Giacomo Verri. Racconti partigiani
«Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò». Così finisce Una questione privata di Beppe Fenoglio, pubblicato postumo nel 1963, a due mesi dalla morte dell’autore.
Negli occhi di Milton le immagini svaniscono, perdono la loro consistenza, sono fantasmi, come il vento di pallottole che gli ronza vicino e non lo abbandona per tutta la sua corsa disperata. Egli non smette di correre, di fuggire, di combattere contro il suo destino. Tuttavia sembra non esistere la possibilità di varcare il confine che lo separa dalla vita, nessun futuro lo attende, al termine della sua fuga non ci sono lusinghe, ma solo un muro: alto, solido, impenetrabile.
Ci si chiede: che senso ha questo muro? La fine? Il tormentoso interrogativo di Milton (insieme a quello di un’intera generazione di scrittori) e la sua ricerca della verità sono davvero, come si domanda Dante Isella, «un interrogativo e una ricerca che non possono ottenere risposta?» Può davvero finire tutto dinnanzi a un muro: nomi, uomini, vite? Oppure la scivolata di Milton in direzione della fine, il corpo dalla consistenza immateriale e quel nome, Milton, che ricorda il poeta inglese John Milton e il suo Paradise Lost, non sono che un invito a sfidare l’ingombrante fisicità di quel muro per dare forma e voce al proprio “paradiso perduto”?
Lo scrittore Giacomo Verri ha provato a rispondere: il suo “paradiso perduto” si intitola Partigiano Inverno (Nutrimenti), il romanzo con cui esordisce nel 2012, una scelta letteraria dettata non solo dalle contingenze della biografia: «se dovessi riandare con la memoria ai fatti della Resistenza», ricorda Verri, «il filo rosso ideale sarebbe rappresentato dalla mia maestra elementare, la signora Nadia, figlia di Cino Moscatelli, eroe partigiano nato e vissuto dalle mie parti», ma soprattutto l’esito di una precisa scelta linguistica.
Verri cerca di ripercorrere la “Storia” degli eventi, con la “storia” di una “resistenza linguistica”, ovvero con l’invenzione di una lingua dura, spigolosa, petrosa, un idioma a tratti barocco e ridondante, che costringe il lettore a seguirne le tracce con fatica e che proviene dall’imperativo categorico suggerito da quel muro: “oltrepassami”.
E come? Gradualmente, passo dopo passo. Primo: lo scrittore sceglie di non ignorare l’eredità degli scrittori che si sono misurati con il medesimo tema. La Resistenza di Partigiano Inverno, incentrata su alcune vicende accadute in Valsesia nel 1943, come l’assalto partigiano al paese di Varallo e la rappresaglia dei fascisti della Legione Tagliamento, che fucilano dieci persone viene raccontata da tre voci diverse: quella di un insegnante, Italo Trabucco (come non ricordare Corrado, il protagonista della Casa in collina di Cesare Pavese?), quella di Umberto Dedali, un ragazzino di undici anni che vive a Borgosesia con il nonno (inevitabile il riferimento al piccolo Pin del Sentiero dei nidi di ragno, di Italo Calvino) e quella di Jacopo Preti, uno studente universitario, innamorato e passionale, che si unisce ai ribelli delle Brigate Garibaldi, immagine speculare di Milton e Johnny, i partigiani anglofili di Beppe Fenoglio.
Secondo: se dapprima Verri intende evocare l’idea di solidità e coesione sottesa alla storia di Milton, ovvero una vicenda romanzesca (e romantica) dove i protagonisti sono pochissimi e dove il muro finale riflette la solida coerenza della fabula, l’intenzione dello scrittore va ben oltre. All’apparente impenetrabilità di quel muro e alla violenza boriosa con cui si erge sulla pagina (e nella Storia), Verri ribatte con la forza di una “resistenza” linguistica, che impone al lettore un atto di coerenza: non abbandonare la sua compattezza, “resistere” alla sua spigolosità, cercare di comprendere, nello spazio del romanzo, cosa aveva significato opporsi al “muro” di violenza che il fascismo aveva edificato.
