Cannes 3/ I premi e i loro fantasmi
Si sa che le giurie dei festival del cinema sono un fenomeno strano: composte per lo più da addetti ai lavori (e non da esperti o studiosi di cinema) che hanno una visione impressionistica della storia del cinema e di solito scarse conoscenze estetiche, sono comunque chiamate a consegnare premi che innescano performativamente processi di canonizzazione e riconoscimento sociale e culturale anche molto significativi. È per questo che nonostante la loro scarsa affidabilità – e le scelte spesso discutibili del recente passato – è difficile ignorarne completamente i verdetti o non discutere dell’impatto che comunque hanno.
Detto questo, ci sentiamo però di ritornare su alcuni dei temi di cui abbiamo parlato nella prima delle tre parti di questo report da Cannes. Il fatto che i processi di canonizzazione culturale siano entrati sempre di più in crisi nel recente passato, e che ci troviamo ormai in un panorama culturale dove coesistono tanti canoni diversi, tante nicchie diverse, tanti linguaggi con cui parlare e discutere dei film, rende i verdetti delle giurie ancora più idiosincratici e soggettivi che in passato. Ma forse quello che in modo ancora più significativo è successo in questi anni è che questi diversi “canoni” sono sempre più impermeabili l’uno all’altro – sono ormai mondi diversi, che non si parlano e nemmeno si capiscono più – con la conseguenza di rendere inattuale quella dialettica moderna tra canone e avanguardia, dove provocazione, critica e messa in discussione del canone andavano di pari passo col suo riconoscimento (anche semplicemente in negativo come figura del potere).
A questo poi si aggiunge un fenomeno relativamente recente, ovvero la questione se un festival del cinema debba considerare i film da premiare come “oggetti culturali generici” – o formazioni ideologiche – che dicono qualcosa delle trasformazioni di una società attraverso gli oggetti della propria rappresentazione, oppure si debba considerare primariamente la forma della rappresentazione e la specificità del linguaggio cinematografico come criterio per un premio. Probabilmente – anche se non possiamo sapere con certezza i ragionamenti che sono stati fatti dai giurati nel considerare tali film meritevoli di ricevere un riconoscimento – si avvicinano di più al primo gruppo film come Touch Me Not di Adina Pintilie che vinse l’Orso d’oro a Berlino nel 2018 con un documentario di grande interesse su sessualità e disabilità, formalmente però abbastanza tradizionale, o All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras, vincitore dell’ultimo Festival del Cinema di Venezia, o andando un po’ più indietro nel tempo, la celebre Palma d’oro a Fahrenheit 9/11 nel 2004 (in un’edizione dove in concorso c’erano Tropical Malady di Apichatpong Weerasethakul, 2046 di Wong Kar-wai, Ladykillers dei fratelli Coen o Clean di Olivier Assayas). Mentre alcuni dei premi che negli ultimi anni sono andati nella seconda direzione sono senz’altro quelli che sono stati assegnati a Nuri Bilge Ceylan, Lav Diaz, Theo Angelopoulos (con Eternità e un giorno del 1998) o Michael Haneke.
Quest’anno la giuria presieduta da Ruben Östlund (che a Cannes ha vinto due volte negli ultimi anni, con film divisivi e molto discussi come The Square e Triangle of Sadness) ha deciso di premiare un film come Anatomie d’une chute di Justine Triet, che nel suo giocare con l’eterogeneità tra il reale e la verità processuale – è la storia di un marito che muore cadendo da un balcone, e noi non sapremo mai se la moglie che voleva divorziare da lui l’abbia spinto o lui si sia suicidato – decide di mettere fuori campo l’etica oltre che la verità, in un modo che è coerente con il pensiero cinico e postmoderno di Östlund. Oltre che un film come The Zone of Interest di Jonathan Glazer – premiato con il Grand Prix della Giuria – che nel giustappore la famiglia di un gerarca nazista che vive in un idillio familiare fuori da Auschwitz con il fuori-campo dello sterminio, mostra di non aver interiorizzato un dibattito lungo decenni sul rapporto tra l’immagine e i campi di sterminio (come invece aveva fatto Il figlio di Saul di László Nemes nel 2015). Due scelte che pur collocandosi in un certo senso a metà tra la riflessione formale e la dimensione politica dell’oggetto rappresentato vanno però senz’altro nella direzione di un premio divisivo e provocatorio, che mostra ancora di più la difficoltà di un processo di canonizzazione del cinema d’autore contemporaneo.
