso gruppo di signore e di signori che stavano brindando sulla terrazza, pervasi da un'insolita allegria. Bevevano, rompevano i bicchieri sulla balaustra e gridavano incomprensibili cose. Afferrammo, finalmente, la parola: – Armistizio! Armistizio!”. Traditori sono i giornalisti, colleghi di Almirante allo schieratissimo «Il Tevere», che prontamente cambiano di penna il 25 luglio.
Traditore è anche il personale che a lungo ha attorniato Mussolini nei palazzi del potere: “Al mattino del 28, non avendo ragione di attendere più a lungo, mi presentai al Viminale, alla Presidenza del consiglio, per ricevere ordini. Come è facile indovinare, il mio ingresso in quegli uffici suscitò quasi la stessa impressione di un ritorno del duce in persona. Visi di funzionari che fino a poche ore prima mi avevano sorriso con aperta affabilità si rivoltarono dall'altra parte; molti evitavano di parlarmi”, ricorda il cameriere del duce, Navarra. Traditore infine è il popolo – gli Italiani irredimibili verso cui scuoteva la testa Mussolini – che, dopo essersi assiepato per un ventennio sotto il balcone del Capo, ora sciama festoso per le strade e aggressivo si scaglia contro i simboli già venerati del Regime.
Entrando nella guerra civile, i primi traditori sono i partigiani, che si schierano in armi con i nemici, cioè gli Anglo-Americani, come grida loro in faccia, contrapponendoli ai suoi, un ufficiale della Rsi durante un violento interrogatorio nel romanzo A cercar la bella morte: “Due dei miei legionari sono stati assassinati oggi!... Due giovani combattenti! Reduci di Russia!... Sporchi rinnegati in questo sporco paese di rinnegati!... Vi farò vedere io chi sono gli emme!” Così, per convincere i saloini scalpitanti per combattere contro i veri nemici stranieri, un altro ufficiale, in Tiro al piccione di Rimanelli, spiega: “Noi non abbiamo bisogno di andare al fronte.
Questo dove siamo è un fronte regolare, molto più importante dell'altro. Il compito che ci è stato assegnato è di difenderci le spalle dal nostro nemico più prossimo, che è questo che combattiamo. Non abbiate vuoti sentimentalismi, perché i ribelli sono Italiani solo di nome. In effetti essi sono i veri traditori della nostra Patria. Noi dobbiamo sterminarli perché rappresentano la parte peggiore della nostra gente.” I partigiani sono traditori anche perché non affrontano a viso aperto l'avversario, per farsi cavallerescamente massacrare, ma colpiscono e si ritirano sui monti, sparano alla schiena nelle città (“mi era giunta la notizia della morte del comandante del Barbarigo, Bardelli, ucciso a tradimento, insieme ad altri suoi ufficiali e ad alcuni marò, in una premeditata imboscata partigiana”, Vivarelli tra tanti.)
Le parti si presentano dunque nette e contrapposte: i traditori onnipresenti da una parte, i lealisti del “fascismo purificato” dall'altra. E tuttavia il tradimento è uno stigma sentito su di sé nel profondo, difficile da cancellare nei confronti dell'alleato tedesco. Difficile dimostrare che non tutti gli italiani erano traditori, separarsi senza macchia dalla nazione traditrice e riconquistare stima e fiducia. Costa torna spesso a tematizzare poi con vera esecrazione, poiché si tratta appunto di entrare nei territori della tenebra, il passaggio di combattenti della Rsi alle file partigiane; per esempio Arrigo Alemagna, vice comandante della «Muti», arrestato per i suoi eccessi agli inizi del 1944, liberato in estate per intercessione del suo superiore Franco Colombo “e che, per dimostrare la sua gratitudine per l'ottenuta clemenza, passò immediatamente nelle formazioni partigiane, assumendo il comando del distaccamento Puecher di monte Berlinghera”. Altrettanto duro l'atteggiamento verso i nuovi fiancheggiatori del nemico, che vanno castigati con il massimo rigore: “È un'eccellenza: podestà, squadrista, sciarpa littoria... e ha mandato soldi e armi ai ribelli.”
Tra il febbraio e il marzo del 1945 gli stessi irriducibili e altezzosi Tedeschi, nella persona del massimo poliziotto in Italia Wolff, incontrano in Svizzera, di nascosto da Mussolini e Hitler che aveva ordinato la resistenza a oltranza, emissari degli Angloamericani per trattare una pace separata. Anfuso, ambasciatore a Berlino dall'8 settembre e sottosegretario agli Esteri dal 26 marzo 1945, racconta di essersi trovato il 26 aprile dello stesso anno a Bressanone, dove passava “l'automobilona” dell'ambasciatore in Italia Rahn, che egli cerca invano di fermare, e quindi ribalta le consuete posizioni tra i due governi e i due popoli: “l'essere stati traditi e considerati traditori”. I saloini si sentono contaminati a fondo da quella macchia e non dispiace quindi dire che traditori sono anche i Tedeschi: pare che Mussolini se ne compiacesse, allorché aveva saputo del pur fallito attentato a Hitler; nel celeberrimo incontro al palazzo arcivescovile di Milano del 25 aprile invece esprime “la sua attonita sorpresa” per l'imminente resa germanica, tanto che, secondo Graziani, minacciò di denunciare per radio il tradimento tedesco.