Giacomo Verri
Così riprodurre la “Resistenza” mediante la resistenza della propria scrittura, in risposta all’oscena immagine di quel muro, ha significato per lo scrittore (e per il lettore) conoscere la complessità e la durezza insita nella vicenda resistenziale: i fatti, la violenza, gli intrecci di storie, a cui molti anni dopo si propone di restituire consistenza proprio grazie a una lingua inventata per poter narrare, con coerenza stilistica, una vicenda che meritava di essere narrata con la stessa coerenza di chi l’aveva vissuta, insieme a coloro che l’avevano descritta nei propri romanzi.
E dopo Partigiano Inverno? Quale sarà la misura del prossimo passo? Se nel romanzo d’esordio, Verri racconta la Resistenza dentro la Resistenza, “nel fitto di detta guerra” – la noia della vita sempre uguale a se stessa, l’eccezionalità di un eccidio, i pensieri che cadono nel vuoto – il suo secondo libro, Racconti Partigiani (Biblioteca dell’immagine, 2015) è un libro che permette di sorvolare il muro, di volgere lo sguardo verso il passato senza alcuna forma di retorica: i corpi non sono abitati dal vigore, vivi in ogni singola cellula e in ogni istante di tempo respirato come un miracolo. Non è più possibile.
Qual è dunque oggi la forma della Resistenza? Verri suggerisce un altro modo di considerare le vicende di quei venti mesi, in sordina, nell’appendice in fondo al libro, come se fosse il tentativo di fornire innanzitutto a se stesso, dopo l’invenzione di un inedito registro linguistico, l’esegesi autoimposta delle sue scelte letterarie e del loro futuro.
Ebbene la Resistenza oggi si configura come un insieme di memorie, per nulla trionfalistiche o celebrative, ma dimesse, evocate con distacco, eppure concrete, e per questo vicine a ognuno di noi: “spoglie e confidenziali”, scrive Verri, come spoglio e confidenziale è il tono della sua prosa, che delinea i diversi spazi e gli andirivieni temporali, in cui si articolano gli otto racconti che compongono il libro.
Si potrebbe dire che egli abbia plasmato la materia grezza della memoria con mani diverse, dal tocco quasi impercettibile, distante dalla semplice commemorazione del passato. Le pagine dei racconti hanno un andamento frammentario, lontano dalla compattezza linguistica e tematica del romanzo d’esordio, non si è di fronte a una “resistenza linguistica”, alla forza della propria scrittura da opporre alla violenza ideologica, al quel muro apparentemente impenetrabile eretto dal fascismo. Qui trionfano la leggerezza, i ricordi, le imperfezioni, che proprio per questo rendono la Resistenza più vicina a ciascun lettore, le danno un corpo esile, ma più vivo, tenace, duro a morire, stretto a ciascuno dei nostri pensieri: “smettere di fare il partigiano m’è costato come smettere di fumare”, ammette il narratore del primo racconto. E chi non lo può capire?
In nessuno di essi vi è la rappresentazione di memorie addomesticate o il tentativo di ricordare un’immagine della lotta partigiana in maniera celebrativa o edificante. Anzi si legge l’esatto opposto: nei Racconti partigiani, Verri (con i suoi narratori partigiani) rievoca il momento successivo, la sopravvivenza nella quotidianità, la dimensione banalmente normale del “dopo la rivoluzione”: via le armi, via il coraggio, via la vita del ribelle. Cosa resta?
Così nel primo racconto Festa di Liberazione, il 25 aprile del 1945 è nello stesso tempo «la prima domenica concessa da Dio agli uomini», ma con «una malinconia albeggiante per un che di straordinario finito lì, per sempre». Il narratore ammette senza alcuna concessione all’eroismo: «io il fucile l’ho posato all’ora di pranzo e poi tutto è finito. Non potei più tirarlo in spalla sentendo il senso di quell’azione: ormai era diventato un esercizio ginnico, o estetico, o un dolce vanto. Contro chi l’avrei usato?».