Per tutte queste ragioni, in questa terza parte del nostro racconto del Festival di Cannes abbiamo deciso di non discutere direttamente i film premiati da una giuria che ci è parsa anche quest’anno, come negli ultimi anni, particolarmente idiosincratica e soggettiva, ma di soffermarci su quelli che noi pensiamo essere stati i tre film (che insieme a un quarto che è Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese a cui abbiamo dedicato la seconda parte di questo speciale) attorno ai quali la costruzione di un discorso critico (naturalmente da approfondire a mente fredda dopo il festival) possa essere più interessante e produttivo.
Il primo di questo è Kuru otlar üstüne (titolo internazionale: About Dry Grasses) di Nuri Bilge Ceylan, che già vinse il concorso a Cannes nel 2014 con Winter Sleep, ma che da molti è ricordato soprattutto per C’era una volta in Anatolia del 2011, uno dei film più riconosciuti e studiati degli ultimi anni, e una delle opere che ha più definito il cinema d’autore contemporaneo. Il cinema di Ceylan ha sviluppato per tre decenni una riflessione tra le più rilevanti sul rapporto tra parola e immagine, dando un’importanza alla scrittura che è insolita rispetto alla maggioranza dei film che vengono prodotti oggi e che passano ai festival, ma anche rispetto al modo in cui la scrittura viene usata sempre di più nella maggioranza delle serie tv contemporanee. Spesso i suoi lunghi dialoghi hanno una straordinaria qualità letteraria che rendono i film estremamente densi nonostante le storie che racconta mantengano comunque una grande accessibilità e limpidezza, priva di simbolismo e metafore. Per via dei suoi riferimenti a Čechov e alla tradizione della letteratura dell’Ottocento, Ceylan è stato spesso considerato (e da alcuni anche liquidato) come un regista a rischio di neoclassicismo e persino a volte di maniera. Tuttavia, questo film – che è probabilmente tra i più originali della sua carriera – è quello in cui il regista turco si avventura in modo più esplicito nei territori del modernismo, usando addirittura una sequenza dove un personaggio sfonda la quarta parete ed entra nel set (per poi ritornare dopo una manciata di secondi dentro alla finzione).
La storia di Kuru otlar üstüne si svolge, come molti altri suoi film, nell’Anatolia Orientale, non lontano dalle regioni al confine col Kurdistan turco, anche se le vicende potrebbero essere facilmente universalizzabili anche in altri contesti storici o geografici. All’interno di una lunga serie di dicotomie – vita urbana e rurale, individualità e comunità, bene e male, maschile e femminile – viene collocato Samet, il protagonista del film, che è una classica figura di maschio nevrotico, indeciso e paralizzato tra diverse strade che la sua vita potrebbe prendere, ed è temporaneamente di stanza in una scuola rurale dove deve prestare servizio obbligatorio come maestro di storia dell’arte prima di potersi far trasferire a Istanbul. Samet è un personaggio inetto, cinico e manipolatore, che non suscita la minima simpatia allo spettatore, ma che è attraversato da un’unica esperienza “utopica” che sospende l’indecisione cronica della sua vita: un’amicizia, venata da tratti un po’ seduttivi e complici, con una sua alunna, Sevim – la più brava della classe, che ha 10 o 11 anni – alla quale fa piccoli regali, e con la quale spesso si intrattiene nel suo studio. Quando un’inchiesta della scuola e poi del distretto scolastico locale (con cui Ceylan mostra, anche se in modo sommesso e implicito, alcune patologie del regime di Erdogan) lo mette sotto inchiesta per “comportamento inappropriato”, ma soprattutto quando inizia un gioco di seduzione con Nuray (interpretata da Merve Dizdar che ieri ha vinto il premio come migliore interprete femminile), una collega di sinistra che lo incalza per il suo egoismo e individualismo, la sua vita inizia a vacillare. In questo gioco di proiezioni sugli altri delle incertezze della propria vita, e di eterna transitorietà significante, è come se Samet facesse esperienza non solo della profonda contingenza della propria esistenza, ma anche di come il suo narcisismo si fondi in realtà su un costante rigetto della morte. L’ultimo atto del film, che scivola in un soliloquio dal tono apertamente filosofico rappresenta probabilmente una delle vette del cinema di Ceylan e uno dei momenti di più compiuta auto-consapevolezza della propria riflessione.
