Festival del cinema / Il Sessantotto di Cannes
Qualche mese fa iniziò a girare voce che persino Emmanuel Macron avesse deciso di celebrare il ’68 francese all’Eliseo. Il primo Presidente nato dopo il “maggio francese” si presentava alla nazione come colui che sarebbe potuto ritornare su questa ricorrenza per la prima volta senza dogmi o pregiudizi, e “riflettere su quel momento storico per trarne insegnamenti non partigiani e per interessarsi agli impatti che il ‘68 aveva avuto sulla mentalità attuale”, come disse il suo collega Christophe Castaner, uno di quegli ex del Partito Socialista che sono spavaldamente saltati sul carro della modernizzazione neo-liberista in salsa francese di En marche!
Ma qual è il Sessantotto di cui parla Macron? Qual è il Sessantotto che oggi in Francia viene celebrato dalle più svariate istituzioni pubbliche e culturali? Siamo davvero giunti a una tale consapevolezza post-ideologica da poterci finalmente approcciare a questa ricorrenza deprivandola di ogni divisività politica, come invece storicamente è sempre avvenuto in Francia o in Italia? Questa domanda se l’è posta Alain Badiou in Ribellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68, un efficace piccolo pamphlet uscito settimana scorsa in Francia e già prontamente tradotto da Alberto Destasio per Orthotes, una delle migliori case editrici di filosofia attualmente attive in Italia. Secondo Badiou ci sono buoni motivi per essere sospettosi di queste celebrazioni. Alcuni infatti celebrano il 68 perché ormai lo considerano morto e sepolto: la situazione è troppo cambiata – dicono – e così “non ci resta che ricordare la nostra bella giovinezza in completa tranquillità” (p. 15). Per altri invece il 68 va celebrato per via della sua anima libertaria – la trasformazione dei costumi, l’individualismo, il gusto del godimento – che non sarebbe altro che l’annuncio di quello che poi troverà compimento nel capitalismo postmoderno e neoliberale degli anni Ottanta.
Nonostante le mistificazioni – di cui per altro in Italia non mancano gli esempi, a partire dalle campagne antisessantottine di quotidiani come Il foglio – è pur vero che di 68 ce ne sono stati tanti: c’è stato quello degli studenti che hanno posto il problema dell’accesso di massa ai saperi; quello dei lavoratori che si articolò attorno alle grandi fabbriche e alle grandi imprese nazionalizzate (automobilistiche, metallurgiche, chimiche, petrolifere, ferroviarie…) e che darà vita il 13 maggio al più grande sciopero generale nella Francia del dopoguerra; e quello esistenziale debordiano-deleuziano per cui “le questioni dominanti erano la trasformazione dei costumi, i nuovi rapporti amorosi, la libertà individuale” (p. 43). Poi vi fu anche – quello che Badiou chiama un “quarto maggio” – chi questi tre maggio tentò di attraversarli e di “diagonalizzarli” e di pensare al loro incontro come all’opportunità di un rinnovamento profondo delle forme organizzative della sinistra politica e sindacale.
Quell’anno il 68 attraversò anche il Festival del Cinema di Cannes. Per fortunata (o sfortunata coincidenza) l’inaugurazione fu infatti proprio il 10 maggio, la notte in cui gli studenti occuparono il Quartiere Latino, eressero barricate e si scontrarono con la polizia fino a mattina. Anche se l’atmosfera a Parigi era quella di un’insurrezione, la Croisette sembrava lontana e dormiente. Eppure a partire dal 13 maggio, quando la CGT e i sindacati convocarono lo sciopero generale, il festival iniziò ad essere attraversato da orde di studenti in rivolta che solidarizzarono con il movimento parigino e interruppero le proiezioni più volte fino a che il 15 maggio un gruppo di cineasti guidati da François Truffaut, Jean-Luc Godard, Claude Lelouch, Claude Berri, Roman Polanski, Louis Malle e Jean-Pierre Leaud si misero alla testa delle contestazione. La Sala Grande del Palais venne occupata da un’assemblea permanente e venne dichiarato lo “stato di crisi” del festival. I registi non volevano solo solidarizzare con gli studenti ma anche dare una forma pienamente cinematografica alla protesta: venne contestata la decisione dell’allora Ministro della Cultura gollista André Malraux di rimuovere Henri Langlois dalla direzione della Cinémathèque française. Quando la proiezione di Frappé alla menta di Carlos Saura venne interrotta per decisione della stessa interprete principale Geraldine Chaplin, quando Louis Malle, Monica Vitti e Roman Polanski si dimisero dalla giuria, e quando persino Alain Resnais e Milos Forman ritirarono i loro film dal concorso, il Delegato Generale Robert Favre Le Bret si trovò costretto a interrompere il festival e a non assegnare per quell’anno la Palma d’Oro.
