Cannes 77/2. Coppola e il crollo dell'impero

20 Maggio 2024

Si dice spesso che l’immagine digitale – con la sua infinita riproducibilità e ubiquità in una molteplicità di schermi giustapposti l’uno accanto all’altro – abbia innanzitutto, nel bene e nel male, detronizzato il luogo storico (e moderno) dove si consumavano le immagini e si rifletteva collettivamente su di esse: la sala cinematografica. Questo non vuol dire evidentemente che le sale cinematografiche non esistano più: ma che il ruolo storico che hanno avuto all’interno della società e del nostro immaginario è cambiato. È per questo che quando si parla della crisi contemporanea del cinema, bisognerebbe chiarire che non si sta tanto parlando del cinema come istituzione quanto di una crisi della forma storica dell’esperienza cinematografica.

È come se fossimo in un interregno dove, come diceva Gramsci, “il vecchio muore e il nuovo non può nascere” e in cui fare un film può voler dire tante cose diverse. E non è solo perché si può fare sia un’opera meta-cinematografica e ironica (Dupieux), o con una vaga impostazione di critica sociale (l’esordio di Agathe Riedinger Diamond Brut o Bird di Andrea Arnold), o dove il registro personale e quello storico-politico si intrecciano senza mai fondersi (Thierry de Peretti), giusto per rimanere ad alcune delle cose interessanti viste nei giorni scorsi.

Non è solo che siamo arrivati alla pagina bianca, dove tutti gli stili e le soluzioni formali della storia del cinema possono convivere le une accanto alle altre. Ma è anche che la pagina bianca può diventare una tavolozza, un murales, o forse smaterializzarsi fino a farsi una performance, un’installazione, un ready-made. Insomma, che cosa vuol dire fare un film oggi, nel 2024, quando la maggioranza del nostro consumo delle immagini è transitato verso altri schermi e altri supporti? Qual è il suo significato? Quale la sua forma? 

Non è un caso che i film più ambiziosi e interessanti che sono passati negli ultimi anni a Cannes abbiano quasi tutti provato a misurarsi con questa domanda. O quanto meno si siano collocati all’altezza storica di questo problema. E forse, il fatto che Megalopolis di Francis Ford Coppola, passato qualche giorno fa in concorso, abbia ricevuto delle reazioni tanto contrastanti e polarizzanti, non dice tanto del film in sé (che è certamente bizzarro, sopra le righe, e fuori registro secondo qualunque buona norma arthouse) quanto di noi che lo guardiamo.

Cosa fa di un film un buon film nel 2024? Una bella storia con dei personaggi ben scritti e psicologicamente complessi? Deve creare identificazione? Parlare d’attualità? Avere una forma trasparente e comprensibile? Evitare salti di registro? Che cosa cerchiamo quando posiamo sugli occhi su uno schermo? E perché? Forse è questo che bisognerebbe chiedere ai critici, indipendentemente dalle stellette e dal giudizio di valore che vengono dati a un film: quali sono le categorie estetiche che fanno di un film un buon film nel 2024? E perché? Che tipo di ragionamenti e di riflessioni ci sono dietro?

La storia produttiva di Megalopolis lo rendeva già prima dell’inizio del festival uno dei film più attesi di questa edizione. Coppola iniziò a pensare a un libero adattamento negli Stati Uniti contemporanei della storia della congiura di Catilina già a partire dai primi anni Ottanta, ma diverse difficoltà finanziarie ne avevano sempre ritardato lo sviluppo. Ci riprovò nel 2001, ma poi desistette per via dell’11 settembre, il cui clima rendeva di difficile realizzazione un film che doveva comunque narrare una storia con una forte dimensione utopica. È solo grazie a un’ingente immissione di denaro personale (Coppola è anche produttore del film) che il film riesce finalmente a vedere la luce oggi, anche se il contesto del 2024 ne ricontestualizza e attualizza inevitabilmente alcuni dei significati. 

Perché la congiura di Catilina – che il mondo ha sempre considerato una cospirazione solo perché il racconto è stato appannaggio di quelli che hanno vinto, come Cicerone – è stata l’occasione persa da parte di un impero di salvare se stesso nel momento della sua decadenza, proprio come oggi sta avvenendo con l’Impero americano, al cui progetto nessuno crede più (“Quando avviene il crollo di un impero? In un momento particolare? O quando semplicemente la gente smette di credere in esso?”). E allora si tratterà di raccontare “una fiaba” (viene chiamata così nel prologo), su come sarebbero potute andare le cose, o su come forse potrebbero ancora andare se prendessimo in mano le redini di questo mondo e non lo lasciassimo “al potere insaziabile di pochi uomini”. 

Megalopolis è stato fischiato e persino deriso da diversi critici a Cannes per essere la fiera del kitsch, dell’eccesso, del disprezzo di ogni buona misura e buona forma: ma che cosa c’è dietro questo (cattivo) gusto per la giustapposizione dissacrante e il sovrapporsi di registri antitetici e contraddittori tra loro? Ci pare che si tratti di una delle figure più emblematiche dell’estetica contemporanea, che è la continuità (o l’assenza di separazione) tra opposti. L’antica Roma è già la New York contemporanea, ed è già la società del suo superamento utopico. Il Colosseo è il Madison Square Garden; gli slum del sottoproletariato della città sono appiccicati alle celebrities e ai luoghi che calcano i ricchi protagonisti del film, così come le immagini digitali del film (iperilluminate, completamente a fuoco e sovraccariche di dettagli) sono prive di profondità e di chiaroscuri dando l’impressione di un accatastarsi di particolari senza una vera gerarchia. Siamo insomma nel regno dell’orizzontalità e dell’indistinto, dove anche il tempo (vera ossessione del film, a partire dal prologo in cui Adam Driver ferma lo scorrere della storia) sembra avere perso la sua presa sul mondo. 

