Cannes 1/ Cannes, i data e la crisi del simbolico 

19 Maggio 2023

Basta parlare con chiunque abbia oggi attorno ai vent’anni – come capita a chi scrive insegnando cinema in un’università pubblica americana – per avere un senso del tipo di evoluzione che ha avuto nell’ultima generazione il discorso attorno al film e alle immagini in movimento. Chi ha oggi vent’anni ha già trascorso gli anni più importanti della propria formazione audiovisiva nell’epoca delle streaming platform e delle immagini in movimento diffuse, senza canone e dunque senza gerarchie. I ventenni di oggi sono già, per così dire, degli streaming native. E cambiando la mediazione sociale delle immagini si è anche necessariamente trasformato il modo con cui le immagini vengono collettivamente analizzate, comprese, e dunque il modo su cui di esse si scrive.

Parrebbe incomprensibile parlare oggi di crisi della critica cinematografica in un festival di Cannes che vede il numero dei giornalisti accreditati in costante crescita (oltre ai quotidianisti sono sempre di più i blog, i siti, gli account social, i podcast e chi più ne ha più ne metta), fino ormai a rendere un inferno l’esperienza festivaliera, dal procacciamento dei sempre più rari biglietti al sovraffollamento delle sale. Ma in effetti la trasformazione della critica non passa da una sua scomparsa ma dal cambiamento della sua funzione sociale: è ormai un “punto di vista” indistinguibile da quello dello spettatore generico, perché in realtà gli è completamente sovrapposto. La critica “non critica” più: ma non nel senso che non emette giudizi di valore (lo fa semmai sempre di più e in modo sempre più soggettivo e idiosincratico), ma che non riesce più a produrre una gerarchizzazione tra le immagini. Anche se forse gerarchizzazione non è il termine migliore, dato che gli apologeti del nuovo sono soliti rispondere che quello che sta avvenendo è un processo di democratizzazione della presa di parola. La critica non riesce più a mettere in forma le immagini, che sono passate dall’essere una mediazione del mondo – e quindi parte di un processo di interrogazione e domanda di senso – a diventare indistinguibili dal mondo stesso.  

L'allestimento del Palais des Festivals a Cannes, 14 maggio 2023 (ph. Valery Hache, via "Le Monde")

Un collega a margine di una proiezione durante il primo giorno di festival mi diceva che ormai il programma di Cannes assomiglia sempre di più alle schermate delle piattaforme tipo Netflix: c’è un sacco di roba ma è tutta accatastata senza ordine e senza forma. Sembra esserci tutto, eppure non ti viene voglia di vedere niente. Il programma di Cannes è ormai diventato un moloch inquietante dove esiste tutto e il contrario di tutto: dove le sezioni première, fuori concorso, proiezioni speciali – che dovrebbero essere solo delle “aggiunte” a lato delle sezioni “curate” dai selezionatori – sono diventate talmente elefantiache da essere un altro festival nel festival. Quest’anno, solo per dare l’idea, tra le proiezioni speciali e première ci sono il nuovo Indiana Jones, il nuovo film di Scorsese, l’anteprima della serie tv “The Idol” di Sam Levinson, e poi Valérie Donzelli, Lisandro Alonso, Takeshi Kitano, Wim Wenders, Pedro Costa, Steve McQueen, Kleber Mendonça Filho, Wang Bing, Pedro Almodovar, Anurag Kashyap, Robert Rodriguez ecc. L’intasamento di film è diventato tale che molti di questi diventano di fatto “invisibili” venendo magari relegati a una sala marginale in orari impossibili. Insomma, è più importante che i film ci siano, non che vengano visti. Quello che si dice e si riflette sull’esperienza del film è ormai secondario: è sufficiente esserci (e questo vale anche per il grande asset simbolico per molti degli accreditati presenti: potere vedere un film prima degli altri, e poterlo mostrare sui social). 

Cannes che a parole vorrebbe essere l’alternativa al cinema dei giganti dello streaming, che ormai sono le nuove vere major di Hollywood, sta finendo così per riprodurne non tanto i contenuti (ai film che escono direttamente su Netflix e che non hanno una finestra distributiva nelle sale, ancora oggi non viene permessa la partecipazione al concorso) quanto molto più insidiosamente la forma. Le immagini esistono ormai l’una accanto all’altra, senza che più un discorso – critico o curatoriale-festivaliero che sia – possa dargli una forma. È come se il festival stesso, dall’essere un’istituzione del processo di mediazione sociale e di canonizzazione delle immagini, fosse stato investito da quel processo di violenta disintermediazione sociale che ha caratterizzato la società intera negli ultimi decenni (e che nel cinema ha avuto un’accelerazione specifica a partire dal dominio dell’immagine digitale). 

