L'inclassificabile Ottiero Ottieri
Ci sono scrittori orizzontali, ovvero che prediligono l’esplorazione della società, e scrittori verticali portati a sondare soprattutto se stessi. I grandi romanzieri hanno trovato un efficace equilibrio tra i due assi cartesiani della letteratura; altri hanno tentato, o subito, dialettiche più instabili e conflittuali, magari alternando le tendenze nelle diverse opere. Tra questi ultimi va annoverato Ottiero Ottieri fin dal suo romanzo d’esordio, Memorie dell’incoscienza, pubblicato nel 1954 tra i «Gettoni» Einaudi, in quanto sorta di interpretazione psicologica del fascismo saloino da parte del giovane protagonista: “Se la nostra generazione abbandona questo salvagente che è il patriottismo e sì, insomma, il fascismo, non nasce, non viene alla luce, nasce morta. Di fronte alla generazione che ci precede, ai padri, noi saremo eternamente bambini, ci manca una ragione per essere rispettati come adulti.” Se la sorella Elena si avvicina agli ufficiali tedeschi per superare disperazione e solitudine, il narratore, cresciuto nel mito necessario della vittoria (“l'Italia non era la Germania, era più debole e più povera, per questo meritava di più la vittoria del coraggio e della giustizia”), ugualmente tende da quella parte: “Nel mio cervello si agitavano idee di ribellione e sussulti di sdegno per l'armistizio che consacrava una sconfitta, palude melmosa e infida, non abisso salutare.” In verità una scelta volontaristica che dovrebbe sottrarlo alla propria palude interiore, ma che non lo salva da una vera maturazione fuori da velleità e accidia.
A proposito del pendolo tra orizzontalità cercata e verticalità sofferente e destinale si osservava: “Noi soffriamo, per innata costituzione, più delle nostre pene che di quelle del mondo; anzi, il dolore collettivo è la migliore medicina contro il dolore personale. Gettarsi nel precipizio degli avvenimenti è una liberazione, una soddisfazione, e le tragedie nazionali riempiono di amaro orgoglio, di vanità, anche una persona modesta.” Ecco allora per molti, nel dopoguerra, la stagione dell’impegno ricostruttivo e progressivo dall’altra parte, sostituendo “una rivoluzione falsa” con “una rivoluzione vera” come scrive il diarista di La linea gotica, uscito nel 1963 e dedicato al decennio 1948-58. La stagione della letteratura industriale vede Ottieri come apripista con il tormentato, e poco amato, Tempi stretti del 1957, e come autore riconosciuto da pubblico e critica, insieme al Volponi di Memoriale o al Sereni di Visita in fabbrica, con Donnarumma all’assalto, pubblicato da Bompiani nel 1959. Lo stacco dovuto forse al passaggio dalla realtà all’ideologia, come suggerito da Vittorini, e non viceversa; si tratta infatti di un diario, tenuto tra ‘55 e ‘57, della sua esperienza di selezionatore del personale nel nuovo stabilimento Olivetti a Pozzuoli. Il punto di vista è dunque quello razionalista dello psicotecnico, che scrive con stile nitido e preciso, ricco di termini della sociologia e della psicologia, convinto di portare uno sviluppo della civiltà nel meridione, insieme a un’opportunità di formazione e maturazione personali.
La convinzione che malattia e alienazione siano fuori dalla fabbrica, nella mancanza di lavoro, viene incrinata dal confronto con Antonio Donnarumma, esemplato su una persona vera, che vuole disperatamente “faticare” ma senza sottoporsi ai test attitudinali, fino a diventare aggressivo e bombarolo. Il finale apre alla disillusione e al fallimento già lucidamente diagnosticati nella Linea gotica, ancor più frammentaria e ibrida, che ha recentemente attirato l’attenzione di Giuseppe Lupo in La modernità malintesa (Marsilio 2023) più del gemello romanzato. Qui si registra lucidamente il volontarismo del giovane Ottieri, di ricca e nobile famiglia toscana, trasferitosi a Milano: “Nell’industria niente. Non c’è un briciolo d’industria nella mia storia o in quella della mia famiglia per secoli” e il tentativo, chiaritogli dall’amico Cesare Musatti, di superare l’oscuro male individuale nel generoso rinnovamento della società: “La tendenza alla costituzione di formazioni collettive a forte coesione, si accompagna spesso con un’affermazione, e una provvisoria scomparsa della nevrosi.” È il caso dei “neurosocialisti”, dei “neurocomunisti”, commenta l’autore, cominciando la tragica eppur risibile lista delle proprie nevrosi: bipolarità, depressione, ossessione di morte, alcolismo, sessuomania, ma pure “bilanciomania”, che nella valutazione di ogni passo “impedisce di vivere”, magari da giocare una contro l’altra (“Forse è meglio un’idea ossessiva che il caleidoscopio di pensieri. A questo punto sono arrivato. A rimpiangere le idee fisse della crisi precedente” Campo di concentrazione 1972). E si potrebbe aggiungere anche l’insoffribilità per i luoghi dove si è deciso di vivere: “Roma è il mio essere, Milano il mio dover essere. Sogno una terza città che le unisca”. Sempre nella Linea gotica, appena sceso dal treno, Milano appare “nera dentro una malinconia nera”, in Una irata sensazione di peggioramento (Guanda 2002): “Il fuori di Milano non voleva vederlo, ci stava come in un bunker. Si gridava: non voglio vederlo! Quel cielo inesistente, a tendone fisso, mai mosso dal vento, mai specchiantesi in un fiume, su una collina”. D’altra parte Torino, l’altro polo, quello dello psicoanalista e della giovane che gli risveglia sentimenti sopiti da cui fa la spola, è “città geometrica, impoetica e che non gli pareva affatto elegante.” Eppure, ennesimo paradosso, pare così vero per Ottieri quanto il suo personaggio dice di sé: “amava l’Italia come un patriota”.