Il protagonista del film è Cesar Catilina (una crasi tra Catilina e Giulio Cesare, ma dietro di lui si intravedono i contorni dei grandi imbonitori della cultura high-tech contemporanea, da Elon Musk a Jeff Bezos) e il suo progetto utopico di costruzione di una nuova città dove vige il “fun” e l’“entertainment”. All’inizio del film vediamo una delle classiche case popolari newyorkesi di mattoni rossi venire rasa al suolo per fare spazio a questo progetto avveniristico, lasciando intendere che dietro a Megalopolis ci sia anche l’eterna espropriazione delle terre da parte del capitale immobiliare.

Antagonista di Cesar Catilina è il sindaco della città, Franklyn Cicero, che invece si richiama alle leggi del vecchio mondo moderno, a partire dal piano regolatore, e a uno sviluppo trainato da “cemento, cemento, cemento” e “acciaio, acciaio, acciaio”. Come nel “nostro” basso impero, la posizione responsabile è quella che si richiama ai vincoli e alla Legge, mentre quella populista parla di “sogni”, di divertimento: in una parola di eccesso. È evidente chi tra i due poli avrà la meglio (e non è difficile vedere una prefigurazione delle prossime elezioni di novembre). Non è allora un caso che Julia, la stessa figlia di Franklyn Cicero, finisca per farsi affascinare da questo immaginario e per innamorarsi proprio dell’antagonista del padre. La responsabilità sta dalla parte della Legge: ma cosa succede quando la trasgressione e l’eccesso invece parlano il linguaggio dei sogni? 

Quello che però rende unico il progetto utopistico di questa città è un nuovo elemento chiamato Megalon, una sorta di materia prima/tecnologia simile all’Intelligenza Artificiale (e ci sarebbe molto da dire sulla fascinazione del cinema di oggi verso materie prime “risolutive”: dalla spezia di Dune all’unobtanium di Avatar, al vibranio di Black Panther) che sembra riuscire a rendere allucinatoria ogni percezione della realtà (bellissime le scene in cui Julia si aggira in un plastico fatto di oggetti messi a casaccio al limite della spazzatura, che viene però “immaginato” come se fosse un sogno). È dalla potenza di questo ingrediente segreto, che pare misteriosamente venire dalla moglie morta di Catalina, che il guru high-tech sembra derivare il suo potere. Ma si potrebbe dire, tramite un’allegorizzazione marxista nemmeno troppo audace, che dietro il Megalon non ci sia nient’altro che l’elemento rimosso di tutta questa ricchezza prodotta, e cioè il lavoro vivo: quello che magicamente fa del grigiore disincantato del mondo una proiezione fantasticamente immaginaria.

Forse ci si sarebbe aspettati da Coppola una critica più incisiva di questo populismo high-tech che nel mondo di oggi ormai flirta in pianta stabile con l’estrema destra fascista americana e con la sovversione delle istituzioni democratiche, ma il suo umanesimo utopista è per certi versi più ingenuo e più generico di ogni critica all’ideologia. La verità di Megalopolis più che in una scrittura drammaturgica comunque densissima e piena di riflessioni tutt’altro che banali (infarcite da citazioni, di Shakespeare, Petrarca, Marco Aurelio e chissà quanti altri) ci pare stare dalla parte di questa giustapposizione di immagini digitali sovrabbondanti, eccessive, a volte platealmente brutte (come le animazioni 3D dei progetti architettonici di Megalopolis, che sembrano venire da una mostra di architettura di serie B), che però ci restituiscono che cos’è l’immaginario visivo al tempo del digitale: un mix di tropi visivi senza contesto, senza chiave di lettura, senza storia. Ai quali tuttavia Coppola prova a dare un ordine di fondo finendo forse per farsi annegare e vincere dal disordine del nostro visivo. 

Ma la (presunta) sconfitta di Coppola, più che parlare di un film che potrà magari essere anche riuscito solo a metà, ci pone tuttavia una domanda la cui smisurata ambizione non può non riguardarci tutti: che cosa vuol dire fare un film oggi che possa riuscire ancora a riflettere su un universo dell’immagine che sembra proliferare senza più controllo e senza più un centro (e forse senza che vi sia più nemmeno l’esigenza di un pubblico che queste immagini le stia a guardare, come nell’Intelligenza Artificiale)?

In quel sorprendente sfondamento della quarta parete a cui abbiamo assistito alle proiezioni a Cannes (e che sarà impossibile riprodurre durante la distribuzione in sala del film), c’è molto più che una trovata a buon mercato per far parlare un po’ la stampa del film: c’è semmai tutta l’inquietudine di un regista che sa che il cinema, se vuole essere ancora una palestra di riflessione per le immagini contemporanee, deve essere all’altezza di questi problemi e di questo mondo, nonostante al spazzatura visiva nel quale è immerso. E se il risultato sarà un fallimento, ben vengano i fallimenti. Saranno comunque più riusciti di tutti quelli che pensano che un buon film sia solo un mix di forme equilibrate e belle storie, attraverso le quali dimenticarci per un paio d’ore della crisi dell’agonizzante basso impero che invece ci aspetta all’uscita delle (sempre più sparute) sale cinematografiche.

Leggi anche: Cannes 77/1. Bentornati nel deserto del reale | Pietro Bianchi

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Pietro Bianchi

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