Da quella contestazione nacque la Société des Réalisateurs de Films (SRF), che dall’anno successivo iniziò a organizzare la Quinzaine des Réalisateurs, selezione parallela a quella ufficiale e punto di riferimento per un cinema “meno allineato” per tutti gli anni a seguire. Oggi persino Gilles Jacob, presidente onorario del Festival, può dire che quella contestazione “servì a rinnovare il festival”: nel 1972 il delegato generale Maurice Bessy stabilì che fosse il Festival a scegliere i film del concorso, fino ad allora indicati dai rispettivi Paesi, dando un impulso decisivo al successo di Cannes negli anni a venire. E tuttavia fa una certa impressione adesso pensare a quel 68 cannois che fu in grado di rovesciare il festival del cinema più importante del mondo a partire dalle barricate del Quartiere Latino. In molti oggi ritengono che il festival abbia bisogno di una ribaltamento altrettanto radicale visto l’atmosfera sempre più conservatrice che ormai incombe sulla sua selezione, sul suo regolamento farraginoso per i giornalisti (quest’anno letteralmente “umiliati” dalla cancellazione di fatto delle anteprime per la stampa), sull’idea di cinema che in generale emerge dalla Croisette.
È notizia di queste settimane infatti il conflitto che il Festival ha aperto con la più grande piattaforma di streaming del mondo, cioè Netflix. Il problema risale ormai a qualche tempo fa e ne scrivemmo già l’anno scorso, ma negli ultimi dodici mesi la situazione non ha fatto altro che peggiorare. La FNCF, la Federazione nazionale del cinema francese, cioè l’associazione che riunisce gli esercenti cinematografici nazionali (che è membro dell’Association française du Festival international du film che organizza il festival) ha infatti imposto che tutti i film che non hanno una distribuzione nelle sale francesi vengano esclusi dal Concorso, cioè dalla vetrina più importante del Festival. È un atto di miopia non tanto nei confronti di una corporation aggressiva e accentratrice come Netflix, quanto verso tutti coloro che fanno ormai esperienza della visione di un film – nel bene o nel male, il processo è tutt’altro che privo di ombre – al fuori di una sala cinematografica (le quali soprattutto in provincia hanno o definitivamente chiuso o sono state acquistate dai grandi monopoli della distribuzione cinematografica, come in Italia è avvenuto con UCI).
Cannes invece, che sembra sempre più “avvinghiato” alla propria idea di cinema d’autore europeo dalla forte caratterizzazione italo-francese, pensa di poter prescindere da questi cambiamenti, e lo dimostra anche con la selezione di quest’anno – piena di grandi veterani del cinema mondiale con alle spalle carriere pluridecennali – che si apre oggi alla Sala Lumière con Todos lo saben, il primo film “spagnolo” del regista iraniano Asghar Farhadi. Anche oggi, a distanza di cinquant’anni esatti da quel turbolento maggio sulla Croisette, ci sarebbe bisogno un atto di rinnovamento del festival e della propria idea di cinema altrettanto radicale, che però stenta a farsi vedere. E anche se il cinema rimanesse questa volta dormiente c’è da essere speranzosi per quello che sta accadendo nel resto della Francia. I tre “maggio” – studentesco, operaio e culturale – di cui parla Badiou nel suo libro sembrano trovare una nuova vita nelle strade francesi del 2018: a partire dagli studenti universitari e liceali che si stanno opponendo alla riforma Parcoursup, che prevede il numero chiuso nell’accesso universitario sulla base del CV, del liceo di origine e delle attività extra-curriculari svolte; per continuare con gli operai della SNCF, la compagnia ferroviaria nazionale francese, che sono da mesi in sciopero per un progetto di riforma che introdurrebbe la libera concorrenza (e una privatizzazione di fatto del sistema ferroviario); fino al movimento femminista che negli ultimi mesi sta dando un forte impulso di trasformazione a una politica di cambiamento radicale dei costumi e dei rapporti amorosi. Forse l’unico vero modo di “essere fedeli” al Maggio 68, come direbbe Badiou, è di fare come loro. Manca solo qualcuno che, oggi come allora, porti questo vento di rinnovamento anche sulla Croisette.
(Le foto sono prese da ACTUA I di Philippe Garrel. Girato durante gli eventi del maggio parigino, è un montaggio di immagini di varia natura girate in 16mm e 35mm da diversi anonimi protagonisti degli eventi).