Stiamo comunque con tutta evidenza piombando, con pieno sbilanciamento vettoriale, lungo la verticalità. Ottieri ha frequentato analisti già dai vent’anni e non ha mai smesso, accumulando conoscenze freudiane e junghiane, diagnosi, terapie, elettrochoc e farmaci mutati e rimescolati “fino a trovare / la combinazione felice e fatale / lasciando al suo destino l’inconscio” da parte del “Direttore entusiasta” di Le betulle. Tutti tentativi fallimentari a cui affidarsi con fiducia fanciullesca come per l’asse orizzontale della storia collettiva. Testimonianza dello sprofondo nelle diverse cliniche, italiche ed estere, tra anni Sessanta e Settanta, soprattutto L’irrealtà quotidiana (1966) e Contessa (1976), dietro le figure dell’egocentrico intellettuale Lucioli (secondo cognome dell’autore) e della psicosociologa e suicida Elena Miuti, fino a Cery da molti considerato il capolavoro del filone. Non a caso i primi versi dei Poemetti, raccolti da Einaudi nel 2015 e riportati in copertina suonano: “Avevo fatto della clinica un mondo, / del mondo una clinica”. Qui si alternano periodi di assoluta impossibilità di scrivere alla felice soluzione di darsi alla poesia; non si tratta però, nei casi migliori, di singole liriche strappate al male, ma di un “monologo sghembo, torrenziale, cantilenante”, per dirla con Valerio Magrelli, che fonde termini aulici a una flusso colloquiale spinto da “rime propulsive”.
Felice pausa narrativa, breve e satirica, I divini mondani (1968), in cui Salottiero Salottieri, come si autodefinì l’autore, ci racconta come novello Parini o Schnitzler, senza soluzione di continuità, di feste, seduzioni, vacanze tra sci piscina cocktail di un imprenditore dei sanitari con in testa di invadere il mercato anglosassone con i suoi bidè. Il balletto dei nietzschiani da serata (“Bisogna assimilare nella mente che esistono soli i pochi. Questi pochi sono i migliori. Questi migliori compongono un pranzo seduto”) è inesausto, vuoto e disincarnato, ovviamente ripetitivo. Anche nel linguaggio con birignao inglesi e arbasiniani, e risibili massime: “tu hai l’intelligenza e non la discriminazione. Io non ho l’intelligenza? Ma ho la discriminazione”; “La Sormani non ha esprit ma ha allure. Questo allure può sostituire l’esprit. Succede a Smeralda.”; “la civiltà è innanzitutto igiene. Anche se tutta questa civiltà ci ha un po’ seccati”. Giuseppe Montesano, nel Meridiano dedicato, ha scritto benissimo che il comico qui è “estremo espediente per sospendere la crudezza irrespirabile del male senza rimuoverlo”; e va intensificandosi nelle opere in versi raccolte in Tutte le poesie (1986) per culminare nel Poema osceno del 1996.
Scritto per sette volte di getto e rivisto due in bozze, con le sue 300 pagine di versi, dialoghi e prosa, accoglie la vitale discontinuità di Ottieri. La nevrosi di un alter ego, Pietro Muoio, “il poeta civile che fa capolino / nella foresta erotico-egoica”, l’andamento privo di trama di cui l’autore lamentava l’incapacità in un flusso torrenziale ma perfettamente leggibile, antigaddiano (“Invece ho usato una lingua neutra / una pagina che somiglia / alle pianure della luna senza storia.”). Secondo l’amico Zanzotto il poema di quegli anni, in cui alla Storia si è sostituita la cronaca della lunga disillusione collettiva (“Silvio batte l’ultimo chiodo / sulla bara del nostro amore infelice, / l’uguaglianza umana”) e del definitivo disimpegno, con il “popolo sovrano stordito dalle disgrazie industriali e borsistiche”. E catodiche con Berlusconi, ma anche con la Lega (“La stupidità dei nordici si coagulava nella ignoranza rabbiosa di un certo Bossi gracchiante con catarro”) e in definitiva con “La Destra economica che ha stravinto, la sinistra attende le briciole del ricco Epulone”. Queste considerazioni degli ultimi libri hanno a loro tempo maggiormente colpito, ma si tratta soprattutto della degna chiusa per la parabola di un autore irriducibile alle classificazioni, anche se così interno alla nostra storia, e ancora in fondo da misurare in tutta la sua importanza.