Un altro tra gli eventi più attesi dell’edizione di quest’anno è stata la première di Cerrar los ojos, il nuovo attesissimo film del regista spagnolo Victor Erice che arriva addirittura 31 anni dopo il precedente El Sol del Membrillo. Erice rappresenta una sorta di mito sotterraneo del cinema europeo del Novecento, basti pensare che il suo primo lungometraggio El espíritu de la colmena, è stato realizzato quando Franco era ancora al potere in Spagna, e che Cerrar los ojos è soltanto il suo quarto film, nonostante abbia 83 anni. Il film che è una straordinaria riflessione sulla memoria e il suo rapporto con il cinema ci ha fatto venire in mente una frase con cui Paolo Cherchi Usai apriva Death of Cinema: “una civiltà che è preda dell’incubo della sua memoria visiva non ha più bisogno del cinema. Perchè il cinema è l’arte della distruzione delle immagini in movimento”. La memoria in effetti non può che fondarsi sul suo essere selettiva, quindi sulla cancellazione, sulla dimenticanza, sull’oblio. L’idea che tutto possa essere ricordato e quindi registrato – che nulla di tutto quello che accade possa mai scomparire – è l’incubo di una civiltà dove il tempo non esiste. E che quindi oltre a rigettare il passato come luogo della scomparsa, non può che rigettare anche il futuro come luogo della trasformazione.
Cerrar los ojos è la storia di un attore, Julio Arenas, che nel 1990 durante la lavorazione di un film scompare, lasciando il proprio lavoro a metà. Molti lo credono morto, altri come l’amico e regista Miguel Garay pensano invece che lui abbia voluto far perdere le proprie tracce. La tragedia ritorna come farsa dopo più di vent’anni quando il mistero della scomparsa di Julio Arenas diventa oggetto di uno speciale televisivo che ne indaga la vicenda e la presunta morte. È da lì che si viene a scoprire che Julio in realtà ha perso completamente la memoria (ma lo shock è conseguente o è la causa della sua decisione di tagliare i ponti col mondo?) e che i segni della sua vita passata (oggetti, immagini e naturalmente film e pezzi di film) è come se costituissero una memoria esterna, che sta al di fuori del suo corpo nonostante faccia parte di lui.
Perdendo la memoria smettiamo di essere quello che siamo? O forse c’è qualcosa di noi che è irriducibile alla memoria intesa nel senso di bagaglio di informazioni ed esperienze passate? È quello che si chiede il neurologo di Julio in uno dei dialoghi più densi del film. Ed è quello di cui moltissime famiglie fanno esperienza attraverso l’Alzheimer dei propri cari o in tutte quelle malattie che segnano un declino cognitivo del soggetto. Il problema della memoria non può che allora essere legato a quello dell’identità: cosa succede quando il soggetto sembra essere “azzerrato” dai contenuti della memoria e della propria vita? È ancora lui o è diventato qualcosa di diverso? Che cosa è un soggetto quando il contenuto della sua vita sembra scomparire? E qual è la strategia per rapportarsi a un soggetto che sembra non avere più memoria di sé e del mondo? Andare a scovare gli ultimi rimasugli di memoria che sono rimasti o radicalizzare ancora di più l’eterogeneità di memoria e soggettività (e sguardo)?
