Catastrofe dell’assenza: The Beast
Nel prologo di The Beast, l’ultimo film di Bertrand Bonello uscito in questi giorni in Italia dopo la prima veneziana del 2023, vediamo Gabrielle, un’attrice interpretata da Léa Seydoux, che recita una scena di un film horror di fronte a un green-screen: in una stanza vuota deve urlare, muoversi di scatto, prendere in mano un coltello e immaginarsi di confrontarsi e battersi con una non meglio identificata bestia. Ma dietro di lei non c’è nessuna scenografia, nessun costume, soltanto un astratto apparato tecnologico che è a servizio della sua re-iscrizione digitale. E infatti la scena si tramuta in un glitch digitale prima di scomparire definitivamente dallo schermo e dare così inizio al film. Basterebbe guardare alcuni degli outtakes di molti dei cinecomics o film catastrofici degli ultimi anni per notare come ormai gran parte del cinema mainstream abbia abbandonato completamente la dimensione passivizzante del fotografico: quella che aveva affascinato Bazin e Deleuze, perché era in grado di castrare l’autorialità artistica facendo emerge la dimensione eterogenea di un visivo di tipo nuovo: macchinico, inconscio e angoscioso. Il cinema di oggi – proprio per la sua dimensione scritturale e digitale – tende invece ormai sempre più verso l’animazione. Che ne è dunque dell’inconscio visivo del fotografico? Di quella dimensione del visivo che è emersa quando una camera si è messa a guardare il mondo indipendentemente dalla mediazione dell’artista? Quel visivo che ha detronizzato l’artigiano aristocratico con il suo sapere pratico e l’ha ridotto a essere l’operatore piccolo-borghese di una macchina? O per meglio dire, che ha ridotto l’artista a essere lo spettatore di sé stesso?
Sembrerebbe un paradosso: e invece è quello che Bonello coglie più nitidamente nella parte del film che si svolge nel 2044, in un mondo molto somigliante al nostro ma che è dominato dall’Intelligenza Artificiale. È un modo che sopprime ancora di più l’eterogeneo e l’inconscio, dove gli umani vengono non solo ridotti ad appendici delle macchine (Léa Seydoux lavora curiosamente come controller della temperatura di alcune superfici… un lavoro che sembrerebbe già oggi essere molto più alla portata di una macchina anche molto rudimentale), ma vengono riprogrammati per poter sopprimere ancora di più ogni emozione di disturbo. È paradossalmente un mondo molto più “umano”, anche se di un’umanità senza paura e senza angoscia, e quindi senza l’“inumanità” fondamentale dell’inconscio e dei punti ciechi della soggettività: l’AI come mondo della visibilità assoluta. È lì che la donna che viene interpretata da Léa Seydoux si sottopone a un’operazione di riprogrammazione del proprio DNA che cancellerebbe ogni paura e ogni trauma passato, ma per via di uno 0,7% di ineliminabile errore della macchina, il corpo della protagonista si oppone involontariamente all’operazione.
Le storie – ci dice Bonello tramite il protagonista maschile del film, interpretato da George MacKay – si iniziano dalla fine. E a partire da questo imprevedibile effetto collaterale del 2044 il film si dipana attraverso altre due linee temporali passate – quasi come se fossero due rimossi – una a Parigi nel 1910 e una a Los Angeles nel 2014, dove due protagonisti che hanno la stessa fisionomia di quelli del 2044 si reincontrano: spesso secondo pattern simili, recitando battute simili, comportandosi in modo simile. L’effetto è quello di una storia polverizzata che, come in uno specchio rotto in mille pezzi, è fatta di pezzi di tempo che si disperdono in modo centrifugo (e non a caso uno dei locali del 2014 a Los Angeles si chiamerà Fractal). Un’atmosfera resa ancora più opaca dalle proliferazioni di schermi digitali, camere a circuito chiuso, finzioni e simulacri impazziti (dalle bambole del 1910 ai robot di oggi), così come di prefigurazioni future (i sensitivi come in Coma) o di pezzi di nostalgia passata come nelle discoteche del futuro dove ci si veste e si balla come se si fosse nel 1963 o nel 1980.
In questa struttura frammentaria prende corpo il tema narrativo principale del film, che sarà destinato a ripetersi in ogni stanza temporale: quello della novella The Beast in the Jungle di Henry James. Si tratta di uno dei racconti dei primissimi anni del Novecento dove la scrittura di James si avvicina – similmente al film di Bonello – a un iper-trattamento dello scandaglio analitico attraverso un narratore che è molto più osservatore che testimone della storia. The Beast in the Jungle è appena successivo di The Sacred Fountain, a cui ne è tuttavia stilisticamente apparentato e di cui Giorgio Agamben dirà che “[Il narratore] pur essendo uno dei personaggi, è anonimo, senza volto e senza sesso, così da distinguersi nettamente dagli altri, che sono tutti da lui accuratamente nominati e descritti […] Egli sa molto presto di essere sulle tracce di qualcosa di assolutamente straordinario, di cui è il solo ad avere la chiave: una ‘legge’ capace di “governare quei delicati fenomeni” con cui la sua fantasia stava giocando.”