Se in effetti noi andassimo a chiedere al ventenne di cui sopra come viene “messa in forma” e “ordinata” la sua scelta delle immagini e dei film da vedere, avremmo come risposta una app come Letterboxd, i ratings di IMDB o di Rotten Tomatoes, o qualche subreddit su qualche tema specifico. Il successo di Letterboxd in questo senso rappresenta un passaggio emblematico: il discorso su un film non viene più “mediato” da una figura qualificata (per via della propria formazione specifica) o parziale (come nel caso della critica militante) come potrebbe essere il critico cinematografico, ma da una quantità enorme di dati che mettono insieme quella che è l’opinione “media” delle mini-recensioni dei propri utenti (che esistono a partire da una parità di livello che è anche indifferenza). Così come la homepage di Netflix o Amazon Prime viene generata a partire dai dati degli utenti, così Letterboxd rappresenta il definitivo passaggio dalla mediazione critica a quella dei data. È come se l’ordine simbolico che mette ordine alle immagini non avesse più un carattere di attribuzione di senso o di parzialità, ma non fosse altro che la “media” di un discorso generale/generico. Nel nome della detronizzazione dei privilegi della presa di parola e della democratizzazione della produzione discorsiva, il discorso sui film è ormai sempre più organizzato e generato dai dati.

Il fatto che persino a Cannes – a parole, una delle ultime istituzioni di mediazione qualificata e parziale del discorso cinematografico – regni ormai sempre di più la giustapposizione di particolarità irrelate e giustapposte, indica che quello che stiamo assistendo in termini di esperienza e discorso sulle immagini è una vera e propria trasformazione del simbolico. O forse, – dato che il simbolico è inseparabile da un processo, per quanto parziale e contingente, di messa in forma e di attribuzione di senso – dalla sua crisi. 

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Un film significativo in questo senso, passato in questi primissimi giorni di festival è stato Occupied City di Steve McQueen (già regista di 12 anni schiavo, Hunger e Shame), passato fuori concorso in una proiezione speciale: un lungo documentario di più di quattro ore incentrato sull’occupazione nazista di Amsterdam durante la Seconda guerra mondiale. L’operazione di McQueen in questo film è quella di sovrapporre delle immagini contemporanee della città con una voce off che racconta – casa per casa, indirizzo per indirizzo – di quello che in quel luogo è avvenuto durante gli anni di occupazione. L’effetto è quello di uno straniamento dato dalla sovrapposizione tra le immagini di vita quotidiana della città che abbiamo davanti agli occhi e quello che invece le parole dicono di quello che lì è successo 80 anni fa e di cui spesso non c’è alcuna traccia. Ma se da un lato l’insistenza sul presente e sull’assoluta mancanza di immagini di repertorio potrebbe far pensare a un approccio quasi lanzmanniano alla storia, il film sembra prendere in definitiva un’altra strada. I quadretti che McQueen crea, che durano solo pochi minuti l’uno e che non vanno al di là dell’aneddoto, si ripetono in forma sempre uguale dando l’impressione allo spettatore di una realtà fatta da tanti piccoli particolari giustapposti, privi di un ordinamento simbolico e di una chiave di senso. È come se la storia, composta da tanti piccoli dettagli messi l’uno accanto all’altro, non desse più un’immagine nitida di sé stessa, nonostante la mole di informazioni che riceviamo sia assolutamente considerevole (è un film di quattro ore, costantemente parlato e il cui tema è tutto sommato abbastanza circoscritto). McQueen ci ha sempre abituato a un racconto della storia fatto da sensazioni immediate, corporee, quasi prelinguistiche: emblematico il racconto della schiavitù di 12 anni schiavo incentrato sulle sensazioni di dolore corporeo, più che sulla dimensione politica e storica del fenomeno. Qui allo stesso modo l’immagine della storia che emerge, priva di una forma di senso, è quello di una radicale opacità. Più aumenta la mole di parole che riceviamo e più la nostra comprensione della storia diminuisce. 

Ma un altro film che sintomaticamente mette a tema la crisi del simbolico è il film d’apertura del festival, Jeanne du Barry di Maïwenn: megaproduzione francese che racconta della cortigiana popolana amante di Luigi XV, che riesce tramite la sua storia d’amore con il re ad accedere alla corte di Versailles e a diventare il centro degli sguardi e delle invidie di corte. Girato a Versailles con budget e cast internazionale (il re è interpretato da Johnny Depp, non senza polemiche viste le recenti vicende processuali), è una variazione sul tema dei “film di corte”, diventati ormai un sottogenere con le sue convenzioni e richiami. La dialettica che muove l’intreccio è infatti quella già vista, tra gli altri, in Spencer di Pablo Larraín: la corte è un luogo di ritualità anacronistiche e fuori dal tempo, emblema di un ordine simbolico inaridito e privo di vita. È solo a partire dalla messa in tensione di un punto di vista esterno – qui incarnato da Jeanne du Barry/Maïwenn, anche visivamente differente rispetto al resto delle donne di corte, e volutamente cacofonica rispetto alla verosimiglianza storica, come in Marie Antoinette di Sofia Coppola – che questo ordine viene esposto alla sua falsità. Il problema è che l’ordine simbolico rigettato dal contenuto, ritorna nella forma attraverso la convenzionalità della mano registica e la prevedibilità della scrittura. Ed è un peccato perché la regista francese in passato ci aveva abituato a qualche audacia in più, come in Polisse in 2011.

(prima parte - continua)

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