O come accade nel racconto il racconto Parlo di Boezio quando un giovane ventenne riconosce il vecchio Boezio Molino, «partigiano di tante battaglie, ferito in quattro scontri», in fila all’ufficio postale per intascare la pensione e pagare una piccola bolletta. Anche in questo caso la sua figura dimessa, umile, per nulla eroica, non viene sminuita, anzi, proprio nel momento in cui esce dallo squallore dell’ufficio, «dando le spalle a tutti quanti», appare il coraggioso giovane partigiano dai grandi pensieri: «di fascisti alla fine ne aveva uccisi tanti, forse quindici tra una battaglia e l’altra. Era bravo a sparare da lontano. Ogni cosa che viene o va lontano gli piaceva. Come le onde radio che si infilavano negli apparecchi che aveva in bottega. Come le donne che amò. Tutte lontanissime, le prendeva solo per l’amore e poi le lasciava andare come uccellini spauriti».
E ancora l’amorevole menzogna del racconto Quel particolare della corda, raccontata per trent’anni da un prete, Don Gianni, che aveva finto di assistere all’impiccagione di cinque partigiani (era invece stato presente un giovane frate che gli aveva confidato di quel momento drammatico), perpetuando nel tempo il ricordo dell’esecuzione: «proprio quel particolare della corda ha colpito Don Gianni (…). Le funi le avevano portate via dalla macelleria, arnesi da carcassa di bue che ora scendono dall’altro, legate attorno al ferro della rotaia, sono corde pulsanti e tese come solo possono essere quando a un capo di esse pende il corpo di un uomo». La parola “Resistere”, prosegue il narratore della storia, «disegna nei miei occhi una bocca in salive, la chiostra dei denti che stride come un gesso sulla lavagna, le labbra contratte, il muscolo del cuore fatto duro e ruvido dallo spasmo».
E poi si arriva al racconto migliore. Non sbaglia Francesco Permunian, quando scrive nella sua Lettera a un amico scrittore, posta come un’introduzione all’inizio del libro, che il racconto Vene sottili e petali di rosa, è una «pagina di acerba iniziazione alla vita». La storia è semplice, anche qui, come nel romanzo-guida di Verri, Una questione privata, si narra di un triangolo amoroso: una ragazza, un giovane partigiano e Sebastiano, un bambino di nove anni. In queste trenta pagine sembra ci sia tutto: l’amore, la giovinezza, le speranze, la bellezza, la violenza, la morte e tutto coincide con la parola “Resistenza”.
Le viscere degli animali che Sebastiano osserva, dopo aver inciso la pelle, come gli ha insegnato il padre, «quel diavolio di organi e di materie lucide», così come «il fazzoletto impregnato d’acqua» e le pallottole sparate dai fascisti, a dispetto dell’atmosfera fiabesca e ovattata, nascondono, direbbe Carlo Emilio Gadda, «una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto».
Il libro termina con una Intervista impossibile a Beppe Fenoglio, anche se non sembra affatto una fine. In realtà pare quasi un punto di partenza, una chiave di lettura tanto del passato quanto della contemporaneità, una frase che avrebbe potuto scrivere Leslie Fiedler a proposito della violenza nella letteratura americana. Da qui si riparte, da questa certezza, che il fascismo, come rivela Fenoglio al giovane Verri, «era solo l’estrema pelle, una copertura oscena e cribrosa di un corpo già corrotto, già debilitato, già ammalazzato, il corpo universale della violenza cieca, un corpo di cui noi tutti partecipiamo in una tragica comunione».
La Resistenza è stata la vera grande risposta. Ora tocca a noi, a ognuno di noi, continuare su questa strada.