La storia di The Beast in the Jungle (che corrisponde grosso modo alla linea temporale del 1910 del film) racconta di John Marcher e May Bartram, due giovani trentenni che si incontrano in una casa londinese: una decina di anni prima si sono trovati, con la complicità di conoscenze comuni di cui hanno conservato scarsa memoria, a condividere una vacanza a Napoli. Durante una passeggiata nei pressi di Sorrento, Marcher ha fatto a May Bartram una confidenza, che entrambi progressivamente riescono a mettere a fuoco. Basta questo sfuggente dettaglio per costruire una strana complicità che non avrà alcun carattere sentimentale ma che accompagnerà i due protagonisti per tutta la loro vita fino alla morte. The Beast in the Jungle è uno di quei racconti caratterizzati da quella che Edmund Wilson definirà “l’ambiguità di Henry James”: “[L’ambiguità] finirà per superare ogni limite in quelle scene dei suoi ultimi romanzi [...] in cui i suoi personaggi fanno lunghe conversazioni e dove c’è un fraintendimento fondamentale da parte di entrambi gli interlocutori ma dove nessuno dei due cede mai all'impulso di dire una delle cose ovvie che chiarirebbero la situazione”.
Sono queste lunghe conversazioni apparentemente superflue che avvicineranno il tardo James a quello che negli anni successivi verrà definito anti-romanzo e che compongono la quasi interezza dei dialoghi di The Beast in the Jungle. Bonello tuttavia estrarrà da questo racconto-non-racconto (non succede letteralmente nulla nel racconto di James) soprattutto la sua confezione melodrammatica: l’idea cioè di raccontare una coppia amorosa a partire dall’ostacolo che ne caratterizza l’impossibilità (ma che nello stesso ne eleva l’amore a idea assoluta). La bestia del romanzo costituisce infatti l’ostacolo che impedirà alla coppia di diventare fino in fondo tale: una sorta di incombente minaccia che farà di John Marcher un personaggio eternamente in attesa; una specie di quintessenza del nevrotico eternamente indeciso e impossibilitato a ribaltare il tempo dell’attesa in tempo della precipitazione decisionale. E tuttavia il geniale colpa di scena del romanzo – un vero e proprio rivolgimento dialettico – è quello per cui alla fine John Marcher si accorge che in realtà l’evento che lui stava eternamente aspettando era proprio lì di fronte ai suoi occhi, ed era l’amore per May Bartram che l’ha aspettato in questa attesa lunga una vita sacrificando per lui la sua stessa felicità. La bestia da minaccia esterna diventa interna: è la bestia del non essere capace di cogliere il Kairos della scelta soggettiva nel momento in cui questa si propone. È quindi una novella che parla di quell’incapacità così tipica nelle nevrosi ossessive maschili di prendere la decisione e spezzare la struttura del tempo. La struttura del tempo invece oggi si è fatta sempre più orizzontale: pezzi di tempo che vanno e vengono, tra rimosso e ritorno del rimosso, che tuttavia non riescono mai a farsi verticali. La storia d’amore di Gabrielle e Louis è allora destinata a ripetersi sempre in un eterno incontro mancato, profetizzato da una sensitiva digitale che infatti prevederà che il loro incontro sessuale non possa che avvenire nei sogni.
È interessante che Bonello, da sempre affascinato dai passaggi all’atto (come in Nocturama, che raccontava un passaggio all’atto anche politico, flirtando con l’immaginario del Comité invisible) o da storie di destituzioni soggettive para-psicotiche (come in Zombie Child), faccia qui un film che è tutto giocato sull’impossibilità nevrotica e la frustrazione, e su un’incapacità anche di passare all’atto sessuale: The Beast è infatti un film che mostra l’angoscia che sta al cuore della sfera della sessualità (come nel capitolo sull’incel di Los Angeles, mutuato su Elliot Rodger), traslandola tuttavia in una fitta serie di motivi visivi che ne fanno da ostacolo (dagli schermi digitali, al piccione, alle bambole, persino ai pop-up digitali).
Tuttavia, l’ostacolo principale all’incontro sessuale tra Gabrielle e Louis sarà soprattutto la minaccia sempre incombente di una catastrofe, che diversamente dalla novella di James è qui anche sociale e politica: l’alluvione di Parigi del 1910, che finirà per far annegare la coppia mentre si consuma un incendio di bambole e di occhi di vetro; ma anche il terremoto di Los Angeles del 2014, che allegorizzerà il mondo del narcisismo diffuso (dei social network, ma anche della moda, incarnato dal personaggio di Dasha Nekrasova del podcast Red Scare, che interpreta sostanzialmente se stessa) e della misoginia degli incel. E tuttavia, come in tutte le storie di nevrosi e come in tutti i melodrammi degni di questo nome, l’impossibile è anche e sempre una condizione di possibilità dell’incontro amoroso; il terrore è anche e sempre un principio di erotizzazione; l’angoscia è anche e sempre un mezzo per poi arrivare a una messa in forma soggettiva. Lo slasher movie losangelino, che occupa il centro del film e che non può che finire letteralmente in un “bagno di sangue”, mantiene ancora il simulacro di una possibile comprensione tra Gabrielle e Louis. La vera catastrofe, ci dice Bonello, è allora solo e veramente una: ed è l’assenza di catastrofe. È nel mondo dove l’AI ha la faccia “umana troppo umana” di Guslagie Malanda (l’ultima incarnazione delle bambole – un altro dei grandi temi del film – che vediamo diventare sempre più umane a partire dal 1910 e fino al 2044, e che finiscono per diventare uno dei pochi abitanti che in una terra deprivata d’ossigeno possono andare in giro senza maschera) che la paura e la bestia sono stati igienizzati, e quindi non sono più nulla.
Sarà allora il grido finale di Léa Seydoux l’ultima resistenza alla catastrofe? Un ultimo sussulto dell’angoscia? Forse. Ma è nel finale del finale che avviene il colpo di genio di Bonello, che al posto dei credits mette un QR-code per vedere la lista di chi ha lavorato al film: e che così sfonda la quarta parete e ci mostra quello che implicitamente era già stato profetizzato nelle due ore e mezza precedenti: un pubblico fatto di smartphone che guardano lo schermo del cinema e che poi si incamminano verso l’uscita del cinema assorti nei propri schermi digitali.