Certe fasi della storia, specie quelle particolarmente burrascose, sembrano inconcepibili senza tradimento come, secondo Trockij, “lo sarebbe una macchina senza grasso”. Qui il grande tradito, tenuto allo scuro di tutto, appare Mussolini: un'apparenza, perché il finale riserva una sorpresa rivelatrice. I giovani idealisti di Salò, i duri e puri aspirano all'estrema battaglia per la gloria nel sacrificio, alla trincea impossibile della Valtellina dove radunarsi fino all'ultimo colpo attorno al Capo. Eppure quella fine sognata diventa “fuga” e “vergogna” secondo Mazzantini, che osa il parallelismo con l'odiata infamia dell'8 settembre. Mussolini il 22 aprile, per esempio, diede istruzioni a Zerbino, successore di Buffarini al Ministero degli Interni e al generale Montagna, capo della polizia, che aveva svolto una funzione importante nel processo di Verona, di cercare di negoziare un formale passaggio di poteri tra le autorità di Salò e il Comitato di liberazione.
Di tali disordinate e poco fattibili trattative non giunge nulla alle orecchie dei militi, cosicché mentre Graziani dà delega a Wolff per la resa e per lo scioglimento delle forze armate, gli irriducibili cominciano un tragicomico balletto a inseguimento con il Capo riluttante. Il 26 aprile i fascisti evacuano in massa Milano dopo un commosso ammaina bandiera, mentre Mussolini è partito per Menaggio. Una “cocente delusione” esprime Costa nel ricostruire le vicende finali della Rsi, compreso il discorso che avrebbe voluto tenere al Capo che non lo riceve: “duce, dovete venire con noi, dovete vivere le ultime ore della Repubblica Sociale Italiana con noi, con la bandiera tricolore sormontata dall'aquila romana con le ali spiegate”.
Tanto a Milano che a Como Mussolini tenta in tutti i modi di congedare e seminare i suoi fedelissimi ormai importuni e pericolosi: “i fascisti sono liberi”, proclama con solennità, “sciolti dal giuramento”. A volte si solleva il velo del pietoso autoinganno: l'ultimo federale ricorda che Franco Colombo, comandante della «Muti», propone un vero e proprio sequestro del Capo per portarlo in Valtellina, così l'ultimo traditore dei camerati fascisti, come un tempo lo fu dei compagni socialisti, risulta proprio Benito Mussolini.
A proposito si può aggiungere una piccola coda nel dopoguerra. Gli psicoanalisti hanno parlato di “tradimento salutare” relativamente al sottrarsi degli individui (specie bambini e giovani) alle aspettative altrui, per trovare una propria identità autonoma e gratificante. Al contrario il tradimento del sé profondo provoca una scissione dolorosa e la necessità di un gravoso mascheramento, consapevole o inconsapevole, con conseguenti rimorsi e frustrazioni. La maggior parte dei neofasisti ha pubblicamente perseverato nelle proprie idee, ricoprendo ruoli centrali in organizzazioni come il Movimento Sociale Italiano. In qualche caso, specie in ambito intellettuale, hanno denunciato un certo ostracismo per le posizioni assunte, anche se magari poi superate, come nel caso di Rimanelli che preferì cercar fortuna all'estero o Soavi che sentì penalizzato il proprio romanzo autobiografico Un banco di nebbia.
In altri casi ancora si dà luogo a un camuffamento non tanto di peccati giovanili, come fecero figure di primo piano quali Günter Grass o Franҫois Mitterrand su cui si è molto discusso una volta venuti alla luce i trascorsi, quanto piuttosto di una militanza distanziata ma non ripudiata. La narrazione diverrà allora uno sfogo necessario di verità. Mazzantini racconta di una redattrice di storia moderna che gli parla delle testimonianze di partigiani raccolte in Val Sesia, proprio dove lui era stato a combattere dall'altra parte, per cui si sforza “di conservare l'espressione che lei conosce”. Vorrebbe parlare per scontornare e dare volti ai fascisti anonimi di quegli scontri: non può, cosa penserebbero gli altri “che io, questo collega che ha condiviso la loro stanza, i loro discorsi per tanti anni, di cui conoscono la moglie, le figlie, con cui hanno scherzato, era una di quelle figure nere ritagliate sullo sfondo atroce di quei tempi remoti?”.
E così Vivarelli, partendo dalla clandestinità seguita alla Liberazione, a lungo professore di Storia contemporanea alla Normale, si rende protagonista di un sorprendente outing: “Dovevamo nascondere la nostra identità, e anche più tardi, quando le acque si calmarono e la vita tornò gradualmente alla normalità, dovemmo ugualmente nascondere il nostro passato e negare una parte importante della nostra storia e della nostra vita. E questa specie di esilio è durato a lungo, in un certo senso è durato sino ad ora, ed io ne esco soltanto scrivendo queste pagine.” Dunque a chi stava parlando Giorgia Meloni a proposito di tradimento: ai nemici di sempre, ai suoi, al proprio inconscio politico? Chi stava minacciando e chi rassicurando dopo tanti anni dal primo sdoganamento? L'ossessione del tradimento sembra ancora restare incistato nella cultura post-fascista come un inquietante passato che non passa.