Qui il film di Erice intreccia un film nel film, quello appunto del 1990 da cui Julio si è allontanato e che apre Cerrar los ojos. Una storia di un Re triste (la sua dimora si chiama Triste-le-roy ed è una citazione da La muerte y la brújula di Borges) e di una figlia scomparsa in Cina che gli donerebbe uno sguardo che nessuno potrà mai dargli e che a lui manca. L’investigatore interpretato da Julio nel film è quello che allora dovrebbe indagare per ritrovare questo sguardo e che ritornerà solo al termine del film. Molti sono qui i riferimenti biografici e gli intrecci tra realtà e finzione: da un lato il ricordo “finzionale” del film di Julio è parte integrante della sua vita (le foto di scena vengono conservate come se fossero foto reali), ma il film mai concluso ricorda anche biograficamente El embrujo de Shanghai che Victor Erice avrebbe dovuto dirigere e al quale iniziò a lavorare, ma che poi venne girato da Fernando Trueba.
Ma la questione a cui sembra mirare in questo film Erice è molto più che aneddotica e non è certo riducibile al gioco postmoderno dell’indistinzione tra realtà e finzione. Il problema è semmai chiedersi che cosa sia l’esperienza del soggetto e soprattutto quella dello sguardo quando nulla è più riconducibile a un oggetto particolare o a un contenuto sulla pellicola, perché tutto è stato dimenticato. Lo sguardo nella sua forma più pura è senza passato né futuro: è – come diceva Freud della pulsione – una zona di indistinzione tra l’attivo e il passivo. O tra l’oggetto e il soggetto. Non è il guardare qualcosa ma il taglio degli occhi che si chiudono o che vengono svelati fugacemente da un ventaglio orientale. Forse è l’unico modo possibile di guardare in un mondo che ha fatto della memoria assoluta la propria religione, e che è abbagliato dai contenuti dell’immagine senza riuscire a vedere più nulla. Si tratta allora di guardare con gli occhi chiusi, ed essere finalmente in grado di abitare il miracolo della visione. Quello a cui nessuno, nella prosaicità del digitale, ormai crede più.
Un’altra grande riflessione sulla memoria passata quest’anno a Cannes – e tra le cose in assoluto più stimolanti delle due settimane di visioni – è stato Retratos Fantasmas del regista brasiliano Kleber Mendoça Filho, presentato tra le Séances spéciales del Festival. Si tratta di un documentario dedicato a Recife – città natale del regista e sfondo di tutti i suoi film – e del suo rapporto con il cinema in un periodo in cui la città, come molti altri centri urbani in giro per il molto, è in via di radicale e traumatica trasformazione per via della gentrification e dell’inflazione dei prezzi degli immobili nei centri storici. Come già in Aquarius, presentato a Cannes in concorso nel 2016 e di cui questo film costituisce in un certo senso il controcampo, Kleber si ossessiona per i luoghi del cinema: prima quella privati, della propria casa, dove molti dei suoi film sono stati girati durante la sua gioventù, e poi quelli pubblici, ovvero i cinema della città, dove la sua educazione sentimentale di cinefilo prima e di regista poi si è formata. I cinema di Recife e il loro sottobosco di proiezionisti, programmatori, e avventori sono il vero centro del film e Kleber riesce con un tono che è a metà tra il dimesso e l’ironico a restituire uno spaccato di alcuni decenni di storia del cinema non solo di Recife, ma in un certo senso di tutti quei luoghi che hanno costruito parte della loro socialità attorno alla sala cinematografica pubblica e collettiva.
Retratos Fantasmas è uno dei quei film che riescono nel capolavoro di sviluppare riflessioni di grandissima profondità pur mantenendo un tono semplice e affabile. In un centro storico come quello di Recife che, come nelle grandi città degli Stati Uniti, è stato soppiantato dai nuovi quartieri creati dal nulla molto più adattabili alla speculazione edilizia, il declino dei luoghi pubblici e collettivi lascia spazio a un apparente degrado che però non è altro che l’impossibilità di far completamente fuori la memoria di una socialità urbana che continua a insistere nella forma del suo fantasma oscuro. E in effetti che cosa è l’immagine cinematografica se non la memoria: non nella sua dimensione cosciente e consapevole, ma in quella inconscia e denegata? La memoria ma senza che un soggetto sia in grado di ricordarla, come nel film di Erice. La memoria incarnata non dalla mente di una persona, ma da una pellicola, da un cinema abbandonato in una città del nord-est brasiliano o dall’erba seccata dal sole di un paese di campagna dell’Anatolia dove un maestro elementare va a pensare della propria esistenza.